Capitolo 9


Un temporale primaverile svegliò Gabriel con un tuono. Attorno a lui vi era un enorme brusio di voci e di uomini che urlavano ordini confusi. Guardò allora fuori dalla finestra, vide che un enorme nube nera ricopriva l'intero orizzonte. Come un triste presagio aveva interrotto i preparativi del matrimonio e aveva mandato tutti a gambe all'aria. Per un istante a Gabriel parve quasi una bella notizia, un segno divino. Si alzò e si vestì con i suoi abiti eleganti di corsa. Ansioso di avere una risposta corse nel corridoio e fermò uno dei braccianti. Questi, indaffarato com'era a portare in giro stoviglie, si degnò solo dopo qualche istante di rivolgergli la parola.

«Non so ancora molto della cerimonia... ma a quanto pare il maltempo ha portato complicazioni.» disse facendo rumore con un grosso numero di stoviglie di metallo.

«A chi posso chiedere?»

«Cerca colui che ha organizzato la cosa, ha i baffi ed è di media statura, l'ho visto poco fa vicino all'ingresso.»

Gabriel scese di corsa verso l'ingresso con il cuore che gli batteva forte. Sotto un enorme e pesante candelabro appeso al soffitto, tra i ritratti di famiglia, sembrava attenderlo l'uomo baffuto.

«Signorino De La Fuente.» gli disse quando lo vide.

«Vostro padre vuole parlarvi a proposito del matrimonio.»

«Si terrà ugualmente?» chiese Gabriel ansioso.

«Non è stata ancora presa una decisione a riguardo, parlatene direttamente con lui.»

Gabriel corse allora verso l'alloggio e lo trovò a sbraitare ed imprecare di fronte ai suoi vassalli.

«Proprio questo oggi, proprio questo! E' forse il Signore che ci manda le sue maledizioni? Non c'era una nuvola e poi questo temporale!» il padre smise di urlare e sembrò visibilmente affaticato.

«Signore forse dovremmo rimandare...» disse uno dei suoi vassalli.

«No, no, non se ne parla, invece di farlo all'aperto useremo la vecchia chiesetta di famiglia, poi offriremo quello che potremmo agli ospiti in qualche luogo chiuso. Questo matrimonio deve andare a compimento.»

A sentir pronunciare quelle parole l'eccitazione di Gabriel svanì e cosa ancora peggiore, si ritrovò entro un paio d'ore dentro una piccola chiesetta che poteva contenere al massimo venti persone, ad attendere l'arrivo degli sposi. La chiesa era spoglia e tetra, poche decorazioni, spiccava solo l'altare di marmo con alcune rifiniture dorate. La pioggia riusciva ad amplificare l'odore di muffa che impregnava le mura ed era talmente forte che a Gabriel venne la nausea.

L'attesa, al fianco della madre alla quale raramente rivolgeva parola, rendeva il tutto fin troppo frustrante. Ma quello che Gabriel non riuscì mai a dimenticare, fu lo sguardo della sposa che, subito dopo aver abbassato la testa per entrare nella chiesetta, incrociò il suo. Eméline trovò la forza di non piangere e si stampò sul volto un'espressione spenta che sarebbe stata difficilmente imitata persino da una statua di cera.

Non ci fu cerimonia più triste di quel matrimonio, il prete pronunciò il rituale e i due sposi si comportarono esattamente come da copione, come due attori che al battere delle mani sarebbero stati pronti a inchinarsi davanti a quel piccolo pubblico. Ripetuti lampi, tuoni e una pioggia intensa e battente resero persino difficile comprendere il giuramento che veniva tristemente pronunciato. Persino gli ospiti sembravano rattristati da quello che avrebbe dovuto essere un lieto evento, persino loro. Guardandosi attorno vide solo due persone nella sala che accennavano ad un sorriso, i rispettivi padri degli sposi. Finito il matrimonio e durante i festeggiamenti, Gabriel rimase seduto e in disparte come un bambino messo in punizione. Rimase a sorseggiare un bicchiere di vino rosso mentre alcuni musicisti suonavano nella sala da ballo. Nobili e contadini si scambiarono passi di danza, dimenticandosi solo per un istante del loro rango. Ma Gabriel cominciava a sentire, per la prima volta in vita sua, un senso d'oppressione di una casa che lentamente sembrava non appartenergli più.

