Paura
Penisola di Lampung (Indonesia), 26 dicembre 2004
Il candore affascinante di una conchiglia, trasportata con pacata irruenza dalle placide onde dell’oceano Indiano catturò l’attenzione della giovane Sari. La raccolse e, tenendola fra le piccole mani, la scrutò con avida attenzione. Presentava una forma particolare, irregolare e imperfetta. Un angolo era leggermente smussato, forse era rimasto vittima della forza incontrollabile del mare.
Con un gesto distratto, la posò sulla sabbia e, con pazienza, attese che l’oceano si riprendesse quel piccolo e misterioso tesoro.
Con un animo saturo di tristezza e di rassegnazione, Sari portò i propri scuri e profondi occhi sulle mani. Anche loro, come la conchiglia, risentivano degli effetti nefasti causati dalle avversità della vita. Numerosi tagli, dalle differenti dimensioni, si susseguivano sulla pelle in modo disordinato.
Un fragile e silenzioso sospiro uscì dalle sue labbra, contratte dallo sforzo e dalla stanchezza.
Aveva solo tredici anni e la sua vita le pareva un groviglio di eventi inutili, intrisi di sofferenze, dolori e soprusi. Un’esistenza connotata da un principio ignoto e da giornate che, vissute nell’angosciosa attesa dell’ennesima violenza inferta al suo corpo e alla sua psiche, la rendevano vittima impotente della paura.
La sua vita aveva un senso? Si era più volte chiesta la vulnerabile ragazza.
Se fosse morta quello stesso giorno, chi avrebbe pianto per la sua scomparsa? Il mondo avrebbe continuato a girare nel medesimo verso, la gente di ogni angolo della Terra non si sarebbe lasciata commuovere, in quei giorni di festa, dal triste destino di quella ragazzina figlia di nessuno. Lei, invece, smettendo di respirare avrebbe potuto trovare conforto e porre finalmente fine a quell’inutile vita.
Ma poteva essere definita vita, la sua?
Non aveva famiglia. Aveva vissuto i primi sei anni della sua esistenza in un orfanotrofio stracolmo di disperati che, come lei, ignoravano chi li avesse messi al mondo.
Un bel giorno, le avevano detto di indossare il vestito più bello che aveva. Lei, emozionata, aveva percepito il proprio cuore battere forte nel petto a poco a poco che l’idea di una possibile adozione si era fatta strada nella sua mente. Tale gioia si era però dimostrata effimera. Aveva trascorso sette lunghi anni chiusa dentro una fabbrica fatiscente e male odorante. Ogni giorno, per un numero incalcolabile di ore, aveva impiegato le proprie esili e sottili dita di bambina nella realizzazione di scarpe, indumenti, palloni da calcio destinati a rallegrare e compiacere l’esistenza dei suoi coetanei che avevano avuto la fortuna di nascere nella porzione giusta del mondo.
Una lacrima uscì dai suoi occhi mentre nella mente le balenò l’immagine amichevole e rassicurante di Wira. Insieme, avevano condiviso ogni intenso dolore che quell’esperienza faticosa aveva arrecato loro. Nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche, dentro di loro avevano trovato una forza residua e inaspettata in grado di farli sorridere e divertire, anche solo per brevi ma indimenticabili attimi.
Senza alcuno sforzo, ricordò il loro ultimo giorno insieme. Wira era chinato e concentrato a cucire l’ennesimo pallone da calcio.
«Sbaglio, o ci stai mettendo tutta la tua attenzione e precisione? È solo un inutile pallone destinato a essere maltrattato e preso a calci senza pietà. Il tuo lavoro, le tue fatiche e i tuoi sforzi sono del tutto inutili!»
«Parla per te. Questo non è un semplice pallone da calcio!»
«Oh, allora dimmi, che cosa sarebbe?»
«E’ il pallone da calcio per eccellenza. Il nove luglio duemilasei esso rotolerà fra l’erba perfetta dell’Olympiastadion di Berlino. Determinerà la vittoria di quella che sarà la squadra più forte del mondo e io devo fare il possibile affinché possa divenire il migliore pallone da calcio del mondo. La sua superficie non deve presentare alcuna irregolarità mentre la sua forma deve essere perfetta. Quindi, ora lasciami lavorare!»
«Oh, tu e il calcio! Quanto sei noioso! Anche se sarai in grado di realizzarlo alla perfezione, nessuno verrà mai qui a congratularsi con te. Nessuno saprà mai della tua esistenza! Nessuno parlerà mai di te. A nessuno importerà mai del bambino che ha cucito il pallone della finale della Coppa del Mondo di calcio!»
«No, ti sbagli, a me importa! Ma non capisci? Grazie a questo pallone, anche io avrò l’opportunità di prendere parte a quell’evento unico ed emozionante. Il frutto del mio lavoro sarà toccato dai più grandi campioni!»
«Wira, hai undici anni! Non ti sembra che sia giunto il momento di smettere di sognare e di tornare alla realtà?»
