Capitolo 19
Passando lungo le campagne di Damasco, attraverso ultracentenari ulivi, l'armata fece razzia di tutto quello che era commestibile o avesse un minimo valore. I mercenari sopratutto, non avevano pietà a depredare e dare fuoco ai piccoli villaggi attorno alla città. Ma d'altronde ormai era guerra aperta. Per fortuna, gli abitanti del posto avevano avuto una soffiata ed erano stati in grado di ripararsi dentro le mura per molto tempo, evitando un crudele spargimento di sangue. L'armata si accampò non molto lontano dalla città, che si poteva vedere sullo sfondo, per recuperare quanta più legna possibile per le armi d'assedio. Parte della legna fu presa anche da una delle navi che erano state usate per giungere ad Acri.
E fu così che tutti gli uomini, Gabriel e Cesar compreso, collaborarono alla costruzione di scale, catapulte e due torri d'assedio abbastanza grandi da superare le mura nemiche. Il lavoro era pesante, ma il piacevole clima invernale, del tutto diverso da quello a cui Gabriel era abituato, rendeva il fatto di passare giornate sotto al sole, una cosa estremamente piacevole. Lavorando a torso nudo, la sua pelle si fece scura quasi come quella di un arabo, e ne fu alquanto deluso. Quando le enormi macchine da assedio furono completate l'esercito si schierò vicino alle mura e incominciò il suo lento infastidire le mura nemiche con le catapulte.
Gabriel osservava impassibile e senza alcun sentimento quegli enormi massi colpire, a volte danneggiando, l'enorme muro di cinta della città. Dalla loro partenza per Damasco non aveva parlato che il minimo indispensabile con il suo scudiero. Era deluso, triste e non nutriva quasi più speranze che la situazione potesse migliorare. Il primo attacco alle mura infatti, fu un totale fallimento. I nemici che nel frattempo avevano montato anche loro armi pesanti alle torri, erano riusciti a rovesciare una torre d'assedio ben prima che si avvicinasse alla città. Diverse raffiche di frecce caddero sull'armata, che subì pesanti perdite. Gabriel rimase per sua fortuna illeso mentre scortava alcuni uomini con una scala, ma il suo cavallo Aguacero venne colpito di striscio e nitrì nervosamente. Il primo attacco si rivelò un fallimento e il morale degli uomini divenne incredibilmente basso. Era chiaro, forse persino a un bambino, che l'armata fosse in numero tale da non poter prendere il sopravvento in una città ben fortificata come Damasco.
Ma il re francese non ne volle cedere a ripensamenti e diede ordine di sistemare l'equipaggiamento d'assedio per riprovare in seguito un attacco.
Fu proprio quello il momento in cui il nemico, stanco di stare sotto assedio ad attendere, organizzò una sortita e colse l'armata francese alla sprovvista. Ci fu una piccola resistenza, ma presto, capendo di essere in inferiorità numerica, i mercenari si diedero alla fuga. Gabriel restò a combattere finché non li vide andare via e senza attendere un nuovo miracolo come nell'ultima battaglia, capì che i suoi uomini avevano giocato fin troppo con la sorte e che era ora di ammettere i propri limiti e battere la ritirata. Con suo grande disappunto, il nemico aveva mandato la sua cavalleria leggera agli accampamenti, cosicché persino il personale non combattente, Cesar compreso, si era dato alla pazza fuga. Cavalcò con la spada sguainata alla ricerca del suo scudiero e lo trovò in fuga, sfortunatamente a piedi, perché nella fretta aveva voluto non correre il rischio di prendere il suo cavallo. Si diresse verso di lui come alla carica ed urlò:
«Sali Cesar!»
Lo scudiero con il volto pieno di terrore si girò e tirando un sospiro di sollievo. Aguacero dovette caricarsi un ulteriore peso sulla sua schiena e senza darlo troppo a vedere, non gradì particolarmente il nuovo ospite. I due fuggirono disordinatamente assieme al resto dell'armata, da dove erano venuti. Il nemico li seguì per un breve periodo ma poi li lasciò andare, convinto che difficilmente altri cavalieri cristiani avrebbero osato assediare nuovamente Damasco. Il ritorno ad Acri fu terribile, dei mercenari non c'era nessuna traccia mentre sui volti dei superstiti vi era un misto di dolore e delusione. Molti di loro avevano dato tutto per partecipare all'impresa ed avevano finito col perdere i loro amici e parenti in modo così ridicolo, per tornare a casa nell'umiliazione. Il re francese fece sapere che sarebbe tornato in patria senza mai più farsi vedere in Terrasanta dopo una figura del genere. Seduto su una banchina del porto di Acri Gabriel sentì il vento scorrergli sul volto, e senti anche che il vento sarebbe presto cambiato per i cristiani in Terrasanta. Rimase in solitudine a pensare ai racconti del padre. Come era diverso sentir parlare di guerra, gloria e ricchezze quando era solo un ragazzino. Come era diverso invece impugnare la spada sul campo di battaglia, uccidere uomini che fino a poco prima si sarebbero potuti considerare alleati, e tornare all'accampamento sporchi di sangue e terra. Ormai il suo passato era scritto, nella sconfitta.
