4.
La terrazzina è abbastanza grande. C'è spazio per quattro tavolini di metallo rotondi disposti a qualche metro di distanza l'uno dall'altro, ognuno con una pianta diversa al centro. Alla sinistra, quando lo spazio finisce, c'è una panchina a dondolo. Un'inferriata grigia si dirama in tutte le direzione, dando ad Anna la sensazione di trovarsi in un carcere, e impedisce di cadere.
Camminano fino alla panchina a dondolo. Fuori c'è solo Franca, con le mani poggiate alle sbarre a guardare le strade che si diramano nella città. Nonostante si trovino al quarto piano, non è un grande spettacolo: lì vicino c'è il centro commerciale, una sorta di baraccopoli da cui arriva costantemente una musica napoletana e, in lontananza, s'intravede un granaio.
Anna è un po' nervosa. Non sa perché, ma l'idea di continuare a parlare di sua figlia con Michele la mette in agitazione. Eppure lui le sta simpatico. Anzi, è anche carino. A sessantatré anni non dovrebbe farsi strane idee su un uomo di dieci anni più giovane, ma adesso il cuore galoppa nel petto e le mani iniziano a sudare. Sarà per quello che non è tranquilla, si dice. E poi non ha mai parlato di quella cosa a nessuno: non sa se riuscirà a esprimere a parole undici anni di disperazione. Il sole, filtrato in parte dall'inferriata, le finisce negli occhi. L'aria è calda e immobile e lei non sopporta l'afa: suda e inizia ad agitarsi per farsi un po' d'aria, ma è sempre peggio. Il male dell'artrite le morde le ginocchia.
Michele cammina in un modo strano, con il corpo rigido. Ha il capo basso e si morde le labbra. A volte allunga il passo, altre volte lo accorcia. Anna, senza accorgersene, si adegua a quell'incedere barcollante.
Arrivano alla panchina e si siedono. I muscoli di Michele si rilassano e lui la guarda negli occhi. Anna sorride, intenerita da quella tensione che lei non capisce. C'è qualcosa, nel fondo degli occhi grigi di Michele. Un'ombra che a volte si allarga, di rado scompare. Il più delle volte se ne sta lì, fredda testimone di una battaglia interiore. Forse è anche questo che la affascina, di Michele: entrambi si portano qualcosa dentro. L'alone di una lotta, forse. Solo che lei non sa quale sia, questa lotta, in Michele. Glielo chiederà dopo, forse.
«Dov'eravamo arrivati?» chiede Michele.
«Non ricordo». Ed è vero: nelle ultime ventiquattro ore ha pensato talmente tanto a quella storia, alle parole per raccontarla, che gli sembra di averne già parlato cento. Non capisce cosa ha detto a voce e cosa invece è rimasto nella sua mente. Un senso di nausea la prende quando pensa al fatto che dovrà raccontarla di nuovo.
«Dai, ricominciamo da capo» dice Michele, sorridendo.
«Sì, va bene». Fa un grande respiro. «Mia figlia, Marta. Avevo trentaquattro anni quando è nata. Ho dovuto crescerla da sola, senza un padre».
«Sì, il prete» dice Michele.
«Sì, il prete. Don Antonio non ha mai voluto riconoscerla e io non potevo insistere. Non sarei mai riuscita a convincerlo. Ho anche provato a minacciarlo, diciamo. "Se non mi aiuti con i soldi lo faccio sapere a tutti", gli dicevo». Le passa in mente Don Antonio. Il viso sudato e gonfio, il fisico pingue. La voce calma della predica che diventava un grugnito raspante a letto. Le fa schifo ricordare il suo volto, lo stomaco si rivolta ad immaginare che ci è stata a letto. Più di tutto, le fa male la circostanza per cui è finita a letto con quel bastardo. «Non potevo farlo davvero, però. Io lavoravo in un ufficio di un commercialista della zona, e la paga, per quanto bassa, almeno mi permetteva di darle da mangiare. Se si fosse sparsa la voce che Marta era figlia del peccato, io avrei perso il lavoro, e non avrei nemmeno avuto un soldo dal prete, che avrebbe rinnegato il tutto».
Michele la guardava col viso piegato su una spalla e gli occhi ben aperti. Ogni tanto si tirava su a sedere con il busto.