Eméline volteggiava a tempo di musica assieme a suo marito, senza però degnarsi nemmeno di guardarlo negli occhi. Julio invece sembrava brillo e particolarmente interessato alle fattezze di sua moglie. Quella notte avrebbero dormito assieme per la prima volta. Per qualche strano motivo, a Gabriel non importava nulla del tradimento fatto a suo fratello. Verso sera, approfittando della confusione, stanco di restare al chiuso e respirare l'odore dolciastro del vino, se ne uscì di nascosto. Voleva trovare un po di conforto nel solo amico che in quel momento gliene avrebbe potuto dare. Lo trovò sonnecchiante dentro la stalla, ritto sulle sue quattro zampe. Quando vide il suo padrone, cominciò ad agitarsi nervosamente finché non lo calmarono le sue carezze. Gabriel ne approfittò per dargli una rinfrescata in quella umida sera di primavera.

«E così tuo fratello si è sposato.» sentì dire dalla voce inconfondibile di Yago. Gabriel si girò osservando l'oscurità da cui proveniva la voce ma senza dire nulla.

«Non sembri molto...»

Yago si interruppe e cominciò a tossire, poi concluse: «... convinto.»

«E tu non sembri molto in salute.» rispose freddamente Gabriel tornando ad accudire il suo cavallo.

«Mio caro Gabriel... il mio tempo sta per giungere.»

«E come lo sai?»

«I miei acciacchi sembrano prevalere sulla mia voglia di vivere.»

«Se chiedi a mio padre di vedere un dottore non mancherà di accontentarti.»

«Tuo padre...» di nuovo si interruppe per tossire. «...ha fatto anche troppo per me Gabriel, ma non è di un dottore che ho bisogno, forse di un prete.»

«Hai fame?»

«Raramente ormai, oggi mi sono saziato con qualche carota.»

«C'è la festa in corso, forse posso andare a prendere qualcosa per te.»

«No Gabriel, non stavolta, non ho bisogno di nulla.»

Quella fu l'ultima frase di Yago della serata, Gabriel lo sentì ogni tanto gemere sottovoce, come se non volesse farsi sentire, ma la totale assenza di rumori attorno alla stalla lo rendeva comunque percepibile. Quando ebbe finito con Aguacero, Gabriel salutò il vecchio che rispose cortesemente e se ne andò a dormire. Nei giorni successivi evitò persino di uscire dalla sua stessa stanza, pensò in continuazione a come avrebbe potuto reagire se avesse visto Eméline o suo fratello. La sua giovane età e l'inesperienza non giocavano a suo favore in queste relazioni così complesse.

Veniva spinto, solitamente, verso la reazione più impulsiva che spesso, nel mondo degli adulti, si rivela essere una pessima scelta, specialmente se in gioco c'era il futuro della sua stessa famiglia. Poi un giorno decise di ricominciare come se niente fosse, e la cosa sembrò riuscirgli nei primi tempi, sin quando non incrociò, in giro per casa, Eméline assieme ad alcune serve. I loro sguardi si incrociarono per un istante ma non si dissero nulla, Eméline sembrava ancora avere una maschera di cera sul volto. Gabriel si sentiva confuso. Passarono settimane e la tensione invece che diminuire, aumentò. Gabriel non sembrava più lo stesso, dormiva poco e mangiava ancor meno. Continuò ad allenarsi, nello studio delle lingue e nell'arte della guerra, ma prevalentemente da solo.

Anche il fratello e il padre cominciarono a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava, ma non dissero nulla. Fu una domenica, dopo una noiosa messa, che rifiutandosi di unirsi al padre e al fratello in una battuta di caccia, trovò Eméline a passeggio da sola vicino alla sua stanza. Gabriel, accortosi che nonostante fosse sola, si sforzava comunque di ignorare il suo sguardo, le afferrò la mano e la portò nella sua stanza.

«Cosa fai Gabriel?» chiese Eméline dopo che il giovane ebbe sbattuto la porta dietro di loro.

«Cosa fai tu Eméline?» chiese Gabriel furioso.

«Perché mi fai questo, perché non riesci a capire?» disse Eméline con gli occhi lucidi.