Era trascorso poco più di un mese da quel giorno e loro non avevano più avuto alcuna possibilità di vedersi. Sari era stata venduta a una signora stupida e volgare. Il suo corpo non era più quello esile e aggraziato di una bambina e, pertanto, doveva essere impiegato in un’altra attività più consona alle sue nuove fattezze di giovane donna.
Si alzò in piedi e, disgustata da se stessa, si immerse nel mare. Con tale gesto, provò a scacciare via dal suo corpo ogni residuo, ogni ricordo doloroso di quella violenta e disgustosa notte.
Un silenzio surreale e a tratti angoscioso circondava la ragazza che, sola in quella piccola e isolata baia, tentava di trovare conforto fra le acque calde dell’oceano. Un intenso e sinistro boato scosse all’improvviso la Terra. Le fronde delle palme iniziarono a scuotersi in modo agitato; i granelli di sabbia rotolarono in modo disordinato verso quel mare che, in modo repentino e inspiegabile, stava richiamando verso l’interno le proprie acque.
Era accaduto qualcosa. Un evento per nulla lieto si era verificato. Sari, paralizzata dalla paura, iniziò a correre verso la riva. Giunta sulla terra ferma, si voltò verso il mare; il respiro le si mozzò in gola mentre il cuore smise di batterle nel petto nel momento in cui gli occhi si riempirono di un’immagine spaventosa e sconosciuta. Un muro d’acqua scura alto una decina di metri s’innalzava dinanzi a lei. Ogni centimetro della pelle si drizzò sotto l’effetto di quei brividi di terrore che avevano incominciato a rincorrersi sopra e dentro di lei. Sopraffatta dalla paura, deglutì tutto l’ossigeno che riuscì a inalare.
Con tutta la sua fragile forza, iniziò una corsa disperata e folle. Più correva e più tentava di allontanarsi dalla costa, più la forza ineguagliabile del mare si avventava su di lei. Fu un attimo. Un colpo secco e deciso le piegò la schiena e, nel giro di un millesimo di secondo, il suo corpo, caduto in avanti, venne circondato dall’acqua. Il buio la sommerse, mentre detriti, rami spezzati, pietre e oggetti non ben identificati si scagliavano contro il suo corpo inerme con una velocità e una forza destabilizzanti.
Nonostante non avesse mai perso occasione per disprezzare la sua vita, nonostante l’avesse sempre odiata, in quel momento di puro terrore la rivalutò. Per quanto potesse sembrare insensato e irrazionale, per quanto la sua esistenza potesse apparire inutile, insignificante e spaventosa, si rese conto di quanto fosse importante. Desiderava vivere e, percependo dentro di sé una volontà e una forza nuove, iniziò a lottare. Le gambe e le braccia compivano gesti circolari e disordinati ma, nonostante gli sforzi, la superficie rimaneva un miraggio inaccessibile. Il dolore, causato da quello sforzo immenso e inutile, iniziò ad annientare con sadismo quei muscoli fragili e deboli. I polmoni stavano iniziando a riempirsi d’acqua mentre la pelle collezionava su di sé gli ematomi causati da quegli improvvisi ma inevitabili urti contro ogni detrito strappato con ferocia dal mare. La paura della morte prevalse dentro di lei e, con l’ultimo brandello di forze che le era rimasto, si fece coraggio e continuò quella lotta sbilanciata. Il cielo terso ricomparve sopra di lei e, con avidità, le sue narici tentarono di catturare tutto l’ossigeno possibile. La salvezza effimera e illusoria fu però portata via da una nuova onda e la sua flebile speranza si perse in quel mare colmo di sogni annientati.
Era una codarda ma, in fondo, non le era mai importato molto della sua vita. Perché lottare, perché annientare il corpo con uno sforzo estremo? A quale scopo continuare a sopprimere il suo animo con ulteriori e innumerevoli sofferenze? La sofferenza più grande e definitiva si stava abbattendo su di lei ma in seguito, forse, la pace l’avrebbe finalmente potuta avvolgere. Per sempre.
La morte faceva però troppa paura e, nonostante la sua assuefazione al dolore e alla sofferenza, non era ancora pronta per esalare l’estremo respiro. L’ultimo granello di forza le servì per imprimere al corpo la spinta necessaria per tentare di risalire verso la superficie. Era la sua ultima possibilità. Voleva vivere perché, al di là del dolore che le aveva conferito sin dal giorno in cui era incominciata, la sua vita era l’unico bene di cui aveva sempre disposto.
Una mano dalla presa ferma e decisa avvolse il suo avambraccio e Sari, senza avere più la forza di pensare, si ritrovò a osservare il sole brillare sopra la sua vita, dinanzi a quell’inferno d’acqua che contrastava con la calma paradisiaca del cielo limpido.
Una donna dalla carnagione pallida e dagli occhi cerulei atterriti da una paura irrazionale la stava scrutando. In un inglese perfetto, le chiese se si sentisse bene, ma la sua voce le arrivava debole all’orecchio.
Sari chiuse gli occhi. Non era ancora giunto il momento, per lei, di porre la parola fine a quell’esistenza. Il destino, sotto le sembianze di quella donna sconosciuta, le aveva concesso una nuova e insperata possibilità.
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