9.

Per i primi due giorni, quelli in cui la ricerca è incessante e la speranza è una fiamma ancora viva, lei ha un peso in petto, un blocco di pietra che non può spostare. Anna se ne sta in casa, al buio, a ripulire con devozione nostalgica i posti che ha toccato Marta, a immaginare il suo passo barcollante che si presenta sull'uscio, la sua voce che fa: Mamma, sono tornata.

Ma Marta non torna. Anna mangia poco e quel poco lo rigetta, la casa inizia a puzzare di formaggio vecchio e legno, quando si guarda allo specchio fatica a riconoscersi. Si vede gli occhi strani, le sopracciglia cadenti e nere. Poi la linea della bocca, ai cui angoli si sviluppano grumi di pus. Quella non è lei, o almeno non quella vera: è solo un'immagine sfigurata strappata ai suoi incubi. Quando si sveglierà, tutto sarà come prima. Se ne convince e la pietra che ha in petto comincia a sgretolarsi.

Poi però a dormire ci va sul serio. Nel buio di una disperazione troppo fitta, affiora un'immagine che svolazza, come mossa dal vento. Un ragazzo vestito sportivo, un berretto nero calato sulla testa, il tramonto alle sue spalle che ne confonde i contorni. Si risveglia piangendo, con il cuore che batte forte, le vene in testa che pulsano. Assiste al continuo viavai delle forze dell'ordine a casa sua, che le fanno sempre le stesse domande. Quando l'ha vista l'ultima volta? C'è qualche motivo per cui sarebbe potuta fuggire di casa? È uscita con qualcuno quella sera? Ah, e ha idea di chi potrebbe essere questo ragazzo qui, con il berretto nero e i capelli lunghi?

Non sa rispondere a quasi nessuna delle domande che gli vengono poste. Dopo poco inizia anche a dubitare dell'effettiva realtà di quel ragazzo col berretto: magari esiste solo nei suoi sogni; forse il suo cervello, preso dalla disperazione della perdita, ha evocato quell'immagine da chissà quale abisso, e adesso gliela mostra ogni notte, come una sorta di appiglio a cui aggrapparsi per non impazzire del tutto. È questa tesi che inizia a farsi spazio nella sua mente: il ragazzo non esiste davvero, ma è solo un ultimo baluardo contro un mondo in cui niente ha più senso. Ecco, hai qualcosa da cui cominciare a cercare, non tutto è perduto, le dice quell'immagine.

Al terzo giorno le speranze sono poche. Lo capisce dagli occhi del commissario che la evitano, dalla sua voce bassa che dice: Abbiamo cercato in tutta la zona, ma per ora non c'è ancora niente. Ma Anna decide di non fidarsi. Non può rassegnarsi a un epilogo del genere; non lei, a cui il destino ha già gettato sulla via mille ostacoli da aggirare. Non può essere quello, lo stesso destino che l'ha costretta a sgobbare per anni con l'obbiettivo di mantenere Marta, a sottrarle la meta della sua esistenza. Quindi inizia ad affidarsi a Dio, o se non a Lui a qualche entità simile che abbia la potestà delle azioni umane. Anche perché, si chiede, senza di lei cosa vivo a fare? Che senso ha correre senza una fine? Impazzirebbe, se si rassegnasse a quella che, nei rari momenti di lucidità, le pare una verità che le morde la carne.

Già, la follia. Inizia a pensarci sul serio. Dev'essere quella, che alimenta la sua speranza. Oppure è la speranza che argina la follia. Non lo capisce, ma insieme a quello non capisce tante altre cose. Tutto le sembra confuso: la sua casa, la sagoma Marta sul letto, quel dolore alle ossa che sta incominciando a tormentarla. E poi l'aria satura di quella puzza orribile, il suo stomaco che vomita quel poco che lei mangia, il groppo pesante che le balza in gola ogni volta che sente il cigolo del portone al pianterreno e dei passi che percorrono le scale. È Marta, si dice ogni volta. Ma lei non arriva mai. Anzi, giunge a diffidare persino di Marta: forse si è inventata anche la vita di sua figlia per compensare la sua, che è vuota e fredda. In testa ha solo quello: la confusione.

E quel ragazzo con il berretto e gli occhi cangianti.

Però, a pensarci bene, qualcosa di nitido c'è.

