11.
Il pomeriggio, parlando con Michele, deve trattenere quell'euforia che le scorre nelle vene dalla mattina. Non vuole che traspaia dalla sua voce, non vuole lasciarsi illudere dall'accadimento di una sola notte. Se trattiene l'eccitazione, starà meno male nel caso la notte sognasse di nuovo quel ragazzo.
Però c'è qualcosa che le dice che non accadrà. Dev'essere un presentimento, anche se non ha mai creduto a queste cose; un appagamento che le riempie il cervello, la rilassa e le suggerisce che è tutto finito. Sente che lo spazio vuoto che ha sempre avuto tra il petto e lo stomaco si sta rimpicciolendo.
Ripensa al finale della sua storia. Deve ancora raccontarlo a Michele ed è un po' in apprensione: magari anche questa volta parlargliene risveglierà il dolore, soffocando del tutto l'esaltazione che prova. Ma anche in questo caso ha la sensazione che non accadrà, che narrare quell'ultima parte l'aiuterà a mettersela alle spalle.
Sono sempre sulla panchina a dondolo. Ogni tanto lui dà una spinta con i piedi e la panca inizia a muoversi, fendendo l'aria immobile e creando un mulinello di vento. Le loro gambe a volte si sfiorano e Anna cerca di aumentare i loro contatti. Michele ha una cicatrice lunga e rosso sangue che sbuca fuori dal pantaloncino e termina al centro del ginocchio, allargandosi verso la fine. Quando si accorge che Anna la sta guardando, la copre con il palmo della mano. Anna alza il viso e gli vede gli occhi strabuzzati, con delle venature rosse intorno alla pupilla. Le guance si sono imporporate.
«Che c'è?»
«No, niente. La cicatrice... È una storia vecchia, non mi va tanto di parlarne» dice Michele, arrossendo ancor di più. Si passa una mano sul viso, toglie una gocciolina di sudore appesa alle labbra.
«Perché?»
Michele tace e si morde il labbro. «Non lo so» dice dopo qualche secondo, ridendo mentre si gratta i capelli con una mano.
«Puoi parlarmene, se vuoi». Mentre parla, sente le braccia e le labbra che tremano. Forse si è spinta troppo oltre e non doveva fare quella proposta.
«Ma no, ti annoierei».
Anna insiste per un po' e alla fine si fa promettere che il giorno dopo Michele gliene parlerà. Non vede l'ora di ascoltarlo, di ammirare quegli occhi grigi che scavano nel passato. Magari, quando avrà narrato la sua storia, si sentirà libero ed euforico come si sente lei adesso.
E magari anche lui sentirà quel calore in petto che dura da qualche giorno. Ci pensa e un sorriso si forma sulle sue labbra.
Però prima deve mettere la parola fine sulla vicenda che sta raccontando lei. Cerca di ritornare padrona di se stessa, respira tentando di placare l'elettricità nel sangue. Un poco ci riesce.
«Ti ricordi cosa ti ho detto ieri?» O forse è stato ieri: non lo ricorda più. Non importa, comunque. «Quella cosa riguardo la storia che è un pezzo di vetro che si spacca».
«Sì».
«Fino ad ora la storia è lineare, più o meno, o almeno così ho cercato di raccontartela. È qui che iniziano i dubbi». È qui che il vetro si spezza, pensa. «Allora, ti ho detto che la ritrovarono uno dei primi di dicembre. Era in un campo lontano da casa, lontano dalla città. Non ricordo di preciso quanto, ma credo sui cinquanta chilometri. Me lo chiesero subito: com'è potuta arrivare fin lì? Aveva il motorino o la bici o qualcosa del genere? Io non lo sapevo. Motorini non ne aveva, la bici era rimasta a casa». Sospira. Ricorda il corpo morto di Anna, la parte destra della sua faccia. Aveva gli occhi tutti bianchi, più piccoli di quanto li ricordasse, e il viso emaciato e bianchiccio. E le labbra cianotiche, i capelli limacciosi, la pelle invizzita. «Mi fecero vedere il corpo. Non avevo dubbi, era lei. Era... era più piccola. Non so come dirlo, ma era come se il suo corpo si fosse ristretto. Avevo l'impressione che avrei potuto tenergli la gola tra il pollice e il medio, senza nemmeno impegnarmi tanto, ma non lo feci. Ed è lì, ancora prima dell'autopsia, che parlando col medico vennero fuori i primi dubbi.
«Doveva essere morta da parecchio tempo, ma il cadavere si era conservato bene. Come se fosse stato per tutto il tempo in una cella frigorifera, disse il medico. Allora pensai che potesse essere vero e che l'assassino si fosse stancato di quel... di quel gioco, diciamo, e l'avesse lasciata in quel campo aspettando che qualcuno la trovasse. Ora mi sembra non avere molto senso».
«Il campo dove l'hanno ritrovata era pubblico?» chiede Michele.
«No, era di un privato, che però disse che ci andava una volta ogni tanto per togliere le erbacce. È così che l'aveva trovata». Vede ancora il lato destro della faccia di Anna e le budella si torcono. «Stava tagliando l'erba con il tosaerba quando ha sentito sotto la macchina qualcosa di più duro. Se n'è accorto solo dopo, quando ha fatto la seconda passato. E infatti le era passata sulla faccia. Sul lato destro la pelle era tutta a brandelli, all'altezza delle tempie e del mento si vedeva l'osso del cranio. Non so nemmeno come feci a non vomitare.
