Capitolo 4
Quella sera stessa dopo essersi coricato Gabriel sentì bussare alla porta. Rizzò le orecchie ma non fece nemmeno in tempo ad alzarsi dal letto che la porta si aprì. Gabriel sapeva che solo il padre poteva permettersi di entrare in camera sua in quel modo, di conseguenza si mise composto seduto sul letto. Il padre si avvicinò a lui lentamente e Gabriel, ancora pensando alla scorrazzata con Aguacero, fu terrorizzato dall'idea che qualcuno della famiglia se ne fosse accorto.
«Come va con il latino?» chiese il padre accarezzando Gabriel sulla testa.
«Bene padre.» rispose il figlio, deglutendo per la paura di essere stato scoperto.
«Vuoi che ti dimostri la mia eloquenza?» disse nuovamente Gabriel.
«Non ce n'è bisogno...» disse il padre sedendosi sul letto al suo fianco. «Conosco bene la tua intelligenza e la tua passione figliuolo.
Il padre girò verso di Gabriel mettendo bene in mostra la sua curatissima barba bianca.
«Grazie.»
«No, dico sul serio, non ho dubbi sul tuo avvenire, specialmente perché dentro di me credo che servire il signore sarà la tua aspirazione.» Gabriel non rispose.
«Che ne pensi di tuo fratello Julio, ti ha parlato di una ragazza?»
«No padre.» rispose Gabriel negandolo.
«Ho intenzione di prometterlo come sposo di una nobile fanciulla francese.»
«Sarebbe molto interessante.» rispose nuovamente mentendo.
«Tuo fratello lo conosco, non accetterà mai di mettersi d'accordo sul matrimonio. Ma questa volta non me lo farà sfumare.»
«Potrebbe piacerle in fin dei conti, non è vero?»
«Si potrebbe, ma a volte ho la sensazione che voi due non vi rendiate conto di quanto caro mi sia costato donarvi tutto questo, e tuo fratello sembra non apprezzarlo minimamente...»
Il padre tirò un sospiro di sollievo e prese a raccontare una lunga storia:
«Dimmi figlio, ti sei mai chiesto cosa significhi affrontare la cavalleria turca nel cuore dell'Anatolia?»
«No, non so cosa significa padre.»
«Significa affrontare la migliore macchina da guerra mai creata, un uomo e un cavallo uniti da un destino così beffardo che combattono selvaggiamente contro gli invasori... Mi ricordo ancora il sibilo dei loro giavellotti e frecce sopra le mie teste, troppo alte per colpirmi ma non si può di certo dire lo stesso di quelle che hanno infilzato i miei amici. Quanti volti ho visto ricoperti di sangue su quel campo di battaglia, il giorno prima ti bevi un bicchiere di vino con un cavaliere e il giorno dopo lo vedi morire agonizzante sulla terra. Ma sempre, in cuor mio, ho tenuto duro, dentro la mia corazza che era diventata un forno sotto il sole rovente, e alla fine ha prevalso la mia destrezza contro l'astuzia dei turchi. Ricordo ancora quando la nostra carica fece tremare la terra e sfondammo l'esercito principale del nemico...Ero solo un ragazzino a quel tempo, forse poco più grande di te, ma ho stretto i denti e ho combattuto come un leone sino a quando, impauriti come gattini che esplorano il mondo, i turchi si sono ritirati. E fu proprio lì, in una serata di Dorileo, che assaporai per la prima volta il sapore della vittoria...»
Il padre si prese una pausa di qualche secondo, ripensando alle sue gesta, mentre Gabriel lo guardava ammirato scrutandolo nel tentativo di immaginare come avesse vissuto quegli eventi.
«... ma durò solo un istante, piccolo abbastanza da farmi desiderare infinite altre gesta contro i nemici della cristianità. I nostri comandanti ci diedero nuovamente l'ordine di marciare anche senza avere avuto modo di riposare, la posta in gioco era troppo alta. Ci fecero camminare attorno all'immensa catena montuosa del tauro, zona che siamo stati tutti contenti di evitare. Eppure quando ci trovammo di fronte all'anti-tauro non ci lasciarono nessuna scelta se non quella di salire sulla montagna. Devi sapere figliuolo che uniti nella nostra spedizione c'erano anche tanti pellegrini, venuti con noi a supportarci nella conquista della Gerusalemme terrestre, e tra di essi vi erano anche donne e bambini. Marciavamo allora lenti, anche visto l'impervio terreno, ma presto constatammo che c'erano due nemici molto più terribili dei cavalieri turchi: la fame e la sete. Mi ricordo bambini piangere di fronte alle madri per la fame e cavalieri piangere come bambini allo stremo delle forze per salire sulla vetta. Tenni stretto a me il mio cavallo finché potei, convinto che ce l'avrebbe fatta anche sui terreni più impervi... ma mi sbagliavo.»