Il dolore. Tutto quel dolore: non poteva neanche immaginare che ne esistesse così tanto. E riuscire a sopportarlo, poi. Un coltello ficcato nel cuore che affonda sempre di più e che gira nella piaga, mosso da chissà quale mano crudele. A volte le sente davvero, quelle fitte causate dal coltello, e poi il sangue che stilla dalla ferita, e si porta subito la mano sul taglio. Tastare la pelle liscia è insieme un sollievo e una desolazione: da un lato vuol dire che non c'è nessuna ferita che la sta dissanguando; quando riflette, però, capisce che è assurdo solo pensare a una cosa del genere, e sente ancora il germe della pazzia che fa le uova nel suo cervello. Ha sofferto tantissimo quando ha saputo di essere incinta e quel bastardo del prete non ha voluto riconoscere il figlio, è stata ancora peggio quando è morta sua mamma. Ma nulla è paragonabile a questo: tutto è più piccolo, così insignificante. E pensare che, prima di quel sabato maledetto, pensava di aver avuto una vita orribile. Si sbagliava: adesso lo è, prima era accettabile. Se pensa a quanto peso dava a quelle sciocchezze, una risata nervosa inizia a solcarle le labbra, poi scoppia subito in un pianto intenso, che sembra possa continuare per sempre. E continua così, tra risate isteriche e pianti disperati, sempre pensando a quel paragone. Un sassolino che cade in un lago e la frana di una montagna che sommerge un'intera città.

Poi, con il tempo, la speranza un po' si spegne. Non riesce più a tenere in piedi quell'artificio: si accorge che è una forzatura, e in un mondo che ha scoperto così falso e crudele, mentire a se stessa è l'ultima cosa di cui ha bisogno. Però il dolore sopravvive immutato, senza scemare nemmeno un poco. Anzi, a volte ha l'impressione che sia aumentato, ma forse è proprio perché ha buttato via la speranza, che prima attutiva come un cuscino morbido tutta quella sofferenza.

Continua a mangiare poco. Man mano il suo stomaco inizia a resistere a quei ritmi assurdi e riesce a non vomitare più. Il male alle giunture si fa più intenso: a volte la costringe a letto per intere giornate. Non è un grande problema, perché non esce mai, ma alla lunga il buio della camera da letto inizia a farsi opprimente, il tanfo di chiuso e formaggio andato a male la soffoca. Non sopporta nemmeno la luce del sole, però, quindi di solito apre la finestra, va in un'altra stanza e dopo una mezz'ora torna in camera da letto e la trova rinfrescata e pulita. Poi chiude subito la finestra, perché il sole le dà la nausea.

Qualche volta va in camera di Marta. Si siede sulla sedia dove metteva i vestiti, si fa piccola piccola come se quella fosse un'intrusione indesiderata, come se dovesse nascondersi. Se ne sta lì, con gli occhi che si riempiono di lacrime e singhiozzi continui che le scuotono tutto il corpo. Guarda il letto di Marta, la sagoma del suo corpo secco impressa nel materasso. Una volta si addormenta così, e il mattino dopo la vede: è a letto, con le braccia lungo il materasso e la pancia all'ingiù. Fa una specie di rantolo. Poi però la visione svanisce e rimane solo il letto con le coperte disfatte. L'orma sul materasso sta quasi scomparendo, si accorge in quel momento.

Un'altra volta rivede il ragazzo col berretto. Con il tramonto alle spalle e quegli occhi che cambiano colore, la sua figura è identica a quella che vede nei sogni. Scende di casa di corsa per raggiungerlo. Non sa bene cosa vuole fare: se chiedergli di sua figlia e cose ne abbia fatto o se domandargli il perché la perseguiti nei sogni o se ammazzarlo di botte. Chissà, magari tutte e tre le cose insieme. Sulle scale le pare di volare e si sente leggera: è una cosa che non le accade da tempo. Quando esce dal portone, però, il ragazzo non c'è più. Solo allora si accorge che è notte: il tramonto dev'essere passato da ore. Una tristezza densa le s'infila nel cranio e le fa pesare la testa, il dolore alle ossa, sopito durante la corsa sulle scale, colpisce le ginocchia e le caviglie. Passa lì tutta la notte, gli occhi fissi sul lampione, la visione di quel ragazzo che si compone e poi si dissolve ogni secondo.

La telefonata della polizia arriva il 4 Dicembre. Lo capisce appena vede il mittente dallo schermo del cordless: l'hanno trovata. E infatti un agente dalla voce vagamente familiare glielo dice. Deve correre in questura, perché c'è da identificare il cadavere.

Appena chiude il telefono un gelo le penetra nel corpo. Se ne accorge solo allora, ma la speranza non si era mai spenta: si era solo affievolita, ma era rimasto qualche carbone ardente e scoppiettante, pronto a risvegliarsi all'occorrenza. Questo freddo, però, l'ha uccisa del tutto. Una leggera emicrania inizia a batterle nella testa, tutto intorno si fa sfasato e oscuro, come in un sogno. Forse è meglio così, si dice prima di uscire di casa.

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