Capitolo 14

Il porto di Civitavecchia non apparve loro confuso e frenetico come quello di Genova. Le navi, con le loro magnifiche vele bianche spiegate, uscivano ed entravano con regolarità, i piloti si affrettavano, con la loro scialuppa, a raggiungere i vascelli più grandi per aiutarli nella manovra. Decisero, proprio in occasione del viaggio in mare, di fare scorta di frutta fresca e pane secco.

«Signore devo confessarvi una cosa.» disse Cesar imbarcando la nave tenendo il cavallo nero per le redini.

«Dimmi amico mio.»

«E' la prima volta che viaggio in nave.»

Gabriel che per un attimo aveva pensato di essere l'unico dei due, scoppiò a ridere tanto da far quasi innervosire il suo Aguacero, per poi dire:

«Anche per me è la prima volta!».

La nave era una goletta mercantile e la sua destinazione finale era la Sicilia. Uno degli ufficiali di bordo gli diede il benvenuto, un giovanotto dalla carnagione scura e dall'aria confusa che si esprimeva in un pessimo francese. Il ragazzo fece un lungo discorso, lungo per via di molte correzioni e tentativi di spiegare con dei gesti quello che non riusciva a descrivere a parole. Alla fine Gabriel aveva intuito quale fosse il suo messaggio: la nave avrebbe fatto solo una sosta a Napoli, bel tempo permettendo. Ai passeggeri sarebbe stato permesso l'accesso al ponte superiore solamente durante i periodi di crociera della nave, ma non durante le manovre d'atterraggio e attracco. I cavalli, compreso il povero Aguacero, sarebbero rimasti nella stiva assieme alle merci con una piccola quantità di fieno per loro e un barile d'acqua.

Le condizioni di viaggio erano terribili per gli sfortunati animali, ma avrebbero avuto questa sfortuna solo per pochi giorni. Finché la nave rimase ormeggiata sul porto, fu un esperienza piacevole: Gabriel fu lieto di intrattenersi con dei mercanti di spezie la cui meta sarebbe stata l'Africa. Conversò con loro un'oretta buona, gli raccontarono dei loro viaggi e delle merci di cui si occupavano. Gabriel divenne particolarmente affascinato da uno di loro, il quale, riconoscendo in Gabriel un cavaliere crociato, gli raccontò della sua epopea in Terrasanta di tanti anni prima, quando era giovane come suo padre. Stando a quanto raccontò quel mercante, la Terrasanta aveva offerto a lui l'opportunità di tenere delle terre, ma essendo sempre stato un grande amante del mare e non della vita sedentaria, vendette tutto per partire come mercante di spezie e gioielli per il nord-Africa.

Fu proprio durante il racconto di una sua disavventura, ad opera di alcuni briganti egizi, che fu chiesto a tutti coloro presenti a bordo, eccetto i marinai, di andare sotto coperta perché la nave sarebbe stata presto pronta a salpare e l'equipaggio necessitava di muoversi velocemente sul ponte. Gabriel scese alcune scalette di legno ed entrò in un livello della nave, particolarmente buio e maleodorante. Alcune colonne di legno, poste a mo' di sostegno del ponte superiore, fornivano il supporto per un grosso numero di amache di canapa, sulle quali Gabriel avrebbe dovuto dormire. Cesar, che era rimasto in disparte, aveva un'aria altrettanto preoccupata. Ma il peggio doveva ancora venire. Si udirono urlare una serie di ordini dal ponte superiore e i marinai cominciarono a correre a destra e manca calpestando il legno che sotto ai loro piedi, creava un'inquietante amplificazione del suono nel livello inferiore. Poco dopo la nave cominciò a muoversi, Gabriel sentì delle piccole oscillazioni che a poco a poco andavano aumentando di intensità. Fu allora che la cena a base di fagioli e pomodori tornò a farsi sentire con un conato acido che gli lasciò un sapore acido tra i denti. Ancora confuso, raggiunse presto un livello di nausea tale da riuscire a permettersi a malapena di stare in piedi. Non poté fare altro che aggrapparsi ad uno dei pali di legno. Non si accorse nemmeno che il suo scudiero, a pochi metri da lui, stava soffrendo le sue stesse pene. Fu allora che uno dei mercanti con cui aveva parlato prima, rendendosi conto della situazione, si avvicinò a lui con un bicchiere di vino e glielo porse.