«Comunque, ti dicevo... il corpo si era conservato bene. Era trascorsa tutta l'estate, nel frattempo, quindi non sarebbe stata possibile una cosa del genere al sole. Doveva essere stata rinchiusa da qualche parte. Ma nessuna poteva immaginare dove, perché non si aveva nemmeno il nome di un sospetto».
«Ma...» dice Michele, poi tace un attimo. Corruga la fronte e si pizzica il labbro con le unghie. «Quell'uomo che l'ha trovata, erano sicuri che non fosse lui?»
«Sì. Mi pare che dimostrò di essere stato fuori per lavoro, in quei giorni. E comunque se fosse stato lui non l'avrebbe lasciata nella sua proprietà. Ci disse anche che appena una settimana prima era tornato in campagna l'ultima volta, ma non aveva tagliato l'erba e non l'aveva notata».
Michele ondeggia un po' la testa e mugola. «Vai avanti».
«Sì. Dal bacino in giù era nuda. Le avevano strappato i vestiti, aveva lividi sia sulle cosce che sul seno. Però, dopo l'autopsia, mi dissero che non c'erano segni di violenza sessuale su di lei. E allora perché strapparle i pantaloni, farle tutti quei lividi? Non aveva senso. Ipotizzarono che fosse una sorta di gioco in cui lui voleva umiliare lei, ma non ebbero mai prove concrete». Si accorge in quel momento che sta andando avanti in un modo un po' confusionario, ma poco importa. Non c'è niente di definito in quello che sta raccontando.
«Ecco, dopo l'autopsia, mi confermarono che era morta parecchio tempo prima, probabilmente la stessa sera che l'ho vista per l'ultima volta. Venne fuori anche che era morta annegata, e infatti aveva le labbra blu. Annegata dove, però? Qui vicino mare non ce n'è, fiumi nemmeno, e poi con tutti quei segni di violenza era impossibile che fosse annegata da sola. Era probabile che fosse un pozzo, mi dissero. Si sarebbe spiegata anche la cosa del corpo che non era in decomposizione, perché l'acqua fredda avrebbe aiutato a conservarlo. Ma nella casa dell'uomo che l'aveva ritrovata non c'erano pozzi, e nemmeno una vasca. Perquisirono anche le case vicine, ma nulla. Vicine, poi: la più vicina era distante tre chilometri. Nessuno aveva idea di come proseguire le indagini». Tace per un attimo e ne approfitta per riprendere fiato. Quell'euforia di prima è sbollita, ma non si sente triste. È solo che ogni volta che ci ripensa ha l'impressione di aver perso qualche dettaglio qua e là, e così ricomporre il quadro sarà sempre più difficile.
«Non riuscirono a trovare più niente?»
«No, un attimo, ora finisco. Allora, sempre dall'autopsia scoprirono che aveva il cranio rotto. Poteva essere stato a causa della caduta nel pozzo, ma mi dissero che era successo dopo la morte, o comunque mentre moriva. Non era possibile: era morta soffocata, quindi sarebbe dovuto passare del tempo tra la rottura del cranio e la morte. Io dissi che magari era stato il tosaerba a romperle la testa, ma anche questo non era possibile. Non aveva la forza necessaria. L'unica cosa plausibile, spiegarono, è che fosse morta annegata in un pozzo, e poi magari la grandine o qualcuno che si divertiva a tirare le pietre le avesse rotto la testa già da morta.
«Ma rimaneva il fatto che non c'era nessun pozzo nelle vicinanze. Possibile che l'assassino l'avesse trasportata dal posto in cui l'aveva uccisa a quel campo senza che nessuno se ne accorgesse? Erano almeno tre chilometri, ma ,volendo, con l'auto di notte sarebbe passato inosservato. Ma perché farlo dopo tutto quel tempo, poi?
«E anche i vestiti strappati. Chissà perché, mi chiedo ancora. Spero solo che non l'abbia violentata in qualche modo che non posso capire. Ci ho provato per dodici anni a dare un senso a tutti questi indizi senza senso, a riunire questi cocci di vetro spaccati. Ma mi è sempre mancato qualcosa». Sente che le lacrime stanno affiorando negli occhi. Non vorrebbe piangere e non si sente nemmeno triste, ma si è risvegliato un nervosismo che le fa fremere le gambe e il petto. Stringe le labbra e trattiene il pianto, ma Michele dev'essersene accorto, perché si avvicina e la avvolge con un braccio. Anna poggia la testa sulle sue spalle. Passano qualche minuto così, Anna che tira su col naso ed è scossa dai tremiti.
Poi ricorda un altro particolare. È tanto tempo che non le viene in mente e adesso le causa un brivido di tristezza sulla schiena. Ma non è triste per se stessa, non più; è sconfortata dalla sofferenza di sua figlia. «C'è un'altra cosa».
«Dimmi» dice Michele. Il suo fiato sul collo le provoca un altro brivido, questa volta piacevole.
«Aveva le corde vocali strappate. Aveva urlato, urlato tanto e per tanto tempo. Ovunque fosse, nessuno l'ha sentita».
Rannicchiata com'è sulla spalla di Michele, non può vederne il viso. Davanti a sé ha il suo braccio, con un reticolo di rughe lievi che parte dalla mano e arriva al gomito. Vede la sua pelle che si accappona, sente l'abbraccio intorno alla sua spalla che si fa più forte. Non regge più e scoppia in un pianto liberatorio.
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