Capitolo 17
Rinfoderò la spada e solo in quel momento si accorse di aver perso quasi interamente sensibilità alla mano destra per via della salda presa. Tutti gli arti gli dolevano, a causa dei colpi inferti e raramente, anche subiti. Si sfilò l'elmo e lo legò al fianco. Il vento fresco della sera gli mosse i capelli, incollati com'erano da un misto di sudore e polvere. Con gli ultimi raggi di sole, di colpo sul campo di battaglia regnava la quiete. Solo sporadicamente qualche cavallo a zonzo senza cavaliere brucava la poca erba scoperta, come se non fosse successo niente. Gabriel portò Aguacero al passo e cominciò a guardarsi attorno alla ricerca di un volto amico, ma nelle poche sagome che riusciva a distinguere con difficoltà nel tramonto non riconosceva volti noti. Fu allora che si avvicinò a lui un gruppo di cavalieri, tutti con una torcia in mano che illuminava chiaramente i loro volti. Uno di loro sembrò riconoscere Gabriel.
«Questo è uno dei normanni più valorosi che io abbia mai visto combattere.» disse un cavaliere indicando proprio Gabriel.
Accortosi che stavano parlando proprio di lui si avvicinò a loro dicendo, con un filo di voce.
«Gabriel de la Fuente, sono Gabriel de la Fuente. E voi chi siete?»
«Noi siamo templari.» rispose uno di loro mentre Gabriel, nella luce delle torce in contrasto all'oscurità del primo buio, vide quei volti per la prima volta.
«Come sapevate che eravamo qui?»
«Non lo sapevamo.» rispose lo stesso.
«Eravamo casualmente di pattuglia, per grazia di Dio vi abbiamo raggiunti per tempo.» aggiunse un altro.
«Chi è il tuo comandante?» chiese una nuova voce.
«Il duca Altavilla, e sopra di lui il re francese.» rispose Gabriel.
«Sappiamo che il re francese si è messo in salvo scappando, ma del tuo duca non abbiamo notizie...» disse uno di loro. Gabriel non rispose, ma solo allora i suoi pensieri andarono verso Giovanni Altavilla e il suo scudiero Cesar. Che fine avevano fatto?
«Dobbiamo rientrare ora, non possiamo fare nulla se non portare con noi qualche ferito, puoi aiutarci? Non sei ferito vero?»
«Sono esausto ma tutto intero, e certamente posso aiutarvi.» rispose Gabriel che si era, senza saperlo, guadagnato la loro stima sul campo di battaglia.
«Cerca solo feriti che siano almeno in grado di cavalcare, non possiamo fare nulla per i casi gravi, che il Signore conceda loro l'eterno riposo.»
Uno di loro gli passò la sua torcia e incominciarono, scendendo dal cavallo, a cercare dei superstiti. Gabriel, con Aguacero alle redini, vagava nell'oscurità e trovava solamente morti o brandelli di carne attorno a lui. Nella lucidità del momento, così diverso dal calore della battaglia, la vista di un uomo senza testa lo fece rigettare per terra quel poco che aveva mangiato prima della battaglia.
Ogni tanto attorno a lui, sentendo qualche lamento, si dirigeva nella direzione del richiamo gridando «Ci sono superstiti?» ma continuò a vedere solamente morti attorno a lui, o forse semplicemente il confine tra un moribondo e un deceduto era molto sottile in quel momento.
Fu solo dopo quasi un'ora passata a inseguire richiami che vide un uomo seduto, ferito gravemente da una gamba, guardarlo con occhi pietosi chiedergli aiuto. Era un fante francese e Gabriel non poté fare altro che sforzarsi di tranquillizzarlo mentre gli sfilava lentamente la cotta di maglia e lo aiutava a salire sopra il suo cavallo, dopo avergli offerto da bere. Non molto lontano vide un'ombra muoversi in maniera maldestra. Diverse volte allora chiese se avesse bisogno d'aiuto ma non vi fu risposta. Così, quando si avvicinò, si accorse trattarsi di un cavaliere turco. L'uomo camminava reggendosi a malapena in equilibrio ed aveva una ferita in testa e sul dorso. Gabriel, impietosito anche di fronte ad un nemico in quelle condizioni e con quel poco di umanità superstite, gli offrì da bere e gli fece cenno di montare a cavallo ma l'uomo imprecò qualcosa in arabo e scappò via nella notte scura. Il resto dei templari rimasti, nel frattempo, avevano radunato il maggior numero possibile di sopravvissuti, lasciando i loro cavalli ai casi più gravi. Quando, ormai nel cuore della notte, decisero di partire con i feriti, lanciarono una serie di richiami. Gabriel, che aveva trovato altri due uomini in buone condizioni, si diresse verso di loro.