E del futuro? Già, quale futuro, pensò. Tornare a casa, raccontare della disfatta alla sua famiglia, per tornare in monastero? Per elemosinare qualche terreno al fratello, dovendo rivedere Eméline tutti i giorni? Quale umiliazione più grande per uno che avrebbe preferito vivere in monastero.
Lì al porto di Acri, guardando le navi francesi venir armate e caricate, pianse in segreto lacrime alle quali la brezza di mare aveva dato un lieve sapore di salsedine. Quando fu il momento di partire, Gabriel una forte inquietudine e si chiese se stesse per impazzire. Con Aguacero alle redini camminava verso la nave.
«Torniamo a casa infine mio signore.» disse Cesar.
«Sarete contento di riabbracciare i vostri figli.»
«Oh, non vedo l'ora, e voi di rivedere vostro padre?»
Gabriel non rispose. Pensò che il suo scudiero aveva concluso il suo lavoro, che sarebbe stato pagato dal padre nonostante la disavventura, che in fin dei conti gli era andata bene. Lui almeno avrebbe rivisto i suoi figli, sua madre. Avrebbe pregato nuovamente sulla tomba della moglie. Ad un certo punto, sulla banchina a pochi passi dalla nave Aguacero nitrì nervosamente.
«Che c'è campione?» chiese Gabriel, guardandolo negli occhi.
Fu come un istante, ma nei grandi occhi neri di Aguacero, come un bambino curioso, c'era ancora voglia di cavalcare e di ascoltare le melodie di Gabriel. Si ricordò della sera in cui erano andato a prenderlo nel bel mezzo di un acquazzone estivo, di come il cavallo fosse stato indomabile per tutti tranne che per lui. Sentì che forse ne aveva compreso la ragione. Aguacero aveva scelto Gabriel perché entrambi vivevano in un mondo che non sembrava appartenergli, ed entrambi avrebbero preferito perdersi in una notte di tempesta che morire di noia nella protezione di una stalla o di un palazzo. Fu allora che Gabriel disse.
«Io rimango qui.»
«Come dite mio signore?» chiese Cesar incredulo.
«Quanti soldi ci sono rimasti?» Cesar controllò dentro il sacchetto con le monete.
«Qualche moneta d'oro e diverse d'argento, sufficienti per diversi mesi a venire mio signore.»
«Allora è deciso, andrò a Gerusalemme.»
«Ma signore, vostro padre...»
«A mio padre non devo più nulla.» lo interruppe Gabriel. Cesar restò in silenzio per qualche istante, poi disse:
«Cosa farete mio signore?»
«Non lo so, ma voglio visitare la città per la quale la cristianità ha sacrificato così tanto.»
Cesar non rispose e Gabriel si incamminò verso la nave dicendo:
«Andiamo ora, o perderete il vostro passaggio sino a casa.»
Lo scudiero riprese a camminare in silenzio, rattristato dalla decisione di Gabriel di rimanere in Terrasanta. I due camminarono sino all'enorme passerella che era stata gettata sulla banchina, mentre decine di altri uomini imbarcavano la nave.
«Buona fortuna mio signore, che Dio vi benedica.» disse Cesar come ultimo saluto al suo giovane signore, che ricambiò con un sorriso. Gabriel rimase ad attendere assieme ad Aguacero che Cesar imbarcasse ma a metà passerella si fermò. Per qualche istante ancora rimase di spalle ma ad un certo punto si girò, con gli occhi visibilmente lucidi.
«Vengo con voi mio signore.» disse Cesar correndo indietro verso di Gabriel.
«Ma Cesar... e i tuoi bambini?»
«Forse possono ancora attendere.»
«Mio padre vi pagherà ugualmente, non temete, gli scriverò una lettera, potete anche andarvene ora.»
«Non è solo per il denaro mio signore, è che non voglio che vi succeda nulla di male finché siete qui.»
«Ne siete sicuro?» chiese Gabriel, commosso anche lui.
«Certo.»
«A Gerusalemme allora!» urlò Gabriel.
«A Gerusalemme.» rispose Cesar.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top