Capitolo 17 - Capodanno da Chelsea Freemont
New York era in fermento.
La notte più importante dell'anno era sulla bocca di tutti, e il brusio concitato che precedeva i festeggiamenti ronzava insistente, sovrastando i clacson dei taxi gialli che affollavano gli incroci di Manhattan.
Il programma della serata era ricco di eventi: la folla si sarebbe distribuita tra concerti, parchi, ristoranti, mentre i più tradizionalisti avrebbero esibito fieri il biglietto per un posto a Times Square da cui ammirare il Ball Drop, l'iconica discesa della palla gigante dal grattacielo One Times.
Tutto questo mentre, qualche isolato più in là, i cittadini più fortunati avrebbero salutato il nuovo anno in compagnia del gotha del who's who newyorkese, ingoiando canapè e caviale siberiano, inebriati da flûte di Moët & Chandon e battute sarcastiche su improbabili faide familiari.
Erano infatti almeno vent'anni che la frizzante Chelsea Freemont, erede cinquantenne della galleria d'arte Freemont's Antiques a Soho organizzava, per amici più o meno intimi, un Capodanno fatto di fine conversazione, cibo proveniente da ogni parte del mondo e ammiccamenti che potevano sfociare in nuovi business, relazioni e amicizie durature.
Tra gli eletti, quell'anno, c'era anche Charlotte.
Grazie alla crescente notorietà professionale di Dionne, un pezzetto di quell'Olimpo era arrivato alla portata della sua mano. Non credeva di c'entrare molto con l'ambiente di Chelsea, fatto di lustrini e parole inventate, ma era intenzionata a far onore a chi l'aveva invitata e divertirsi, per una volta.
Inoltre conosceva più di qualche persona che sarebbe stata presente, a partire da Ray, il fidanzato di Dionne, che sperava si sarebbe sentito tanto sperduto quanto lei.
L'idea che ci sarebbe stato anche Patrick però, la metteva leggermente a disagio.
Si scosse all'improvviso da quel flusso di pensieri e diede un sorso al suo the appoggiata al bancone della cucina, mentre Richard entrava quasi correndo nella stanza e spalancava in uno slancio il portellone del frigo per prendere del succo di mela. Era vestito di tutto punto, con un abito grigio scuro, camicia bianca e cravatta.
«Mi sa che sei in anticipo, la festa è tra...- guardò l'orologio del cellulare -...circa dieci ore» ghignò con un cenno alla puntigliosa eleganza mattutina del fratello.
Lui si bloccò per fissarla indignato, la bottiglia di succo sospesa a mezz'aria. «Cos'ha il mio Armani che non ti piace?»
«Oh andiamo Rick, stavo solo scherzando!» rise lei.
«In ogni caso non verrò alla festa» riprese lui mentre infilava una cartellina nella ventiquattrore.
«Non sei stato invitato?» Charlotte era incredula. Pensava che Richard avesse un posto d'onore a tavola quella sera.
«Oh in realtà sì, ma ho un altro impegno.»
«Scusami?»
«Charlotte, la festa di Chelsea è come...- si guardò intorno -...come i SUV!»
Lei lo guardò senza capire.
«Forse andavano di moda qualche anno fa, ma ora sono stantii, obsoleti, e se vuoi stare al passo devi guidare una coupé.»
Charlotte gli rise in faccia senza ritegno.
«Intendo che le feste di Chelsea erano davvero qualcosa di esplosivo, una volta. Artisti, luminari della medicina, attori, poetesse, maghi della finanza. Ma ormai questi eventi - prese la valigetta e si sistemò la cravatta - hanno fatto il loro tempo.»
«OK, signor Benjamin Button, parli come un novantenne. In ogni caso, che farai tu, se non verrai alla festa?»
«Devo vedere un cliente, penso che sarò a casa sul tardi, è una brutta situazione» fece come per tagliarsi la gola con un dito.
«Uh...ho capito. - rabbrividì lei - Quindi te ne starai a casa da solo, è così?» chiese Charlotte interdetta.
