Capitolo 16
Per le strade di Bisanzio vennero accolti senza particolari riguardi. Gli uomini della città avevano già visto passare due imponenti eserciti poco prima: quello francese e quello teutonico. Proprio a quello francese Gabriel e la «piccola» armata dei normanni si sarebbero uniti secondo i piani.
Restarono comunque in città, per permettere a tutti coloro che avevano subito ferite, di riprendersi. Solo a distanza di qualche tempo decisero di muoversi tutti verso le porte della città, dove erano gli accampamenti dei restanti uomini. Tra le cure di un bravo medico e dei gustosi cibi speziati, sia Gabriel che Cesar, si ripresero lievemente dal trauma. Fu solo allora che Gabriel ebbe il tempo e la lucidità per accorgersi di quanto diversa fosse Bisanzio dalle città che sino ad allora aveva visto: persone dalla carnagione olivastra, dai tratti somatici molto simili agli "infedeli" che non agli europei.
Si accorse di colpo che gli abitanti erano, per la maggior parte cristiani, ma di una cristianità diversa da quella del resto d'Europa. Quando Gabriel, incuriosito, chiese a Cesar ulteriori spiegazioni, si accorse che persino lui ne era parzialmente all'oscuro. Seppe solamente dire che le loro differenze avevano a che fare con concetti religiosi basilari, e, che in fin dei conti, li considerasse comunque fratelli cristiani. Arrivò infine il giorno nel quale uscirono finalmente dalle mura della città per dirigersi verso l'accampamento francese. Lo spettacolo che si propose ai loro occhi , lasciata la città alle sue spalle, era un numero impressionante di uomini e bandiere che si estendevano a perdita d'occhio. In confronto l'accampamento Normanno era un paesino contro una grande città. Proprio della replica di una città si trattava, con tutti i suoi servizi.
«Mio signore, non ho mai visto in vita mia uno spettacolo del genere.» confessò Cesar in quel momento.
«Nemmeno io.» rispose Gabriel.
Il duca Altavilla si fece avanti e fu ricevuto, dentro una mastodontica tenda, ornata ripetutamente dallo stemma reale francese. In ultima analisi, proprio a loro avrebbero fatto capo. Il colloquio durò un paio d'ore, nel frattempo Gabriel mandò Cesar a far montare la sua tenda dopo essersi fatto aiutare a smontare la sua armatura. Il duca normanno uscì dal colloquio con un volto ancora più cupo, come se avesse subito un altro mare in tempesta. Quando in serata, Gabriel approcciò la tenda in cerca di spiegazioni, il duca inizialmente stentò a rivolgergli la parola su quanto era accaduto, ma poi sotto promessa della segretezza confessò a Gabriel qualcosa che lo fece rimanere completamente scioccato:
«Hanno intenzione di prendersi Bisanzio a tradimento!» confessò il duca.
«Che cosa? Ma come è possibile?» chiede Gabriel stupito.
«Non lo so, non capisco nemmeno io cosa stia succedendo.»
«Sono cristiani, come noi, forse leggermente diversi, ma perché attaccare loro?»
«Già, che follia, i nostri padri disapproverebbero.»
«Certo che disapproverebbero, come sarebbe a dire attaccare un alleato a tradimento?»
«Prima il naufragio, adesso i francesi traditori, mi domando cosa siamo venuti a fare.» disse il duca scrollandosi le spalle.
«E se daranno l'ordine di prendere la città cosa ordinerete ai vostri uomini?»
«Vedi Gabriel è questo il problema...»
«Come vi salta in mente, non dovreste avere dubbi!» urlò Gabriel in una vampata di collera.
«Non posso nemmeno andare contro il volere dei francesi, questo è certo!» rispose Giovanni Altavilla con un tono altrettanto intenso.
«Voi non vi azzarderete a impartire ai vostri uomini un ordine del genere! Non vi azzarderete!» urlò Gabriel, poi fece un balzo verso il duca e lo afferrò per il collo.
«Non dimenticate che sono io al comando dei miei uomini e per volere di vostro padre voi siete un mio subordinato!» e così dicendo il duca, che aveva ottime abilità di combattente, si liberò dalla presa di Gabriel e lo gettò a terra.