Gabriel fu allora con gli occhi sgranati ad attendere la risposta, come se quel cavallo fosse stato in realtà Aguacero.
«Fu il passo falso di un cavallo stremato dalla stanchezza... cadde giù per un dirupo e feci appena in tempo a scivolare ed aggrapparmi a una roccia. Lo sentì nitrire e lamentarsi di dolore finché il rumore successivo non fu altro che un fracasso di ossa seguito dal silenzio. Tutto il mio equipaggiamento era con lui... ma la sola cosa che mi restava era la mia armatura, un piccolo sacchetto di monete, e una ridicola quantità di formaggio affumicato. Potrai anche immaginare quale disperazione abbia provato in cuor mio, avrei potuto fermarmi e tornare indietro come molti, o gettare lì in quel fosso la mia armatura, ma non lo feci ed anzi, la riportai tanto tempo dopo in Aragona.
Senza il mio cavallo e a corto di viveri, sono sopravvissuto per miracolo, ma il cuore in petto mi batteva forte e mai e poi mai quel giovane vigoroso che ero allora, si sarebbe arreso. Credimi figliuolo... ho visto in molti ricoperti di lacrime gettare o vendere per due soldi la loro armatura, potevano guadagnarci bene vendendola a peso d'oro, ed ho anche visto come questi cavalieri si siano pentiti amaramente di averlo fatto, perché una volta che ripercorso il versante dovettero fronteggiare il nemico. Nudi e senza alcuna protezione. Ho visto quegli scellerati combattere e si potevano distinguere da un gruppo di ribelli solamente perché costoro impugnavano ancora la loro spada e non un forcone da bracciante... figliuolo ricorda: un cavaliere è un cavaliere finché indossa la sua armatura. E io sono rimasto tale sino alla fine.
Poi un giorno figlio mio....la vittoria si fece più vicina perché superate le montagne ci fu concesso tutto il tempo per recuperare le forze e saziarci. Con il poco denaro che mi era rimasto mi sono anche comprato un altro cavallo, un mezzosangue come quello di cui ti eri invaghito qualche tempo fa, un lento e gracile cavallo che a malapena riusciva a reggere il mio peso...»
A sentire quelle parole Gabriel sentì un brivido lungo la schiena, ma cercò di non scomporsi onde evitare sospetti.
«E poi com'è andata padre?» chiese.
«Ho bisogno di un bicchiere di vino.»
Batté ripetutamente le mani e un servo entrò nella stanza con delle bevande, si avvicinò al padre e gli versò del vino da una caraffa pesante. Gabriel osservava stupito il vino e il padre ne approfittò per dirgli:
«Figliuolo io di battaglie ne ho combattute assai e la mia pellaccia l'ho sempre riportata a casa, ma ricorda che il vino è un prezioso alleato... dei tuoi nemici...»
E così facendo si scolò un bicchiere intero in un soffio. Respirò. L'alito aveva assorbito il sapore acido del vino, e riprese con maggiore enfasi il suo racconto, visibilmente confuso dall'alcool... «A quel punto eravamo pochi e male armati, molti soldati cominciarono a covare desiderio di fuga e di ritorno alla tranquillità delle loro case... perché quello che li avrebbe attesi era un impresa a dir poco titanica... Antinochia, la città dalle quattrocento torri, ci appariva all'orizzonte, sopra la polvere, come una montagna che nessuno avrebbe mai scalato. E fu allora che ci accampammo, stringendo i denti e tirando fuori tutto il nostro genio. Sapevamo che mai avremmo potuto saltare la città se avessimo voluto prendere, infine, Gerusalemme e restituire il santo sepolcro alla cristianità. Quei vigliacchi, da dentro le mura, buttarono fuori i nostri fratelli cristiani per paura che si schierassero dalla nostra parte. Ma assediammo la città per un lungo e interminabile anno, anno in cui ogni nostra resistenza psicologica e fisica fu messa a dura prova. Prova ad immaginare figliuolo, stare in mezzo al deserto di una terra straniera, resistere con tenacia sotto le mura di un nemico che ti scaricherebbe addosso volentieri tutte le frecce e l'olio bollente che possiede. Persino altri eserciti ci attaccarono nel frattempo. Eravamo esausti ma fummo costretti a occuparci anche di un numero enorme di soldati che venne da altre città in supporto di Antinochia.
Uno dei loro li tradì e ci aprì le porte della città durante una sera di giugno, per noi fu il segnale mandato dal signore che la vittoria sarebbe stata nostra... ma ci sbagliavamo. Presto ci saremmo trovati ad essere assediati a nostra volta! Il destino si prendeva gioco di noi...!E a condurre quell'assedio fu un generale mamelucco... un certo Kerbogha... nemmeno musulmano!Ci diede delle belle grane quel cane bastardo, mentre noi ci sentivamo stretti nella morsa di una città conquistata dopo così tanti sacrific...»