«Non sarò solo, avrò il mio lavoro - diede due buffetti alla valigetta - a tenermi compagnia» sorrise infilandosi il cappotto. «Ah e un'altra cosa» aggiunse voltandosi verso la sorella e incontrando il suo sguardo. «Patrick è un caro ragazzo. Ma non aspettarti che dopo ieri sera sia cambiato qualcosa tra voi. Ti ha portata a letto, ha avuto quello che voleva, e finalmente ha fottuto anche Josh. - sospirò pensoso - Non fare passi avventati, Lottie. Fidati di me.»
«Scusami, ma ho capito male quando mi hai detto che poteva essere quello giusto, se avessi smesso di odiarlo?»
«Non intendevo certo che dovevi fartelo!»
«Potevi essere più chiaro.»
«Maledizione, sei passata dal volerlo morto a finirci a letto nel giro di sei ore!»
«Non...non è come pensi...ci ho pensato molto e...»
«Non prendermi in giro.»
«Ascolta Rick, io... - esitò - ...ero confusa! Mi ha raccontato di Josh, mi ha spiegato che lui non c'entrava, e mi sono resa conto che forse ho fatto un errore a non scegliere lui! Tu non hai mai voluto dirmi niente, quindi mi sono fidata! Forse è stato tutto un fraintendimento...forse ho creduto di vedere e sentire solo certe cose su Josh, e dimenticarne altre, forse lui non è malvagio, forse, forse mi piace, ecco!» disse d'un fiato e si fermò sospirando.
Richard rise amaro. Abbandonò la ventiquattrore e si sedette vicino a sua sorella, abbassando il tono.
«Magari non l'hai capito Lottie, ma per Patrick quelle come te sono una partita già vinta. Lui ti corteggia, ti dice che sono anni che pensa solo a te. Ti invita a cena una volta, due, tre forse? Finché tu non dici sì. Oh, e fermami se sbaglio qualche dettaglio» continuò sicuro.
Lei rimaneva impassibile, iniziando a provare imbarazzo.
«Poi vi vedete una o due volte, lui prima dice tutte le cose giuste, è mansueto, anzi quasi combattuto, non vuole certo mancare di rispetto al suo amico morto, no? Ti fa tornare ai ricordi della tua infanzia, poi prova a toccarti, forse ti bacia? Poi torna in sé e ci ripensa, sparisce. Non del tutto, forse solo qualche giorno. Ti lascia sulla corda e tu cominci a pensarci sempre più spesso.»
Ora Richard aveva tutta la sua attenzione. Lui si mise a ridacchiare, scuotendo la testa.
«Dio, è davvero troppo facile. Ma com'è possibile che cadiate tutte nella stessa trappola?» Lei lo osservava e voleva vomitare. Si sentiva sciocca, cieca e usata.
«Vado avanti? Ecco, poi decidi di andare a cena con lui, perché in fondo, avanti, Josh ormai è cenere, non può vederti mentre te la spassi con il suo migliore amico, giusto? Giocate, ridete, lui ti riempie il bicchiere e oh mio Dio è così affascinante!» gracchiò Richard in uno stupido falsetto.
«Di lui inizia a piacerti tutto, le fossette ai lati del suo sorriso enigmatico, i capelli che gli cadono sugli occhi, il suo incredibile gusto nel vestire, l'accento del Kent. Persino la sua macchina, che fino a poco tempo prima giudicavi pacchiana, ti fa mancare il fiato, oh è così nera e lucida ed enorme!»
Richard si alzò per recuperare le sue cose, rizzandosi per dare l'ultima lezione di vita alla sorella, che lo fissava a bocca aperta senza riuscire a rispondergli, colta nel dettaglio più intimo dei suoi pensieri, che ora uscivano parola per parola dalla bocca di lui, come in uno scomodo numero da ventriloquo.
«E poi, quando lo champagne ti ha completamente tolto la ragione, pensi che sia un'ottima idea dargli quello che vuole, perché se lo merita, perché tuo padre lo adora, perché tuo fratello e lui sono così amici, perché, perché, perché...e in un attimo tutte le ragioni che avevi per non farlo sono andate in fumo e tu inizi a dubitare del tuo stesso cervello.»