Nel frattempo le guardie del corpo, appena fuori la tenda, sentendo le grida di Gabriel si erano allarmate ed erano entrate di corsa, spada sguainata, puntata contro il povero cavaliere a terra.
«Lasciatelo stare, è tutto sotto controllo.» disse loro il duca. I due normanni, tranquillizzandosi, fecero un passo indietro rinfoderando la spada uno dopo l'altro. Gabriel si tirò su in piedi ansimando.
«Che non si ripeta più una cosa del genere, o giuro sul nome della mia famiglia che vi toglierete di torno, sono io ad impartire ordini qui.» urlò il duca, con una rabbia composta, pietrificando l'aragonese con i suoi occhi azzurri.
«Si mio signore.» rispose Gabriel stringendo i denti. Uscì allora dalla tenda, scortato dalle guardie, per dirigersi verso la sua. Incrociò Cesar, non aveva voglia di condividere con lui l'accaduto perciò tacque.
Nei giorni successivi l'intero accampamento era in subbuglio. Uomini armati di pattuglia in ogni momento. Ad ogni cavaliere, Gabriel compreso, fu distribuita una lancia di frassino. Sembravano i preparativi per una guerra. Ci si sarebbe aspettati, da un momento all'altro, l'ordine di partire per la Terrasanta nel tentativo di riprendersi Edessa, ma quell'ordine non arrivò mai.
Gabriel, in cuor suo, sapeva che qualcosa di molto più losco veniva tramato tra le fila alleate. E uno strano senso di impotenza, quello strano senso di essere soltanto una pedina nelle mani del destino, lo pervase mentre, seduto su una roccia di fronte al suo cavallo, si mise a suonare un motivetto triste con il suo flauto. Una piccola lacrima, che si asciugò in un attimo, scese dai suoi occhi. Mentre una parte di lui, forse ancora più profonda, soffriva ancora di più. Per tanto tempo, durante il suo viaggio, non aveva pensato ad Eméline. Ma proprio in quel momento, riprese a farlo, forse proprio ora che sembravano entrambi condividere un destino comune, avverso a entrambi. Cesar al suo fianco si accorse del brusco cambiamento, ma non disse nulla. I "preparativi" continuarono ancora, senza un obbiettivo apparente, finché una notte l'intero accampamento non fu svegliato con urla che ordinavano un adunata, in formazione da assedio.
«A Bisanzio! A Bisanzio!» sembravano urlare tutti. Cesar si era svegliato e, stravolto chiese:
«Cosa vogliono fare, attaccare Bisanzio forse? Ma sono nostri fratelli!» Gabriel, con un espressione più cupa della notte stessa, chiese a Cesar di aiutarlo a sistemarsi l'armatura.
«Sono pazzi Cesar, sono ordini che arrivano da schieramenti politici e non religiosi. Avrei preferito non essermi mai imbarcato in questa commedia che dover fare quello che forse andrò a fare stanotte.»
Lo scudiero era senza parole mentre sistemava l'armatura a Gabriel, finì di attaccargli gli spallacci e lo guardò nei suoi occhi cupi, in cui si rifletteva la luce della torcia, prima di passargli l'elmo che andò a coprirgli parzialmente il volto. Gabriel fu ben felice di abbassarsi l'elmo e nascondere la sua espressione di fronte al suo scudiero. Si fece aiutare a montare a cavallo e Cesar gli passò la lunga e snella lancia di frassino.