«Cosa c'è da capire? Cosa devo capire?»

«Gabriel io non ce la faccio, non posso andare avanti così. Ti odio perché ogni volta che ti vedo risvegli in me quel desiderio di libertà che cerco tanto di nascondere.» disse con uno sguardo disperato.

«Come fai a non avere nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi dopo quello che è successo?»

«Ma non capisci, sono una moglie adesso, cosa ti aspetti che faccia?»

«Già, sei la padrona del mio stesso regno ora.»

«Non essere arrabbiato con me Gabriel.» disse Eméline facendo un passo di fronte a lui e poggiandogli le sue mani sulle guance. Gabriel afferrò le braccia della giovane come per difendersi ma allentò la presa quando lei riprese a parlare.

«Ascolta le mie parole Gabriel, perché è l'ultima volta che ti parlerò in questo modo. Non pensare che la mia mancanza di attenzioni sia qualcosa di cui vado fiera o che creda di non ferirti. So bene quello che stai passando, ma non posso farci nulla, sono dentro una gabbia e il solo modo che ho per non impazzire è convincermi che questa gabbia sia meravigliosa.» si interruppe per asciugarsi le lacrime e poco dopo riprese.

«Se dovessi pensare a quanto non sopporto tuo fratello, a quanto mi sento schifata di fare l'amore con lui e di sentirlo russare come un animale subito dopo. Se dovessi farlo Gabriel, potrei solo che desiderare di non essere nemmeno nata.»

Gabriel allentò la presa delle sue braccia e cominciò invece ad accarezzarle le mani, lentamente una triste realtà diveniva chiara.

«Vuoi arrenderti a tutto questo?» chiese allora Gabriel.

«Mi sono arresa da tempo Gabriel, non ho mai avuto scelta.»

Gabriel, che mai nella sua vita si era arreso, digrignò i denti nascondendoli sotto le labbra.

«Ti ripeto, ancora una volta, ascolta queste mie parole. Sei stato il mio primo amante e il solo amico che abbia mai avuto, ma qui io non ho niente più da offrirti

Gabriel avrebbe voluto dire molte cose, ma rimase in silenzio con i denti stretti.

«Nel mio cuore di donna lo sento, il futuro ti riserva quella libertà e quella gioia che a me la vita non ha mai saputo dare.» concluse Eméline.

Gabriel tenne lo sguardo basso senza sapere cosa dire, una doccia fredda di realtà lo aveva colto giovane, maldestro e impotente.

«Addio Gabriel, non è questo il tuo posto.» disse Eméline abbracciandolo.

Stavolta fu Gabriel che, completamente passivo si lasciò stringere con la poca forza che Eméline riusciva a generare. Non durò che pochi istanti, poi Eméline uscì dalla porta e Gabriel qualche secondo dopo di lei, per strade separate. Gabriel sorrideva tenendo stretti i denti e i pugni. Scagliò infinite frecce contro bersagli di paglia, corse infinite volte per le pianure con il suo Aguacero e suonò ancora ed ancora il suo flauto mentre i mesi passavo inesorabili, ma quella sensazione così amara di una realtà che lo aveva colto alla sprovvista così celermente, non riuscì a togliersela di dosso.

Così un giorno si presentò al padre, e disse con veemenza:

«Padre mio, durante questi ultimi mesi, ho capito che la mia vita la devo dedicare al Signore.» disse Gabriel con tono pacato e calmo, mentendo spudoratamente. Il padre lo guardò con gli occhi sgranati, non convinto di aver capito bene.

«Intendi forse prendere i voti figlio mio?»

«Forse per quello non è ancora ora padre, il Signore saprà comunicare con me quando sarà il momento, ma quello che desidero adesso è una vita fatta di preghiera e meditazione.»

«Gabriel, tu mi cogli completamente alla sprovvista, sei sicuro di sentirti bene?» chiese il padre tastandogli la fronte.

«Mai stato meglio padre, il Signore mi ha donato ottima salute.»

«Beh, se è quello che desideri figlio mio, sarai accontentato, ma devo riprendere i contatti con l'abate di un monastero che ho avuto modo di conoscere tanti anni fa.»

«Certo padre, saprò attendere.» rispose Gabriel.

La risposta dell'abate invece, non si fece attendere.

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