Capitolo 8


I cani abbaiavano come se non ci fosse un domani. Fu allora che il Barone de la Fuente mandò due dei suoi servitori armati di arco e sul cavallo in una posizione strategica. Non appena i cani furono sguinzagliati Gabriel, che si trovava dalla parte opposta, vide sbucare da fuori un cespuglio un enorme cinghiale. Inizialmente l'animale corse nella direzione del padre di Gabriel ma quando una freccia lo colpì sulla schiena fece una brusca virata e continuò a correre imperterrito stavolta in direzione di Julio che se ne stava a cavallo al fianco del fratello.

«Guarda come te lo stendo.» disse Julio incoccando una freccia. La freccia sibilò nell'aria e mancando il bersaglio andò a colpire una roccia, spaccandosi completamente.

«Maledizione.» urlò Julio. Fu il turno di Gabriel stavolta, il quale mancò ancora più goffamente il bersaglio. Fu allora che Julio fece qualcosa che colpì Gabriel alla sprovvista: mentre il cinghiale correva pericolosamente nella loro direzione tirò fuori il suo pugnale e lo afferrò un verticale dalla parte della lama.

«Cosa pensi di fare? Forse è il caso che scappiamo via.» disse Gabriel preoccupato.

«Sta a guardare.» rispose Julio senza perdere di vista il cinghiale che ormai era a pochi metri dal cavallo. Con un rapido gesto di mano Julio lanciò il coltello in aria che cominciò subito a roteare in direzione del cinghiale. Con un movimento perfetto e silenzioso andò a conficcarsi proprio sulla testa del povero animale che morì sul colpo rotolando in direzione del suo assassino.

«Dove hai imparato?» chiese Gabriel stupito.

«Pratica fratello.» rispose Julio scendendo dal cavallo per estrarre il coltello dalla sua preda.

«Bella mossa figliuolo.» disse il padre che nel frattempo si era avvicinato assieme ai suoi servitori.

«Portate il cinghiale al palazzo e date ordine che venga cucinato domani.» ordinò freddamente il padre ai suoi servitori.

«è da stamattina che stiamo appresso a quel maledetto cinghiale...torniamo a casa ragazzi.» ripeté il padre, dando un colpo di frusta al suo splendido stallone. Gabriel fece per spronare il cavallo a partire ma si fermò al richiamo del fratello.

«Prendiamocela comoda, vorrei fare due chiacchiere.» Gabriel si girò verso di lui e annuì, aspettando che il fratello lo raggiungesse al passo.

«A quanto pare mio padre vuole sistemarmi presto con la contessina.»

Gabriel non rispose ma drizzò le orecchie.

«Nemmeno due settimane fa, hanno organizzato il nostro primo incontro, tra nemmeno un mese avremo il matrimonio.»

«Cosa ne pensi?» chiese Gabriel.

«Penso che mi viene da vomitare all'idea di passare il resto della mia vita con quel cadavere ambulante.»

«Potresti un giorno accorgerti che non è poi così male.»

«No, non è male ma è molto, molto peggio... ma almeno finalmente non dovrò più infastidire la cameriera quando vorrò fare sesso.» rispose Julio ridendo.

«Vuoi dire che ti porti a letto la cameriera?» chiese Gabriel stupito.

«Certamente e a quanto pare gli è anche piaciuto.»

«Dove?»

«In camera mia ovviamente, mi bastava dire di avere mal di pancia e mi veniva recapitata una limonata molto speciale...» rispose Julio maliziosamente.

«Ma non ha che la mia età!»

«Ma che importa, non era nemmeno vergine se è per questo, chissà in quanti se la sono ripassata nel palazzo.» Gabriel rimase in silenzio pensando allo strano discorso del fratello, che capiva a malapena, visto che da nemmeno qualche mese aveva raggiungo la pubertà.

«Ma si, spero almeno che la contessina non sia una mezza-puttana come la cameriera e che nel letto ci sappia fare.»

«Non pensi al fatto che possa essere un'ottima amica?» chiese Gabriel con un nodo alla gola.

«No, è solo una stupida donna... Ti sembra forse che nostra madre serva a qualcosa oltre che a scaldare il letto del marito?»

Gabriel rifletté un attimo, e pensò a come avesse visto quasi sempre la madre in condizioni molto servili nei confronti del padre.

«Forse hai ragione.» disse freddamente Gabriel, mentre il suo cavallo che non era il suo prediletto Aguacero, nitrì.

«Beh mio caro fratellino, le donne sono una gran rottura di scatole, sei così fortunato che mio padre non te ne piazzerà nessuna al fianco, quasi invidio questa tua libertà.»