«Tornate mio signore.» disse Cesar prima di andarsene. Gabriel spronò Aguacero che partì al trotto, verso una formazione di cavalieri normanni illuminata dallo scintillare delle torce che alcuni di loro impugnavano con la mano opposta alla lancia. Nella notte, attendevano tutti nervosamente ulteriori ordini senza fiatare. L'esercito francese si era posizionato in prima linea seguito dalla cavalleria normanna, ma dei tedeschi non c'era nessuna traccia. Ad un certo punto, con gli uomini snervati dall'attesa, ancora sconvolti per gli ordini compromettenti, iniziò a circolare sottovoce la notizia che avrebbero attaccato a breve. Subito dopo però, nell'arco di pochi minuti, la notizia fu smentita da un altro brusio, che infatti riportava che l'attacco non ci sarebbe più stato. Passò ancora del tempo ed il cielo si fece più chiaro, rendendo gli uomini sempre più confusi perché un attacco mattutino avrebbe fatto perdere il suo effetto sorpresa. Gabriel era esausto, nel corpo e nello spirito, finché di fronte a lui non passò proprio Giovanni Altavilla, con la sua armatura finemente decorata. Tutti i cavalieri alzarono la visiera in segno di rispetto, Gabriel compreso. Fu allora che giunse l'ordine nel quale nessuno osava nemmeno sperare più dopo tanta attesa: «L'attacco è annullato, rompete le righe e tornare a riposare.»
«Rompete le righe! Rompete le righe!» continuavano a gridare i cavalieri mentre il cuore di Gabriel batteva all'impazzata dalla gioia, come se si fosse svegliato da un brutto incubo.
Quel senso di oppressione che lo aveva perseguitato negli ultimi giorni era svanito. Tornò da Cesar, ormai in piena mattinata, e lo scudiero fu così contento non solo di vederlo integro, ma anche di non dover pulire dal sangue "nemico" la sua spada.
«Che gioia togliervi l'armatura quest'oggi mio signore! Che gioia!» disse Cesar.
«Domani chiederò ulteriori spiegazioni al duca, ma a quanto pare il buonsenso ha prevalso sulla follia e l'invidia.» rispose Gabriel, poi aggiunse:
«Ma c'è mancato poco.»
«A volte l'uomo fa paura, non è vero mio signore?»
Gabriel tirò un sospiro, poi disse: «Quanto è vero mio buono e fedele scudiero, quanto è vero.»
«Ma il buon Dio ha escogitato uno stratagemma per poter distinguere gli uomini per il loro valore, lascia loro la possibilità di commettere errori.»
«Anche di uccidere i propri fratelli.»
«Si, anche quello.»
Cesar aveva un modo tutto suo, così semplice, di intendere la divinità. Gabriel ne era giorno dopo giorno sempre più affascinato. Era una visione così diversa dalle formule latine che si era dovuto imparare in monastero. Ma era una versione straordinariamente efficiente per capire il mondo che lo circondava. E anche l'ultimo pezzo dell'armatura fu tolto.
«Buonanotte» disse Gabriel, rifugiandosi esausto nella sua tenda, anche se non era che il primo pomeriggio.
Cesar gli sorrise un'ultima volta. Al suo risveglio, di sera, nell'accampamento normanno e in quello più grande, francese, non c'era che buonumore. Fiumi di vino scorrevano mentre soldati e cavalieri si scambiavano in continuazione battute. Tutt'attorno era un festival di melodie da piccoli strumenti musicali. Anche Gabriel si lasciò un po' andare e fu proprio mentre sorseggiava una coppa di vino che incontrò Giovanni Altavilla, particolarmente sbronzo, che sembrava non ricordare nulla dell'incidente tra lui e Gabriel accaduto poco prima. I giorni passarono ancora, finché non si iniziò a vociferare che sarebbero partiti presto per Edessa. Gabriel fu convocato nella tenda del duca Altavilla. Questa volta nel vederlo, il duca si dimostrò più freddo e formale di prima.
«Mi avete chiamato?» chiese Gabriel.
«Si amico mio, per darti brutte notizie.» rispose.
«Dopo il maldestro tentativo di pugnalare alle spalle i bizantini cosa ci può essere di peggio?»
«C'è di peggio Gabriel ossia che il re teutonico non ha intenzione di prendere la stessa strada del re francese, quindi la nostra, quando sarà dato l'ordine di partire.»
«E per quale motivo? C'è forse una strategia dietro forse?»