«Dove andiamo?» chiese ad uno dei templari quando fu abbastanza vicino.
«Abbiamo un avamposto non lontano da qui, seguiteci.»
E fu così che i superstiti, forse poco più di un centinaio, si diressero a piedi nella notte scura, accompagnati soltanto dai lamenti dei feriti. L'avamposto era una piccola fortezza di pietra circondata da un muro di diversi metri. La raggiunsero che era appena sorto il sole. Vedendo i superstiti arrivare gli uomini rimasti di guardia alla fortezza furono colti da stupore enorme e si dettero da fare per aprire loro l'ingresso e prendersi cura dei feriti. Gabriel aiutò il ferito di cui si era preso cura a scendere dal suo cavallo e lo distese delicatamente su di un materasso. Uno dei templari più anziani, esperto medico, si prese cura di lui, lavando e disinfettando la sua ferita. Aguacero rimase a riposarsi dentro una stalla, con del meritato fieno e dell'acqua fresca, mentre quando a Gabriel fu chiesto se era ferito lui rispose: «Sto bene, sono solo stanco.» gli fu detto che di letti liberi non ve ne erano, essendo la priorità concessa ai feriti, ma che avrebbe potuto dormire sotto una tettoia di legno sul retro dell'avamposto. Togliendosi solamente una parte dell'armatura, si sdraiò e prese sonno in un istante. Si svegliò che era notte fonda, la temperatura era scesa bruscamente ma era rimasta comunque gradevole. Attorno a lui altri uomini dormivano beatamente dopo la sanguinosa battaglia. Nelle suo orecchie, a tratti, percepì ancora i suoni delle lame incontrarsi violentemente. E fu proprio durante una di queste allucinazioni che sentì invece parlare.
«Io proprio non capisco, cosa diamine avevano in mente?» disse qualcuno.
Gabriel drizzò allora le orecchie cercando di capire da dove provenisse il suono.
«Stai calmo Gérard o ti sentirà qualcuno.» disse un altro.
E infatti Gabriel, nell'oscurità, si era avvicinato ad una finestra dalla quale usciva il rumore, all'interno non poté vedere altro che due ombre, illuminate soltanto dalla fioca luce di una torcia.
«D'accordo, proverò a parlare più delicatamente.» disse di nuovo il primo uomo.
Fu allora che Gabriel si appoggiò completamente al muro sotto la finestra per ascoltare di nascosto quello che avevano da dire.
«Non è possibile che questi pivelli siano venuti sin quaggiù solamente per farsi massacrare. È stata la loro fortuna e la rovina di alcuni dei nostri uomini che oggi eravamo di pattuglia.»
«Già, abbiamo perso uomini valorosi oggi.»
«Non posso più sopportare una cosa del genere, capisci? Vorrei parlare al re di Francia in persona e dirgliene quattro, che mandasse cavalieri valorosi e addestrati se vuole riprendersi le sue provincie, non questi sbarbatelli.»
«Non posso negare che tu abbia palesemente ragione. Senza contare che i due uomini che abbiamo spedito ad esplorare la porta dell'inferno ancora non hanno fatto ritorno.»
«Cosa pensi che gli sia successo?»
«Bah, non saprei, dicono che nessuno ha mai fatto ritorno da quel posto, ma non credo a queste baggianate.»
«Baggianate o no, questi uomini non tornano da quasi un ciclo lunare ormai, temo solamente per il peggio.»
«E' stata una follia dare retta a quella leggenda, non c'è nessun tesoro e se anche ci fosse stato un tesoro in quella grotta, sicuramente qualcuno ad oggi l'avrebbe già preso. Ti pare che un ladruncolo da due soldi non sarebbe stato in grado di prenderlo da solo? Dovevamo proprio mandare due templari?»
«E se invece il tesoro lo avessero trovato? Se fossero scappati?»
«Non ci credo, erano uomini valorosi che avrebbero potuto tradirci molto prima, non avrebbero mai fatto una cosa del genere.»
Uno dei due uomini tirò un sospiro e poi disse.
