Un mittente


Iniziare una storia pensando al suono delle parole non è funzionale. Cercare di trovare musicalità nell'allitterazione nervosa di un tremito udito fuori dalla finestra, non fa onore alla letteratura.

Lo sapevo, lo sapevi anche tu.

Ti scrivo perché la mancanza mi macchia la camicia di sangue mentre con le dita stringe il mio cuore e con le mani serra la mia gola.

Ti scrivo perché manchi, manchi a questo tavolo, manchi a queste mani.

Ricordo che ascoltare per me era un movimento di danza quando ridevi con brio alle mie parole.

E queste frasi si fanno sconnesse, come un terreno ripido, sotto l'intensa pioggia di un'alluvione estivo. Ho in mente tutte le volte che tornammo a casa sotto la pioggia, io e te. Mentre la pelle brillava e i lampioni con lei, mentre il mondo piangeva di gioia e la terra franava.

Mancasti alla cena di venerdì scorso, a quell'importante annuncio che venne fatto il mese scorso. Mancasti a ogni evento al quale avevi promesso di esserci.

Non mi chiedo il perché e non lo chiedo a te. A volte è meglio soffrire senza saperne le motivazioni.

In realtà non voglio lasciarti andare, voglio che il tuo ricordo viva per sempre sotto la luce indagatrice del mistero, sotto l'alone pallido di polvere, come qualcosa che non è mai stato trovato ma che non si è mai spostato da casa sua.

Non sento di dire che la tua partenza mi spaventa, sento di dire che il mio addio non è realizzabile.

Ti racconto perché non molti hanno avuto la fortuna di potersi raccontare, e te di certo sei fra questi.

Racconterò di come coglievi le briciole cadute da mani, e di come tiravi su la manica della maglia quando dovevi pensare al domani.

Non dimenticherò di dire quanto la solitudine fosse diventata tua fedele compagna, perché ora che non ci sei tu ha già trovato qualcun altro con cui stare.

E sai, ora che abito vicino a una tua vecchia conoscenza, posso dire di star scoprendo più cose di te, anche se non ci sei più.

Può una persona raccontarsi senza mostrarsi?

Mi avresti detto che questa domanda è una stronzata retorica da filosofi, che non esistono le persone, figuriamoci un'anima al loro interno.

Non siamo noi a lasciare le impronte dicevi, ma ciò che tocchiamo a raccoglierle. E allora mi spiegavi di come nell'universo, nel cosmo, con l'assenza di gravità fosse impossibile riuscire a spostarsi autonomamente.

Non puoi mica nuotare, dicevi. Perché non c'è nulla pronto a sostenerti per permetterti di agire.

La fregatura dell'universo, mi spiegavi, è che sei solo. E sei solo non fai un cazzo.

E quando il discorso arrivava al culmine, così vicino all'apice che mancava un niente a capirlo, ti bloccavi, sorridevi e ti accendevi una sigaretta.

E tutto finiva così, senza mai arrivare all'apice della discussione. Mi tenevi sul filo del rasoio, a pendere dalle tue labbra, ad aspettare le tue parole e il tuo respiro come se potessero dare il giusto tempo per scandire i battiti al mio cuore.

E quando ti bloccavi, lo giuro, si bloccava tutto.

Non ti ho mai chiesto perché, nuovamente mi avresti risposto con una delle tue solite frasi fatte contenenti almeno una volta il termine "stronzate".

Lo so perché, ed è il parce-que più banale della storia del mondo.

Perché per ogni salita c'è una discesa, e te non hai mai trovato bellezza o arte nelle discese.

Si capisce subito, quando passi si sente nel tuo profumo di rose. Non ci dev'essere discesa, solo salite.

Mi hai ammaliato e mi sento come se la dispersione che provo fosse la fonte stessa del mio piacere, e il mio unico alimentatore di volontà di vivere.

E sei tu che mi hai ridotto così, don Giovanni, maledetto che amo. La schiavitù è l'unica condizione che posso accettare dopo ciò che mi hai fatto e l'assenza di volontà non mi reca odio nei tuoi confronti.

Perché dicesti anche tu: "Noluntas".

E ridevi, sprezzante.

Non ci credevi davvero, almeno non per te.

Ma per me sì.

Era l'unica filosofia che potessi davvero integrare.

E te l'avevi capito.

Non lo so. Per me sei come Circe e plasmi le volontà degli altri, finché questi cessano di esistere, se non per te.

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