«Ma quale strategia!» esclamò il duca, poi prese fiato e ricominciò:
«Ero presente quando hanno avuto questa discussione, non hanno voluto trovare un accordo su un qualcosa di così ridicolo come la strada da percorrere! Vogliono andare nell'entroterra montuoso, dicono che faranno prima, ma è semplicemente più complicato da attraversare, noi seguiremo, finché ci sarà pratico, la strada della costa, poi ancora in terra cristiana devieremo per Edessa. E vuoi sapere la cosa peggiore qual'è? Che invece di discutere razionalmente sulle esigenze pratiche hanno continuato a tirare in ballo vecchi intrighi, mi sembrava di assistere al litigio di due bambini.»
Gabriel si sentì triste al pensiero che la battaglia contro il nemico non era nemmeno cominciata che già all'interno dell'armata vi erano così tante crepe.
«Saremo sotto il comando francese?»
«Si, ma stavolta ho alzato la voce e ho preteso di avere parte dell'armata indipendente. Quindi dovremmo essere in grado di cavarcela per conto nostro in situazioni difficili.»
«Almeno questa sembra una bella notizia.» commentò Gabriel.
«Hai scritto a tuo padre?»
«No, è da quando sono partito che non ho sue notizie, vorrei scrivergli per dargli delle soddisfazioni, e scrivere in questo momento forse lo deluderebbe.»
«Pensi che i nostri genitori non abbiano combattuto con gli stessi compromessi?»
«Non ne sarei così convinto, ricordo storie assai diverse.» rispose Gabriel, mentre il duca si fermò un attimo a pensare accarezzandosi la folta barba bionda. Solo dopo diversi istanti Giovanni Altavilla riprese parola e disse:
«Grazie di essere venuto, avevo forse solo bisogno di qualcuno con cui sfogarmi.»
«Non c'è di ché» disse Gabriel, poi salutò nuovamente prima di uscire. Quando Gabriel, pochi giorni dopo, vide l'armata tedesca partire, si domandò per quale motivo i loro accampamenti erano stati così vicini per poi andarsi a separare proprio nel momento in cui avrebbero dovuto essere uniti. Dopo la partenza dei vicini, l'accampamento francese si fece silenzioso, nel giro di due giorni furono fatte provviste, le tende vennero smontate e l'armata, con in testa i cavalieri, si avviò seguendo per diversi chilometri la costa. Gabriel de la Fuente era davanti, coperto dalla sua armatura d'acciaio, con lo scudo sul braccio sinistro e la lancia tenuta stretta nella mano destra. Nonostante il peso però, Aguacero sembrava quasi contento che il suo padrone avesse ripreso a cavalcare assieme a lui per lunghe distanze, come qualche anno prima. La brezza di mare che soffiava verso la costa sembrava addirittura rinvigorirlo. In testa all'armata vi era la cavalleria francese, affiancata dal lato della costa da quella normanna. Il Duca Altavilla andava umilmente assieme ai suoi uomini mentre il re francese aveva deciso di tenersi in disparte, con l'alibi che avrebbe potuto coordinare meglio la battaglia se posto a distanza. L'armata marciò per diversi giorni, sotto al sole rovente mentre lentamente il paesaggio cominciò a cambiare mentre venivano finalmente raggiunte le provincie cristiane in Terrasanta. Fu dietro una collina, in una piccola radura senza alberi, con il sole dritto negli occhi sul far della sera, che scoppiò l'inferno. Gabriel era assorto in pensieri assai piacevoli quando sentì un corno risuonare, da dietro una collina alla sua sinistra. Girò lo sguardo e, appena il suono finì, vide un numero enorme di cavalieri apparire sopra la collina e puntare verso il fianco della cavalleria francese. Osservando meglio, si accorse che molti di essi non erano nemmeno a cavallo ma bensì montavano dei cammelli.
«Turchi!» gridò qualcuno vicino a lui, e tali infatti erano coloro che li stavano attaccando.