«Così l'ho cresciuta da sola. La lasciavo a mia madre quando dovevo lavorare. Poi però lei si è ammalata e io non potevo farci affidamento». È il secondo ricordo che le fa più male, subito dopo quello di sua figlia. Sua mamma con la bombola d'ossigeno, la bocca piccola che succhiava aria. Anna non c'era in ospedale, quando la mamma è morta. Doveva lavorare per sua figlia. Tutta fatica inutile, poi. Uno squarcio sanguinante si riapre nel suo cuore. «Quando è morta... mia mamma, dico... Marta aveva cinque anni. Doveva cominciare le elementari. Avevo una pausa pranzo per andarla a prendere a scuola, ma poi non avrei saputo a chi lasciarla. Non avevo nessuno. Quindi l'ho mandata in un collegio di suore, che la tenevano fino a sera. Poi io tornavo a casa esausta e non avevo le energie per passare del tempo con lei, quindi, fino a quando non è diventata abbastanza grande, io con lei non stavo quasi mai». Altra rabbia che si risveglia.
Michele la guarda come prima: gli occhi intensi, la testa un po' piegata. Sembrerebbe una statua, se non fosse per quel movimento continuo di aggiustarsi i capelli. Anna lo guarda e un po' di quella rabbia che ha in petto sbollisce, sostituita da un velo morbido che le avvolge il cuore.
Poi sente un suono rauco. Sobbalza: per un attimo pensa al verso del prete in camera da letto. Invece è solo Franca, che è ancora poggiata all'inferriata. Adesso però si gira e le mette gli occhi addosso. Le sopracciglia corrugate, la schiena piegata. Le mette soggezione.
Il pensiero del prete le fa venire il bisogno di spiegare. «Prima di continuare, voglio parlarti del prete. Non voglio che pensi che andavo a letto con tutti gli uomini che mi trovavo davanti. Un religioso, poi...» Fa una risatina, cercando di attenuare un po' il nervosismo che trapela da quelle parole, ma quella si strozza subito. Tace per qualche secondo: non sa se vuole continuare a spiegare.
«Se non vuoi dirmelo, non fa niente. Non devi giustificarti» dice Michele. Come se gli avesse letto nel pensiero.
La cosa dovrebbe metterle apprensione, o almeno sorprenderla. Però la rende solo più tranquilla: adesso si sente in grado di parlarne. «No, anzi. Parlarne mi fa bene». Quando dice queste parole, Michele sorride. Qualcosa di fresco le entra nel cuore e all'improvviso si sente leggera. «Lui era un tipo molto amato nel quartiere. Un sempliciotto, uno di quelli vicino alla gente. Almeno, così fingeva di essere. Poi un giorno si sparge la voce che lui ha abusato di un bambino. Non so se fosse vera la notizia, ma non credo, perché nessuno ha mai indagato sul serio. Però lui accusò me. Mi disse che io avevo messo in giro quelle falsità sul suo conto e che conosceva il mio datore di lavoro: me l'avrebbe fatta pagare. A meno che...» A quel punto smette di guardare Michele. Guarda prima l'orizzonte, poi la terrazzina. Franca è sempre lì che la scruta. Ritorna sull'orizzonte.
Non ci ha pensato per niente, in quegli anni. Il caso di sua figlia aveva occupato del tutto la sua mente, impedendole di pensare ad altro. Impedendole persino di provare dolore per altri motivi: qualsiasi cosa, confrontata a Marta, perdeva d'importanza. Stronzate egoistiche senza valore. Ora però prova rabbia, perché è da lì che è iniziato tutto. Qualche lacrime le bagna gli occhi.
«Io non potevo perdere il lavoro. Stavo studiando all'università e grazia a quello mi mantenevo. Poi ho smesso, quando sono rimasta incinta. Quindi l'ho lasciato fare. È durato quattro mesi, fino a quando gli ho detto che aspettavo un bambino. Mi suggerì di abortire, meglio se clandestinamente. Era il 1987, quindi la legge sull'aborto esisteva già, ma lui pensava che farlo in un ospedale avrebbe provocato problemi. Io comunque non lo feci». Qualche lacrima le scorre sul viso, ma lei le asciuga e smette. «Non avrei dovuto farlo».
«Non devi giustificarti» ripete lui, ancora immobile. «Può succedere. È colpa sua, non tua».