«Hai finito?» a Charlotte veniva da piangere, messa davanti alla fallibilità del suo stesso giudizio.
«Sì, ho finito. Charlotte, non ti ho detto tutto questo per farti stare male, ma perché conosco bene Patrick. So che ti ha raccontato di quella notte e della meravigliosa idea che ha avuto per salvare Josh. Peccato che ti abbia esposto una versione, direi edulcorata, della questione. Non sto dicendo che sia un bugiardo - alzò le mani in un gesto di difesa - ma vorrei che tu fossi più accorta. Ti fidi troppo delle persone.»
«Quindi vuoi dirmelo tu cosa è successo davvero?» gli chiese con un filo di voce.
Richard si alzò per lasciare la cucina. «Ora devo andare, Lottie» sospirò mentre si incamminava verso l'atrio.
Charlotte rimase senza parole mentre lo vedeva andar via e chiudersi la porta dell'appartamento alle spalle.
Richard era sempre così, diretto, tagliente, ma soprattutto furbo. Si chiese se non ci fosse altro dietro al desiderio del fratello che lei non si lasciasse sedurre da Patrick. Scaltro com'era, aveva capito cos'era successo la sera prima, nell'appartamento sopra al suo. Forse l'aveva anche sentita rientrare, ubriaca, disorientata e confusa.
Cercò di non pensarci. Nuovo anno, nuova me un cazzo, si disse mentre guardava il telefono che non aveva più suonato dal giorno prima. Le parole di suo fratello le ronzavano in testa come uno sciame di vespe impazzite e pungevano là, dove faceva più male.
Si alzò per passeggiare avanti e indietro e smaltire la bruciante realtà che le era stata servita davanti, non proprio con tatto, da suo fratello.
Aveva azzeccato ogni passaggio, come se tutto avesse fatto parte di un copione già scritto.
Patrick sembrava sincero mentre le spiegava l'accaduto guardandola negli occhi. E le aveva preso una mano per descrivere i passaggi più toccanti dell'arresto e poi della notte in cella: Josh, mentre chiedeva disperatamente aiuto, il procuratore che non voleva intervenire. Lei, mentre veniva tenuta all'oscuro di tutto, lei che non dormiva di notte pensando a chissà cosa, e quei maledetti cinque anni di relazione tossica che volavano via per sempre dalla sua mente.
Chi le assicurava che Richard fosse sincero?
Conosceva bene suo fratello, forse meglio di quanto lui non pensasse, e sapeva come evitare i suoi giochetti psicologici. C'era qualcos'altro sotto, se lo sentiva. Patrick si era dato troppo da fare per riabilitare il suo nome con lei, per quale motivo lo aveva fatto?
Rincorrerla per settimane provando a convincerla le sembrava un po' troppo per una notte di sesso, anche se - rise fra sé specchiandosi sul portellone del frigo - era ovviamente conscia di essere irresistibile.
Charlotte si ricompose, mentre ancora rideva nella sua mente. Si reputava una ragazza sveglia, dinamica, simpatica. Ma aveva un punto debole, ed era la pietà. Impersonava la sindrome della crocerossina come se fosse stata scritta su un manuale di istruzioni per l'uso: a mente lucida era conscia di quello che era giusto e sbagliato, ma bastava una fugace carezza, qualche parola ben scelta, uno sguardo, per farla capitolare.
Anche con Josh era andata così. Lui, estremamente carismatico, riempiva le serate della sua cerchia di amici newyorkesi di aneddoti straordinari e di speranze per un futuro di grandezza. Un barone di Munchausen che viveva delle attenzioni degli altri, passando continuamente tra realtà e finzione. Un fascinoso cerbero, pronto ad ammaliarti con una faccia, e ad azzannarti con le altre due.
Appena arrivata a New York per il programma di studio post graduate, Charlotte viveva in una casa in brownstone, nell'Upper West Side, che lei e i suoi fratelli chiamavano Casa Gemella. Questo perché era la copia esatta della palazzina in mattoni rossi che aveva di fronte, che ospitava Joshua Lewitt Brown, il suo Josh.