Gabriel sentiva il peso di una conversazione troppo delicata schiacciargli il petto, così per cambiare argomento disse:

«Mi insegni a tirare il coltello?»

«Ma certo, ad una condizione però...»

«E quale sarebbe?» chiese al fratello maggiore

«Che riesci a battermi in una corsa verso casa?»

«Quando?»

«ORA!» urlò Julio spronando il cavallo al galoppo.

Colto alla sprovvista anche Gabriel partì anche lui al galoppo. Cercò di trattenere il respiro mentre si addentrava dentro la scia di polvere che il cavallo di Julio stava lasciando davanti a lui. Il suo cavallo, sebbene fosse stato un purosangue del padre, non era abituato a farsi cavalcare da lui e rispondeva in maniera pessima alle richieste del cavaliere.

«Se solo avessi sotto al sedere Aguacero.» urlò Gabriel, senza che il fratello lo sentisse. Infine stanco e divertito Julio si fermò di fronte casa essendo arrivato per primo. Gabriel era esausto dietro a lui e non volle incrociare nemmeno il suo sguardo.

«Che ne pensi?» chiese Julio.

«Hai vinto.» rispose Gabriel affannato.

«Va bene fratello, ti sei dimostrato un degno avversario, ti insegnerò ugualmente a tirare col coltello.»

Gabriel gli sorrise, esausto. E così Gabriel, nei giorni a seguire, imparò le tecniche di lancio che Julio aveva tenuto nascoste sino ad allora. Fu una mattina che Julio gli si presentò particolarmente triste che Gabriel venne a sapere quello che sarebbe successo.

«Allora è deciso.» disse misteriosamente Julio con due pugnali in mano.

«Deciso cosa?»

«La data del matrimonio.»

«Quando?» chiese Gabriel col batticuore.

«L'ultima domenica del mese.» rispose Julio ancora più triste. Gabriel pensò un attimo ai giorni che mancavano a quella domenica, erano appena dieci.

«Allestiranno un altare di legno di fronte al palazzo.»

«Come ti senti?»

«Uno schifo Gabriel, come vuoi che mi senta, sai benissimo cosa ne penso.»

Gabriel non aggiunse altro.

«Dai, andiamo a fare altri due lanci.»

I giorni passarono lenti e Gabriel, totalmente all'oscuro di quello che un matrimonio nella sua famiglia potesse rappresentare, trascorreva in parte lieto e in parte ansioso i suoi giorni in compagnia delle uscite segrete con il suo prediletto cavallo. Poi cominciarono i preparativi e a differenza della festa che si era svolta nei giorni precedenti, stavolta l'intera regione fu movimentata e furono reclutati persino altri braccianti per svolgere del lavoro straordinario. Gabriel se ne stava seduto all'ombra, nel giorno di vigilia del matrimonio, rosicchiando una mela mentre osservava gli uomini al lavoro. D'un tratto udì un rumore che gli suonò familiare. Si girò e vide in lontananza un polverone che seguiva una carrozza che aveva visto partire diverso tempo prima. Senza esporsi in strada, si diresse verso il viale principale e rimase nascosto nella penombra di un sole di mezzogiorno. La carrozza si fermò e il cocchiere andò ad aprire la porta, facendo scendere la famiglia Duval.

Gabriel rivide per la seconda volta in vita sua Eméline, stavolta ancora più triste e scheletrica del solito. Per un attimo fu tentato di fare un balzo in avanti ed andare a salutarla, ma sapeva che sarebbe stata una mossa troppo azzardata e forse sarebbe stato frainteso da tutti. Fu allora che vide suo padre uscire dal palazzo e dare il benvenuto agli ospiti. Fu data loro la stessa camera dell'ultima volta che erano stati lì. Gabriel riprese il suo ozio cercando di frenare la sua curiosità di rivedere Eméline. Lo pervadeva uno strano senso di colpa. Strano e inspiegabile. Sperò di riuscire a incrociare il suo sguardo almeno durante la cena ma scoprì presto che questa sarebbe stata servita direttamente nella stanza degli ospiti che erano tutti molto stanchi e nervosi per il grande giorno.

Attese impazientemente il calar delle tenebre e solo allora, silenzioso come un serpente, svicolò al di fuori del palazzo e cercò la stessa finestra dove aveva salutato Eméline l'ultima volta. Dall'esterno non riuscì a intravedere nulla e decise allora, posizionandosi sotto di essa, di suonare una breve melodia con il suo flauto. Smise di suonare solo quando sentì provenire dalla finestra il suono di una voce rauca che apparteneva certamente ad un uomo. Intuito il pericolo, Gabriel corse a nascondersi nelle tenebre dove poté osservare il Conte Duval affacciarsi alla finestra e imprecare contro il suonatore che lo aveva appena svegliato. Attese a lungo poi ebbe il coraggio di avvicinarsi nuovamente al palazzo. Prese a guardare tutte le finestre ma non riusciva a ricordare a quale stanza appartenessero realmente, ce ne erano troppe e capì solo allora che dopo tanti anni, non conosceva ancora bene il palazzo in cui aveva sempre vissuto. Eméline inoltre, avrebbe potuto essere stata sistemata in una stanza che si affacciava sul cortile interno. Fu preso dallo sconforto, perché forse mai sarebbe stato in grado di scoprire dove fosse la sua amica, ma proprio mentre fece marcia indietro per andarsene sentì la sua voce chiamarlo.