Gabriel, che avrebbe provato qualunque cosa per migliorare la sua condizione,buttò giù il vino tutto d'un fiato. Si sentì dapprima accaldato, poi sorrise a vuoto, e lentamente sembrò che la nave divenisse più stabile. Ma non fu la nave a smettere di oscillare, era lui, che intossicato dal vino, prese ad ondulare come una bandiera tanto da compensare il movimento della nave e non percepirne più il disagio. Quando fu concesso il permesso ai passeggeri di sostare sul ponte superiore, corse su come un demonio. Appoggiato al bordo della nave con la testa verso l'oceano, rigettò tutto quello che aveva mangiato la sera prima. Fu solo allora, dopo l'ultimo conato di vomito, che provò un enorme senso di soddisfazione. Come ripresosi da un incubo, si guardò attorno, ed al suo fianco, appoggiato anche lui al bordo, vide Cesar. Lo scudiero aveva appena rimesso in mare, come il suo padrone, la cena della sera precedente. E fu in quel momento, che incrociando i loro sguardi, scoppiarono in una fragorosa risata attirando i presenti che li guardavano stupiti. La nave nel frattempo aveva preso il largo, ma il capitano non si era mai allontanato di molto dalla costa. E, proprio mentre la nausea finalmente scompariva, circondati da una tiepida brezza di terra, apparve davanti a loro la meravigliosa città di Napoli, con il porto a seguire. La nave attraccò per un breve periodo mentre ai passeggeri non fu concesso di scendere. Su di un'amaca che per ogni ondeggio compensava un'onda del mare, Gabriel prese finalmente sonno mentre la nave usciva nuovamente dal porto per la sua destinazione finale. La costa italica non finì di meravigliare Gabriel, il quale, rimanendo a digiuno, ebbe alla fine un viaggio gradevole. Così diversi tramonti dopo la partenza videro di fronte a loro la Sicilia, fondersi con la punta estrema dell'Italia in un valzer di vortici e strane correnti marine che, da tanti secoli a quella parte, spaventavano i marinai.

Ebbero la sensazione di aver attraversato una tavolozza di acquerelli quando attraccarono al porto di Siracusa: un panorama di colore arancio con sfumature di giallo si aprì dinanzi ai loro occhi esausti. Stanchi del breve viaggio e desiderosi di un letto di paglia in cui dormire, l'equipaggio della nave disse calorosamente addio ai due passeggeri prossimi alla discesa e si prepararono ad osservare dalla nave il loro congedo. Gabriel andò giù nella stiva, prese per le redini Aguacero, dall'aria estremamente nervosa, e lo strattonò dolcemente verso l'uscita. Il cavallo inizialmente provò a resistere, convintosi forse che il destino che l' avrebbe atteso nella stiva della nave, sarebbe stato migliore di quello fuori di essa. Pochi istanti dopo, il fianco della nave fu aperto e lasciò entrare una profonda scia di odori variegata di pesce, spezie e terra umida. Il cavallo annusò l'aria e si convinse ad uscire. Il porto di Siracusa era molto diverso da quello delle città precedenti, era, ad una prima impressione, decisamente più piccolo. La caratteristica che agli occhi di Gabriel lo contraddistinse invece era la sua assoluta varietà di prodotti, mercanti e lingue. Sebbene ormai avesse avuto un orecchio abbastanza fino per le lingue Europee vi furono alcuni accenti che non riuscì ad identificare. Divenne ancora più preoccupato quando vide alcuni uomini, alti e dalla carnagione scura, passeggiare tranquillamente di fronte a lui con un turbante in testa ed una strana spada ricurva infilata nel fianco.

«Cesar hai visto anche tu?» disse Gabriel stupito.

«Si mio signore.» rispose, poi aggiunse:

«Credo siano arabi.»

«Com'è possibile che gli stessi popoli che hanno combattuto la guerra di mio padre, passeggino tranquillamente per questo porto che non gli appartiene?»

«Sono mercanti mio signore, ed il miglior lasciapassare è il loro stesso denaro. Nessuno si sognerebbe di interrompere i rapporti marittimi con questi popoli.»

«La guerra non riguarda i mercanti?» chiese Gabriel ingenuamente.

«La guerra li riguarda eccome, ma in un senso assai diverso da quello che voi possiate immaginare.» rispose Cesar, proprio nel momento in cui uno dei mercanti, seguito dagli altri, prese un tappeto e, stesosi a terra, si mise a pregare inchinandosi ripetutamente verso sud-est.