A Gabriel si gelò il sangue nelle vene quando, poco dopo la cavalleria, sbucò dalla cima della collina anche la loro fanteria, in numero ancora più superiore. Il duca Altavilla spronò il suo cavallo e diede il comando alla cavalleria normanna di mettersi in formazione e i suoi uomini risposero prontamente. Ma per la cavalleria francese fu poco il tempo a disposizione, i cavalieri nemici erano già su di loro e con agili mosse creavano confusione gettandogli addosso le loro lance corte per poi sguainare nell'aria una curiosa spada ricurva che Gabriel aveva già visto in un mercato bizantino. Senza avere modo di organizzarsi, la cavalleria francese cercò di difendersi come poteva. Alcuni cavalieri gettarono la lancia a terra e partirono alla ricerca di un duello uomo a uomo, contro i cavalieri nemici che agili, battevano in ritirata quando si accorgevano di essere seguiti.
«Carica!» urlò il duca Altavilla puntando alla fanteria nemica.
«Carica!» ripeterono diversi cavalieri attorno a lui, per assicurarsi che tutti potessero sentirli.
Gabriel chiuse la visiera dell'elmo e diede un colpo di sperone al suo cavallo come gli era stato ordinato. L'intera formazione dei cavalieri normanni era partita in soccorso dell'armata francese: centinaia di cavalieri dall'armatura d'acciaio e la lancia nella stessa direzione, si dirigeva verso un comune obbiettivo.
La terrà tremò ripetutamente sotto il loro passo e lo stesso tremore fu forse percepibile da tutti i loro nemici che si accorsero della loro presenza con terrore. Gabriel era uno dei tanti cavalieri, una delle tante lance di frassino. A nulla gli sarebbe potuta servire la sua abilità da spadaccino durante quella carica, avrebbero potuto mettere un grosso fantoccio al suo posto e l'effetto sarebbe stato probabilmente lo stesso. La loro carriera, era diretta verso il nucleo della fanteria nemica la quale, capendo di essere un facile bersaglio, cercò di dileguarsi, rompendo la formazione.
Nessuno dei cavalieri cambiò direzione, nemmeno quando la maggior parte dei fanti nemici fece in tempo a mettersi in salvo, tale era l'inerzia che quei blocchi d'acciaio uno a fianco all'altro si portavano dietro. Gabriel fu tra i primi a colpire, puntò come meglio poteva la lancia contro un fante ma finì per mancarlo con la punta, fu il suo stesso cavallo a travolgerlo in uno scontro mortale. Il secondo invece fu colpito alla schiena dalla sua lancia, in un inutile tentativo di fuga, cacciò un ultimo urlo mentre la lancia, cambiando traiettoria per via del peso della vittima, andò a conficcarsi nel terreno arido mentre Gabriel mollava la presa. Prima di sguainare la spada con la mano destra, ora libera, ebbe modo di girare la testa per accorgersi che tutti i cavalieri normanni erano ancora al loro posto e non lasciavano scampo a nessuno dei fanti che incrociarono nella loro carriera.
Con la spada in mano, continuò il suo macabro lavoro. Tagliò di netto la spalla ad un fante rimasto in piedi a fronteggiarlo, schizzi di sangue partirono e finirono in parte sull'elmo. Il suo cuore, nell'armatura d'acciaio, batteva forte, mentre non pensava ad altro che alla sopravvivenza, più che alla gloria. Quando, di fronte ai cavalieri, non vi fu più un fante, la carica fu sospesa con un «Alt!».
Tutti rallentarono o si fermarono come poterono, prima di girarsi e rimettersi in formazione. Fu allora che Gabriel realizzò che quella che lui credette una potente carica era in realtà un buco nell'acqua. Di fronte ad esso infatti, i cavalieri nemici, alcuni con maestosi cammelli, stavano massacrando la fanteria normanna e francese, trovatasi in difficoltà nel difendersi dai loro veloci "mordi e fuggi". Anche la cavalleria francese, non più in formazione, cercava come poteva di mettere in difficoltà i cavalieri nemici, ma per via delle pesanti armature i cavalieri francesi, sembravano lenti e goffi in confronto ai nemici. La cavalleria normanna si ricompose dietro il duca Altavilla che per qualche istante rimase impotente ad assistere al massacro della sua fanteria.
«Carica! Carica!» urlò nuovamente, ed i cavalieri dietro lui partirono nuovamente alla carica, ma non fu ben chiaro quale fosse, della carica, l'obbiettivo.