Charlotte ricordava perfettamente.
Una mattina, un paio di giorni dopo il suo arrivo, era uscita sulle scale, intimidita da quelle strade rumorose, ma eccitata per la sua nuova vita a New York in compagnia dei suoi fratelli. Proprio Richard avrebbe dovuto portarla alla NYU, l'università, ma non aveva dormito a casa e ora era in ritardo. Charlotte aspettava fremente, guardando di continuo l'angolo da cui avrebbe dovuto sbucare suo fratello.
Era allora che aveva visto Josh, che usciva sulle scale dell'altra casa gemella, esattamente di fronte a lei, dall'altra parte della strada.
Era rimasta senza parole. I pantaloni blu, morbidi, una camicia bianca perfettamente stirata e chiusa fino all'ultimo bottone, un paio di All Star ai piedi e i capelli spettinati. Si era infilato una sigaretta tra le labbra, l'aveva accesa con un fiammifero, e aveva iniziato ad arrotolarsi le maniche della camicia. Era settembre, faceva ancora un certo caldo.
Charlotte non fu abbastanza rapida a distogliere lo sguardo, così lui la colse mentre lo guardava, tra le macchine parcheggiate, le labbra socchiuse nella contemplazione di quel viso a metà tra l'innocenza di un bambino e il fascino di un uomo.
«Hei!» aveva esclamato lui, la sigaretta a fior di labbra.
Lei si era vergognata tantissimo, aveva abbassato lo sguardo imbarazzata, sperando che suo fratello arrivasse in quel momento a portarla via.
«Hei! - aveva ripetuto Josh - Ci conosciamo?» aveva esclamato ad alta voce. Aspirava il fumo della sigaretta e cercava di identificarla schivando con lo sguardo le auto parcheggiate e i rami degli alberi.
Con orrore di Charlotte, sempre più rossa in viso, Josh aveva iniziato a scendere gli scalini in pietra, un rapido sguardo a destra e a sinistra e aveva attraversato accelerando il passo per raggiungerla. In un ultimo salto era davanti a lei, la sigaretta ancora tra le labbra.
«Aspetta un attimo - la squadrava senza nessun pudore - Sei la sorella di Richard vero? Uhm sì. Devi essere tu, la stessa faccia da spocchiosa nobiltà inglese. - rise - Mi aveva detto che saresti arrivata.»
«Uhm...sì...ehm...e tu chi sei?»
«Joshua Lewitt Brown, piacere. - sbuffò un po' di fumo - Che stai facendo qui fuori?»
«Aspetto mio fratello...deve portarmi a scuola.»
«Richard non arriverà - ridacchiò lui - Forse ancora non conosci i suoi ritmi. Sono sicuro che - aveva sbuffato ancora e aveva dato un'occhiata veloce all'orologio - ora sta dando il buongiorno a quella Joyce o Jackie o Julia, non ricordo bene il nome. Ma so che è impegnato, se capisci cosa intendo.» Aveva sorriso di nuovo sornione e Charlotte si era sentita fortunata a poter osservare una perfezione simile restituirle uno sguardo.
«Ti ci porto io, a scuola. Aspetta qui.»
Charlotte era interdetta, ma chissà come cinque minuti dopo era seduta nell'auto di Josh, una Mercedes anni '80, fumava una sigaretta, aveva i capelli scompigliati dalla brezza dei finestrini abbassati, mentre gli Strokes uscivano dalle casse gracchianti. Aveva già dato un pezzetto di cuore al ragazzo che guidava e non sapeva di aver firmato la sua condanna.
Si scosse da quel ricordo ritrovandosi nel salotto di suo fratello, era l'ultimo giorno dell'anno e aveva freddo. Erano già le dieci del mattino, non aveva più sentito Patrick e cercava di non pensare al discorso che Richard le aveva lanciato addosso. Doveva darsi una mossa, distrarsi, spostarsi da lì.
Decise di chiamare Dionne per organizzare il loro appuntamento per la serata e soprattutto, chiederle qualcosa di più su questo fantomatico Henry.
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