Gabriel rimase a fissarlo meravigliato e fu interrotto dopo qualche istante da Cesar che gli comunicava che forse era ora di sistemarsi nella loro locanda.

«Questa sarà l'ultima notte che passeremo su di un vero letto, da domani ci aspettano gli accampamenti normanni.» disse Cesar.

Gabriel lo guardò annuendo ma per nulla preoccupato. Come per Genova, pochi giorni prima, ebbero la possibilità di alloggiare presso una locanda a pochi metri dal mare. Questa però, più che un albergo per mercanti, sembrava una graziosa casa di pescatori. Il proprietario, un uomo basso e tarchiato con un enorme sorriso sotto a due strisce enormi di baffi neri, si rese estremamente disponibile verso di loro tanto da farli sentire come a casa. I cavalli smaltirono la debilitante stanchezza del viaggio in mare dei giorni passati, masticando lentamente del fieno. Dalla sua finestra Gabriel poteva vedere il mare, ma, cosa ancor più sorprendente, il rumore delle onde infrante sugli scogli entrava perfettamente dalla sua finestra.

Chiudendo gli occhi, gli sarebbe bastato un attimo per immaginare di stare sdraiato proprio sulla spiaggia. E fu proprio quel rumore, ad invitarlo nuovamente ad uscire, nonostante la stanchezza. Cesar ne approfittò per pulire l'armatura di Gabriel, prevedendo che nel giorno successivo avrebbe incontrato gli stessi uomini per i quali avrebbe combattuto. Il sole era basso, sul porto, mentre alcuni pescatori, estremamente chiassosi, raccoglievano le loro reti. Vi era una ragazza tra di loro, intenta ad aiutarli nel piegare le reti. Aveva la pelle scura, come quella di una mulatta, ma i lineamenti caucasici con gli occhi neri ed i capelli neri lucidi. Lavorava con ritmi regolari, in un modo che Gabriel avrebbe potuto definire elegante.

Rimase per diversi minuti ad osservarla, colpito dalla sua particolare bellezza, finché la ragazza non si accorse di essere osservata. Fu allora che lo sguardo di Gabriel si allontanò dal suo e si incamminò frettoloso e imbarazzato sul molo, verso la locanda. Si fece buio quando la raggiunse e Cesar era già caduto in un sonno profondo, con le mani stanche per aver lucidato l'armatura del suo padrone. Gabriel fu colpito dalla sua tanta devozione, poi anche lui cadde in un sonno profondo. Fu il suo scudiero a svegliarlo la mattina successiva, e delle prelibatezze dolci, appena uscite dal forno, li aspettavano per colazione. Senza capire una sola parola di francese il proprietario della locanda al solo sentir pronunciare la parola «Altavilla» si affrettò a disegnare, su di un foglio di carta, una mappa per raggiungere gli accampamenti normanni. Quando la mappa finì tra le sue mani che tese con gratitudine, Gabriel poté leggere i nomi di diversi villaggi circostanti in un tragitto da seguire. Cesar, esperto più del suo padrone nel seguire tracce, si prese la briga di tenere la mappa con sé e di studiarla nel frattempo.

I cavalli furono sellati e preparati alla partenza, Aguacero fu estremamente contento di riprendere il cammino al passo e sulla terraferma, dopo la sua breve ma intensa esperienza marittima. I due cavalli si allontanarono, oltre le mura della città, attraverso una radura secca, bisognosa, come non mai, di qualche temporale estivo. Gabriel rimase meravigliato nell'osservare, ai lati della strada, delle piante grasse, che raramente aveva avuto modo di vedere nella sua terra natale. E fu proprio mentre rimaneva incantato ad osservarne una, che il suo scudiero gli disse:

«Eccoli, da quella parte.»

Gabriel alzò lo sguardo, due cavalieri di guardia, con tanto di armatura, controllavano l'accesso sulla strada. Fecero un cenno di mano, intimando a voce l'ordine di fermarsi a pochi metri da loro. Gabriel, avvicinandosi, non poté vedere altro che, come unici connotati, i loro occhi azzurri sotto l'elmo.

«Sono Gabriel de la Fuente» urlò loro Gabriel in francese.

«Non conosciamo questo nome» disse il primo, nella stessa lingua.

«Da dove venite?» chiese il secondo dopo pochi secondi.