Il padre si interruppe tossendo e si riparò la mano con la bocca, per poi mandare giù un altro bicchiere di vino.
«Ho visto molti servitori di Dio, uomini devoti scendere giù dalle mura di notte per scappare via... Quanta rabbia ho provato! Avrei voluto infilzarli uno per uno con la mia spada!» e così dicendo gesticolò con le braccia come se avesse veramente avuto una spada in mano.
«Fu allora che facemmo un giuramento... sino alla morte... Con i pochi cavalieri rimasti...
E fu Dio stesso a venirci in aiuto. Fu una visione. Uno dei nostri cavalieri sognò il luogo dove era stata sepolta la leggendaria lancia di Longino, e sebbene fummo tutti molto scettici la sua previsione si rivelò veritiera, era sepolta sotto una chiesa di Antinochia. Ancora mi ricordo le grida di gioia dei miei compagni "Deus Vult! Deus Vult!" molti di noi erano in lacrime perché sentivamo come Dio fosse dalla nostra parte!» Nell'udire quelle parole Gabriel, ebbe un sussulto: sentiva cosi forte il suo coinvolgimento nel racconto del padre, da non accorgersi dell'improvvisa commozione del genitore. Qualche timida lacrima intiepidiva il suo viso duro. Strofinò la mano sugli occhi e asciugandosi il volto riprese il discorso.
«Uscimmo da Antonichia in formazione, pronti ad affrontare Kerbogha e ricordo ancora quel numero impressionante di uomini... per ognuno di noi ce ne erano dieci di loro figliuolo! Dieci!
Ma noi marciavamo con alla testa la lancia di Longino... e combattemmo con il signore dalla nostra parte, dopo poco il loro esercitò cominciò a ritirarsi e Antinochia, sudata per un anno intero, fu finalmente nostra!»
Il padre fece una pausa di riflessione, e poi aggiunse:
«Scoprimmo che Alessio il Khomeno, l'imperatore bizantino, si era rifiutato di portarci il suo aiuto quando era venuto a sapere che Kerbogha aveva assediato in superiorità numera schiacciante... da non crederci che quel figlio di puttana ci avesse dato per morti! Fu allora che decidemmo di continuare la nostra strada senza l'appoggio dei bizantini. E marciammo alla volta di Gerusalemme... senza più pensare ad altro che liberare una volta e per tutte il santo sepolcro! Non ci fermammo nemmeno per conquistare città lungo il percorso. Non potrò mai dimenticare il momento in cui la vidi apparire di fronte a me, avevo percorso migliaia di chilometri per essere lì... e finalmente Gerusalemme era davanti ai miei occhi, quelli di un giovane guerriero.
Mont Gaudii, o monte della gioia...è cosi che chiamammo la piccola collina da cui fummo in grado di avvistare la città. Ci sembrò di sentire gli angeli cantare al nostro arrivo... Molti di noi si buttarono subito in ginocchio per pregare. Ci accampammo li per poche settimane quando dal porto di Giaffa, non lontano sul Mediterraneo, giunsero i nostri tanto sperati rinforzi. Portarono nuove armi, soldati e legno per costruire le torri d'assedio. E fu così che una sera di luglio portammo le nostre torri alle mura... dove io stesso mi trovavo. Fui tra i primi a mettere piede sulle mura di Gerusalemme uscendo dalla torre d'assedio...ho combattuto contro un numero spropositato di uomini, con tutta la forza che avevo in corpo. E fu allora che le mura divennero nostre, mentre l'esercito nemico cercava rifugio nella cittadella o nella spianata del tempio. Fu nei giorni dopo la conquista delle mura, che ci dedicammo a recuperare tutte le ricchezze della città. Figlio mio, non ho mai visto tanto oro in vita mia come quello che ho conquistato a Gerusalemme, io e tutti gli altri cavalieri dell'armata non riuscivamo a credere ai nostri occhi. Tante di quelle ricchezze che anche quando furono spartire in base ai meriti, fecero la fortuna della nostra famiglia. E' stato Dio stesso a spartire quelle ricchezze...» disse ridendo.
«E poi cosa accadde?» chiese Gabriel, curioso di farsi raccontare la conclusione della storia.
«Accadde che il continente ispanico fu al tempo stesso liberato dalla minaccia araba, che adesso è limitata al sud-ovest. Per il mio servizio di guerra mi furono assegnate inoltre queste terre.»
Gabriel si fermò a pensare al racconto del padre senza parlare, continuava ad avere nella sua testa l'immagine di una Gerusalemme ricoperta d'oro, con tutti questi soldati di Cristo alle mura. Il padre si alzò in piedi, barcollò, si girò verso di Gabriel e gli diede la buonanotte con una pacca sulle spalle. Nuovamente barcollando, si diresse verso l'uscita per andare a dormire. Gabriel ci mise molto tempo a prendere sonno, rimase con gli occhi sgranati a fantasticare ancora sulle avventure del padre.
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