«Gabriel.»

«Dove sei?» chiese girandosi di scatto.

«Sono qui!» disse sottovoce.

«Qui dove?» chiese Gabriel non vedendo nulla.

«Al secondo piano!»

Solo allora Gabriel alzò lo sguardo e vide un ombra scura in una delle finestre del secondo piano. Fece un cenno con la mano ed ottenne un altro cenno di risposta.

«Puoi scendere?» chiese Gabriel.

«E' troppo alto, posso passare dall'interno.» rispose Eméline.

«No, dall'interno ti vedrebbero.» rispose Gabriel. I due furono colti da uno spavento enorme quando sentirono una terza voce venire da una finestra vicino.

«Chi parla la fuori?»

Gabriel non rispose e si buttò nuovamente nell'oscurità mentre Eméline si ritirò nel suo letto spaventata.

«Fatti avanti nuovamente se ne hai il coraggio.» disse ancora la voce senza ottenere risposta. Ancora una volta, Gabriel attese molto tempo prima di rifarsi avanti. Stavolta non volle correre il minimo rischio di essere scoperto, aveva una possibilità di rivedere la sua amica di nascosto e se la giocò correndo un rischio enorme: arrampicandosi a mani nude sul palazzo sino alla sua finestra. La struttura era costruita in parte con enormi rocce irregolari mentre alcune parti erano in mattoni di terracotta. Fece un paio di tentativi di salire e le sue mani scivolarono pericolosamente. Poi con più determinazione cominciò a muoversi attentamente, tastando le mura nell'oscurità per trovare con il solo tatto gli appoggi migliori. Si sollevò affannosamente e quando fu a un metro e mezzo da terra, cadde a terra in un tonfo sordo. Trattenne un urlo di dolore e rimase piegato in terra cercando di sopportare il dolore.

Si girò sul fianco e cercò di riprendersi, aveva dolore dappertutto e non poche escoriazioni. Guardò in alto verso la finestra, ormai non era nemmeno più sicuro che fosse quella giusta. Di nuovo allora fece il tentativo di arrampicarsi, stavolta con cautela estrema. Arrivò a quasi due metri e mezzo da terra, ben sapendo che un errore lì gli sarebbe costato molto caro stavolta. Guardò in basso e vide il buio più totale, il terreno sotto di lui di lui era avvolto nell'oscurità delle nubi che oscuravano la fioca luce della luna. Strinse i denti e guardò di nuovo in alto, con una serie di movimenti decisi si sollevò ulteriormente e raggiunse il cornicione della finestra che sembrava essere quella giusta. Con le braccia cercò di infilarsi dentro mentre con le gambe si tirava con forza al di sopra delle mura. Cercò di trattenere l'affanno per non fare alcun rumore all'interno e si mise lentamente prima in ginocchio e poi in piedi. Di fronte a lui, con sua enorme delusione, vi era un grande letto a baldacchino con delle tende leggere che coprivano gli eventuali ospiti. Con il batticuore si avvicinò ed aprì delicatamente le tende. Provò un enorme disappunto quando si accorse che il letto era completamente vuoto e solo lievemente sfatto. Richiuse le tende di seta domandandosi dove fosse Eméline ma in un istante sentì due braccia sottili scivolargli attorno ai fianchi in un abbraccio.

«Solo Dio sa quanto mi sei mancato.» disse Eméline sottovoce. Gabriel girò la testa e la vide sorridente.

«Anche tu un po mi sei mancata.» rispose.

«Come hai fatto a venire qui sopra?»

«Mi sono arrampicato.»

«Hai avuto un bel coraggio.»

«Mi tengo in allenamento.» rispose Gabriel ridendo. Solo allora Eméline si accorse dei tantissimi graffi che si era fatto sul braccio nello spericolato tentativo di arrampicarsi per raggiungerla.

«Guarda cosa ti sei fatto.»

«Non è niente.» disse Gabriel.

«Ti brucia?»

«Un pochino.»