«Veniamo dall'Aragona» disse Gabriel. I due cavalieri si guardarono a vicenda increduli nel sentire il nome di una terra così lontana.

«Dove siete diretti?» chiese dopo qualche istante uno di loro, stavolta con un timbro di voce amichevole.

«L'accampamento normanno.» rispose Gabriel.

«Conoscete gli Altavilla?»

«Certo.» disse Gabriel, poi aggiunse:

«Mio padre ha combattuto per loro.»

I due cavalieri allora si scambiarono qualche opinione in una lingua a Gabriel incomprensibile. Quando il giovane volse lo sguardo verso il suo scudiero, con un'occhiata gli fece intendere il suo spaesamento e lo scudiero rispose alzando le spalle.

«Va bene, potete andare, l'accampamento è dietro quella collina.» disse il cavaliere, con il braccio teso a mo di indicazione.

Gabriel e il suo scudiero ringraziarono, poi procedettero direttamente nella direzione indicatagli.

«Non sembravano particolarmente scrupolosi, mi è bastato fare qualche nome perché ci lasciassero entrare.» disse Gabriel.

«A quanto ho sentito la situazione politica è finalmente stabile e non si sente parlare di invasione musulmana da anni ormai, forse è per questo che si sono fidati senza nemmeno scortarci sin qui.» rispose Cesar.

«Già dev'essere così.» disse Gabriel.

Raggiunta la cima della collina, davanti a loro apparve un accampamento dove si potevano contare più di un centinaio di tende bianche. Alcuni uomini erano intenti a tirare con l'arco, contro dei bersagli di paglia. Un altro gruppo, se ne stava intorno al fuoco rigirando dello stufato in un enorme calderone, dal quale usciva un fumo denso. Un fabbro, vicino ad una fornace da campo, si impegnava con enorme sforzo a colpire ripetutamente uno scudo incandescente per potergli dare la giusta forma. Un gruppo di uomini, apparentemente sfaccendati, erano sdraiati sull'erba mentre suonavano un curioso strumento musicale che Gabriel non aveva mai visto: un piccolo strumento di metallo dalla forma rotonda, che si tolsero dalla bocca quando videro il giovane avvicinarsi a loro per chiedere informazioni.

«Cerco il Duca Giovanni Altavilla.» disse loro.

«Per quale motivo?» chiese uno di loro.

«Combatterò con voi.» rispose Gabriel, sforzandosi di fare bella figura.

«Sei il benvenuto allora cavaliere, la sua tenda è quella.» e così dicendo l'uomo indicò la tenda verso la quale Gabriel e il suo scudiero poco dopo si diressero. Gabriel sapeva che avrebbe dovuto confrontarsi con uno dei più importanti nobiluomini dell'Italia meridionale, ma era tranquillo. Sapeva, sopratutto, di poter contare altrettanto sul suo nome, e, sulle gesta cameratesche del padre. Disse il suo stesso nome ad un soldato di guardia di fronte alla tenda. Questi entrò nella tenda ed uscì dopo pochi minuti dicendo secco:

«Arriva»

Gabriel fece un passo indietro assieme a Cesar e rimase lì ad aspettare. Ad un tratto la tenda venne aperta da un uomo molto alto, robusto, e dei qualche anno più vecchio di Gabriel, con indosso una cotta di maglia.

«Lei deve essere... Gabriel de la Fuente!» disse l'uomo che Gabriel aveva intuito essere Giovanni Altavilla.

«Sono io.» disse Gabriel, osservando i suoi occhi azzurri e la sua lunga e curata barba bionda.

«E' davvero un onore conoscervi, cavaliere.» disse allungando la mano che Gabriel strinse vigorosamente.

«Le dispiace se ci allontaniamo un attimo a fare due passi?» chiese Altavilla.

Gabriel fece un cenno a Cesar che si era, nel frattempo, messo da parte, intuendo l'importanza dell'incontro, poi rispose.

«Certamente.»

Ed i due si allontanarono lentamente.

«Mio padre è molto malato, cieco, e come suo ultimo desiderio ha deciso di morire nella terra dei miei avi... Ma se non fosse per la sua incapacità di leggere, gli manderei subito una lettera raccontandogli del vostro arrivo, chissà come ne sarebbe entusiasta. Un de la Fuente che torna a combattere al fianco della nostra famiglia!» raccontò Giovanni eccitato.