È vero. Però a quel tempo tanta gente l'aveva giudicata. Era rimasta senza amici, aveva litigato con i genitori. Forse era per quello che suo padre era morto qualche mese dopo che gliel'aveva detto. Troppo dolore, il disonore di una figlia che non sa nemmeno di chi è la creatura che porta in grembo. Neanche a loro aveva parlato del prete, naturalmente.
Respira due grandi boccate d'aria, chiude gli occhi. Quando li riapre si è calmata un poco. «Bene, dove eravamo?»
«A Marta che andava dalle suore» dice Michele.
«Ecco, sì. Dicevo, quando mia mamma è morta, l'ho lasciata dalle suore. Poi, quando è diventata grande abbastanza, alle scuole medie, ho lasciato che andasse a scuola e tornasse da sola. Per me era meno faticoso, e almeno potevamo passare insieme anche il primo pomeriggio. Ed è in quel periodo che mi sono accorto che qualcosa non andava. Era... strana». La parola che le viene in mente da sempre è "autistica", ma non ha mai avuto il coraggio di pronunciarla. Perché Marta non era scema, anzi. A volte pensa che fosse troppo intelligente per stare al mondo. Parlava poco. Se ne stava quasi sempre seduta, gli occhi fissi nel vuoto, la mente che andava chissà dove. Non l'ha mai capito. Non ha mai capito lei, nemmeno, ed è la cosa che gli fa più male. Magari, conoscendola meglio, l'avrebbe salvata. «Non parlava quasi mai. Non si curava dell'aspetto, o del primo trucco, come facevano tutte le sue coetanee. Le sue amiche uscivano il sabato e lei rimaneva sempre a casa a fare niente. Non ha mai fatto un viaggio, nemmeno le gite con la scuola: non ci voleva andare. Sempre in città, e l'unica strada che conosceva era quella che portava da casa a scuola».
Si ferma a pensare per qualche secondo. Gli è venuto in mente un episodio. È uno degli unici eventi che ricorda di Marta: per il resto c'è solo un groviglio di date ed episodi. Se non ricorda niente della sua vita con la figlia, è perché Anna non le ha mai dato niente da ricordare. Nonostante tutti quegli sforzi che faceva per mantenerla, non le ha mai offerto qualcosa di esaltante, per cui valesse la pena vivere. Sarebbe dovuta essere lei a introdurla al mondo, si dice. Invece non voleva privarsi del già esiguo tempo che ci passava insieme e se la teneva per sé. All'inizio le faceva quasi piacere quella sua tendenza ad isolarsi, a non uscire mai. Era una sorta di rassicurazione: non c'era nessuno che volesse rubargliela.
«Una volta, aveva avuto tredici anni, credo... le dissi di invitare delle amiche a casa il sabato sera. Lei mi disse di no, ma alla fine io insistei e lei si convinse, forse per farmi contenta. Vennero in tre e passarono tutta la serata in cameretta. La cosa che mi sembrò strana è che non sentii nessun urlo, nessuna risata, nemmeno un chiacchiericcio. A un certo punto accostai l'orecchio alla porta: silenzio. Pensai quasi che non ci fosse nessuno, in stanza, ma dalla porta satinata vedevo le loro sagome.
«Quelle se ne andarono presto. Ricordo che Marta uscì qualche minuto dopo dalla camera. Era cadaverica e mi parve quasi più magra del solito. Mi guardò con gli occhi neri arrabbiati, stanchi e rossi. Poi andò a dormire senza salutarmi». Solo adesso le vengono in mente altri episodi, quasi tutti confusi. Non può raccontarli tutti perché Michele si annoierebbe, e poi sente che, anche se ci provasse, non riuscirebbe mai ad esprimere a parole il pasticcio che ha in mente.
A un certo punto Marco, l'infermiere, sporge la testa dal balcone. «È pronta la cena» urla.
«Continuiamo domani» sussurra Michele. La voce le provoca un brivido sulla schiena. Sorride, quasi senza volerlo, e sente qualcosa nello stomaco che si agita. È piacevole, inebriante. Vagamente familiare, anche.
Si avviano verso il balcone. Michele cammina ancora in quel modo strano e, osservandolo, Anna capisce il perché. Sta evitando le linee che dividono le varie mattonelle. Un'altra carezza le sfiora il cuore. Poi si vede Franca di fronte, che la guarda con il labbro un po' imbronciato.
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