«Siediti qui» disse Eméline indicandogli il letto, il ragazzo si sedette. Eméline si sedette a fianco a lui sul letto e passo le sue labbra aperte sopra una grossa ferita che Gabriel aveva sul braccio e la baciò, bagnandola leggermente con la sua saliva.

«Come va adesso?»

«Molto meglio.» disse Gabriel sorridendo.

«Mia nonna diceva sempre che i baci curano le ferite velocemente.»

Gabriel guardò Eméline nei suoi occhi azzurri che nell'oscurità sembravano neri come l'inchiostro, poi timidamente avvicinò le labbra alle sue e le diede un bacio.

«Funziona con ogni tipo di ferita.» disse Eméline.

Fu allora che la ragazza allungò le braccia attorno al collo di Gabriel e continuò a baciarlo. Gabriel le afferrò i fianchi e l'appoggiò delicatamente sul letto, si stese in silenzio sul suo corpo esile e sentì le sue gambe bianche tremare attorno alle sue. Eméline allora smise di baciarlo e disse con voce tremante:

«Questa Gabriel è l'ultima notte che passo da donna libera...»

Gabriel si accorse allora che Eméline aveva gli occhi lucidi.

«...e da donna libera voglio esprimere un ultimo desiderio, voglio perdere con te la verginità non con Julio.»

Gabriel rimase ammutolito, sapeva cosa avrebbe significato tutto questo. Eméline che aveva capito l'imbarazzo di Gabriel aggiunse:

«Sei stato l'unico uomo sino ad oggi che non mi abbia trattato come una schiava e che anzi, mi abbia fatto sorridere.»

«Sei sicura di quello che dici?»

«Si.» rispose Eméline con gli occhi luccicanti.

«E se mio fratello lo scoprisse? Sarà una sorte ancora peggiore del matrimonio.»

«Farò in modo che non se ne accorga, saprò fingere come solo una donna può fare.» disse questo con le lacrime agli occhi.

«Ho paura lo stesso, mio fratello è molto furbo...»

«La mia voglia di poter decidere chi sarà a cogliere la mia rosa è superiore a qualunque paura, quest'ultima notte da donna libera Gabriel, voglio viverla con te.»

Quelle parole furono allora più che sufficienti per Gabriel che fece scivolare delicatamente la mano sotto la sua camicia da notte per poi assaporare per la prima volta il corpo di una donna. Per Gabriel fu un esperienza indimenticabile. Per Eméline dolorosa, ma il suo desiderio di libertà le concesse di trovare nel suo stesso sangue la gioia di aver scelto come e quando diventare donna. Un raggio di luna illuminava i due corpi che dopo l'amplesso, erano rimasti l'uno sopra l'altro incollati senza muoversi.

«Grazie Gabriel.» disse Eméline commossa.

«Adesso sono veramente libera.» disse ancora sentendo sciogliersi un nodo alla gola.

«Vuoi sentire una melodia che ho composto qualche giorno fa?»

«Si, certo.» rispose Eméline sorridendo.

Solo allora Gabriel si alzò dal letto per cercare il suo flauto. Trovato lo strumento si sedette di nuovo sul letto e prima che incominciasse a suonare sentì le braccia sottili di Eméline scivolargli attorno. Il suo corpo era sottile e la sua pelle chiara, l'esatto opposto vista la muscolatura di Gabriel e la sua pelle scura, così abituata al sole e all'aria aperta. Prima di appoggiare le sue labbra allo strumento le fece scivolare sul collo di Eméline che chiuse gli occhi in una ventata d'estasi.

«...Gabriel...» disse sottovoce.

Fu allora che incominciò una dolce melodia, suonata con così poco fiato che la si poteva sentire a malapena a pochi metri di distanza. Eméline seguiva le note di Gabriel toccandogli il petto mentre lui continuò imperterrito a suonare.

«Addio Gabriel...» disse dopo pochi minuti Eméline. Gabriel smise di suonare e rimase in silenzio a fissare il vuoto.

«Da domani non sarò più me stessa, ma grazie per la libertà che mi hai donato stasera.»

Gabriel cercò qualcosa da poter dire ma non trovò nulla.

«Non posso fare niente per oppormi a questo triste destino, lo accetterò in silenzio.» disse Eméline rattristata.

«Mi dispiace.» disse Gabriel.

«Adesso forse è meglio che tu vada.»

Gabriel, con un nodo alla gola si girò e l'abbracciò un'ultima volta, stringendo la sua testa sul suo petto. Eméline non disse più nulla e si infilò tra le lenzuola di seta. Gabriel, per non correre il rischio di farsi male uscì dall'interno del palazzo e svicolò tra i corridoi senza farsi scoprire. Era una sensazione mista tra dolcezza e amarezza quella che lo pervase mentre cercò, invano, di prendere sonno.


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