«Si, dei nostri uomini mi fido, è di questi francesi e normanni che non sono convinto.»
«Qualche valoroso si troverà tra di loro, ne sono sicuro.»
«Già, ma ho la strana impressione che il numero di valorosi tra le fila nemiche va crescendo giorno dopo giorno... la Terrasanta tornerà presto in mano infedeli.»
Ci fu allora un attimo di silenzio.
«Forse è ora che vado a dare il cambio di guardia.»
«Già, meglio così... Io invece il turno l'ho appena finito, e vado a farmi una bella colazione.»
E detto ciò i due si salutarono.
Gabriel aveva compreso poche parole di quelle che i templari si erano scambiate e inoltre, confuso ancora dalla battaglia com'era, si scordò presto di quello che aveva sentito. Si gettò nuovamente a terra e, con qualche difficoltà, riprese a dormire. Si svegliò la mattina che il sole era sorto da poco, gli fu offerto da mangiare della frutta fresca e della carne secca. Dopo mangiato ebbe finalmente la lucidità per andare a visitare i feriti alla ricerca di volti noti. Alcuni dei superstiti avevano subito amputazioni da parte del medico dell'avamposto, e adesso stavano sdraiati sui loro letti a gemere delle loro pezzi di arto doloranti. L'odore del sangue delle ferite e di un unguento di erbe fatto di grasso di maiale e spezie della Terrasanta era particolarmente intenso all'interno degli edifici dell'avamposto, tutti adibiti a dormitori per via della situazione. Quando Gabriel fu abituato alla vista di tanto dolore cominciò a chiedere se qualcuno, tra i normanni che sembrava riconoscere, avesse notizie del duca Altavilla. Ma nessuno gli seppe dire nulla. Fu quando uscì di nuovo e altri uomini si svegliarono, che uno di loro, interrogato disse:
«Credo di sapere dove puoi trovarlo.»
Gabriel, rincuorato, chiese:
«Dove?»
«Sul campo di battaglia.» rispose l'uomo ridendo.
Gabriel assunse un'espressione indispettita e rispose.
«Non capisco.»
Allora l'uomo disse freddamente:
«E' morto, l'ho visto morire, agonizzante e trafitto da una lancia.»
Gabriel fece un passo indietro e sentì un brivido lungo la schiena sgranando gli occhi incredulo. Giovanni Altavilla era morto.
Era morto l'uomo nel quale aveva riposto tutte le sue speranze di riscatto e gloria. Il bambino che era cresciuto come lui con i racconti delle gesta del padre, era morto trafitto da una lancia nel valoroso tentativo di imitarlo. Tutto questo suonava surreale. Adesso che l'unico legame che aveva con la sua famiglia era lo scudiero, Cesar, affidatogli dal padre.
«Che il Signore lo accolga con sé...» disse l'uomo interrogato da Gabriel, andando a risvegliarlo dal suo torpore.
Ma lui non rispose nemmeno, si sedette poco più in là a fissare il vuoto per qualche ora. Pensò alla sua infanzia, all'arroganza del fratello, ad Eméline, ai racconti del padre. La sua vita ora era così diversa da quella che era un tempo, così diversa che non l'avrebbe potuta nemmeno immaginare.
Nemmeno il miglior libro sulle gesta dei cavalieri avrebbe potuto descrivere la foga e la violenza di uno scontro all'ultimo sangue. Non avrebbe potuto descrivere i rumori, il metallo che incontra altro metallo, gli schizzi di sangue sull'armatura, le grida di dolore e gli uomini accovacciati in attesa di ricevere il colpo di grazia. Eppure adesso tutti questi dettagli andavano e venivano nella mente di Gabriel, come in un caleidoscopio. Passarono diversi giorni e Gabriel cercò di recuperare le forze presso l'avamposto. Poi arrivò la richiesta, da parte dei templari, di lasciare il loro forte e ritornare a Bisanzio, se si era in grado di farlo.
Non vi erano né vi sarebbero state in futuro provviste a sufficienza per tutti. Coloro che avevano subito ferite lievi si erano ormai ripresi, per fortuna la maggior parte, mentre per coloro che non sarebbero stati più in grado di camminare o brandire una spada, la sola speranza risiedeva nelle cure che avrebbero ricevuto dai templari. Così una mattina, montò nuovamente in sella ad Aguacero e si diresse, assieme ad un centinaio di altri uomini, verso Bisanzio.
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