Quando furono abbastanza vicini ai nemici, accortosi che con una carica del genere avrebbero colpito la loro stessa fanteria, il duca intimò l'alt e ruppe la formazione. A quel punto Gabriel si guardò attorno per scegliere liberamente il proprio bersaglio. Vide un cavaliere nemico vicino a lui, intento a infastidire un fante. Gli piombò alle spalle, aprendo un buco nel suo torace difeso da una leggera armatura di cuoio. Di nuovo alzò lo sguardo e vide, confuso in mezzo alla battaglia, ovunque e sparpagliati sul campo, nemici ed amici mischiati come in una enorme rissa da osteria. Si diresse con veemenza verso un altro cavaliere, senza accorgersi che un terzo stava per caricarlo sul fianco sinistro. Per sua enorme fortuna lo vide con la coda dell'occhio, e i suoi riflessi lo aiutarono, giusto in tempo per parare con lo scudo il colpo di sciabola e per colpirlo alla testa con lo scudo stesso, buttandolo giù da cavallo.
Gabriel era giovane, forte e veloce. Ma non si poteva dire lo stesso dei cavalieri normanni, che troppo spesso cadevano uno dopo l'altro sotto i colpi del nemico. La battaglia continuò in maniera sempre più confusa e persero tutti la cognizione del tempo. Fu solo quando si accorse di trovarsi ripetutamente a combattere contro due o addirittura tre cavalieri nemici contemporaneamente che Gabriel intuì che la sorte era avversa nei confronti dell'armata francese.
Con la speranza e la gioia di vivere che gli restava in corpo continuò a schivare i colpi del nemico, che il più delle volte finivano per essere invano, attutiti dalla sua armatura. Con orrore realizzò che quando i cavalieri normanni venivano buttati giù da cavallo, spesso morivano di una una morte terribile e vigliacca, in quanto con il peso dell'armatura e lo stordimento dato dalla caduta, ci mettevano troppo tempo a rialzarsi in piedi mentre il nemico piombava su di loro trafiggendoli con la lancia tra le giunture dell'armatura. Si fece allora più saldo al suo Aguacero, che nel suo essere un cavallo estremamente nervoso si dimostrava meravigliosamente reattivo in battaglia. Il cavaliere Aragonese continuò a combattere come un leone, senza mai darsi per vinto, anche quando ormai era palese che la maggior parte dei suoi compagni fossero morti o ancor peggio mutilati.
Fu proprio quando stava per perdere le speranze e tentare una fuga, che dalle spalle della collina dalla quale era partito l'attacco nemico, sbucò un nuovo manipolo di cavalieri, con le insegne cristiane.
«Il Signore sia lodato, sono rinforzi!» gridò qualcuno nella confusione della battaglia.
Gabriel tirò un caldo sospiro di sollievo quando si accorse che questi cavalieri, sebbene fossero ancora in inferiorità numerica, erano dei valorosi combattenti e sembravano, più di ogni altra cosa, conoscere i punti deboli del nemico. Alcuni di loro, nonostante combattessero con estremo valore, caddero in battaglia. Ma furono tuttavia in grado di rivoltare, lentamente, le sorti dello scontro. Gabriel cercò di far leva sulle ultime forze rimaste per sostenere fino alla fine la battaglia. Spronò Aguacero ad avvicinarsi loro e urlò loro in francese «Ordini?» come a sottomettersi al loro comando, ma nessuno di loro gli rispose, indaffarati com'erano a combattere i turchi.
Allora cercò di adottare la loro stessa strategia con buoni risultati. Quando, sul calar del tramonto, il nemico suonò la ritirata, Gabriel smise di inseguire un cavaliere in fuga e tirò un enorme sospiro di sollievo. La sua armatura era sporca di sangue, già secco, e pezzetti di interiora degli uomini che aveva ucciso su quel campo di battaglia tappezzavano la sua armatura scintillante, uomini che avevano ucciso a loro volta forse, gli stessi cavalieri con cui aveva suonato e bevuto qualche settimana prima.
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