«Anche io sono cresciuto con i racconti di mio padre sul conto della vostra famiglia, storie di cavalieri tanto coraggiosi da sembrare surreali.»

«Eppure sono storie vere Gabriel... posso darti del tu?» chiese il Duca.

«Ma certo.» rispose Gabriel sorridendo, non riuscendo ad intuire, nel suo modo d'essere così naif, che quello del tu era un privilegio che un Duca avrebbe riservato a pochi eletti.

«Come dicevo Gabriel, storie vere, storie di gloria, conquista e ricchezze. Guarda questo paese Gabriel, le arance crescono rigogliose! Le donne sono belle e ci amano! Nulla a che vedere con le terre del nord, dove d'inverno non cresce nulla e il mare diventa ghiacciato permettendo solo a poche navi di solcarlo! Quale grande fortuna avere questo privilegio.»

«Ma per questo privilegio vi sono anche dei doveri?» osservò Gabriel.

«Già, dobbiamo muovere battaglia, e farlo contro gli stessi invasori che i miei Antenati cacciarono dalla penisola italica. Gli infedeli musulmani.»

«E cosa avremo in cambio?» chiese Gabriel.

«A questo non saprei rispondere, dipenderà dal nostro valore.» Rispose Giovanni Altavilla, che per un attimo, sembrò a Gabriel il fratello che Julio per lui non era mai stato: una persona di cui fidarsi. Gabriel guardò l'accampamento soddisfatto, per la prima volta sentì che la vita gli stava dando una vera possibilità di scelta, che avrebbe stavolta giocato sino in fondo. Quel posto nel mondo che forse tutti meritiamo. Tutti quegli uomini che poteva vedere, dalla carnagione chiara, scottata dal sole della Sicilia, sembravano così determinati e pieni di speranza, come se di guerra non si trattasse.

«Quale sarà la prima tappa?» chiese Gabriel eccitato.

«Bisanzio, via mare, dopodiché ci uniremo ad un armata ancora più grande.»

«E quando partiremo?»

«Stiamo aspettando altri uomini e altro equipaggiamento, ma sono sicuro che prima della prossima domenica saremo già in mare se il tempo lo permetterà. Già vedo in te giovane promettente Gabriel, e so che hai viaggiato molto per arrivare sin qui, ma adesso riposati, non è ancora il momento della battaglia.» disse Giovanni, dandogli una pacca sulla spalla. I giorni passarono frenetici tra i preparativi di quel brulicante nido di uomini, ma le notti offrivano scarse possibilità di riposo.

Il calore era intenso dentro la tenda, le zanzare erano sempre attorno, e per esorcizzare l'insonnia spesso i cavalieri si radunavano all'aperto, sotto le stesse, cantando le canzoni tipiche delle loro terre d'origine e sorseggiando vino. Gabriel rimaneva spesso sveglio sino a tardi a sentirle, bevendo sporadicamente dalle loro coppe. Così facendo, velocemente, si andavano a formare legami d'amicizia oltre i ranghi e lo status sociale, facendo sembrare così lontana la vita in monastero che aveva svolto sino a pochissimo tempo prima. Quando gli uomini scoprirono che Gabriel, come alcuni di loro particolarmente dotati, padroneggiava uno strumento musicale, non passò pomeriggio o sera in cui non gli venne chiesto di suonare il suo aulos. Gabriel inizialmente si sentì timido, ma a breve ci riprese confidenza con lo strumento e fu in grado di unire il dolce suono del flauto agli striduli fischi dei loro "scacciapensieri".

Poi una mattina, ancora travolto dai fumi di euforia della sera precedente, tenendo Aguacero per le briglie, si imbarcò su uno dei tanti velieri venuti al porto di Siracusa per portare gli uomini verso la Terrasanta. Ancora terrorizzato dall'idea del mal di mare che lo aveva colto nel suo primo viaggio, si accorse presto, dopo essere salpato, che stavolta il suo corpo sembrava semplicemente essersi adattato a quegli ondeggiamenti. Cesar invece ne soffriva ancora e spesso capitava che Gabriel, da buon amico, lo aiutasse a rigettare in mare. Tutti i velieri procedevano nel tramonto in una sorta di formazione, non molto lontani l'uno dall'altro, ma solamente uno portava la bandiera con lo stessa di famiglia degli Altavilla, segno che proprio su quella nave stava Giovanni Altavilla.

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