CENTOSESSANT'ANNI PRIMA - TORINO - 30 Aprile 1860

Palazzo Carignano

Giacomo Nigra stentava a credere alle proprie orecchie. Si appiattì ancora di più contro il muro assicurandosi per l'ennesima volta che intorno non ci fosse anima viva.

Pur essendo una figura che tutti conoscevano all'interno di Palazzo Carignano, non avrebbe comunque saputo come giustificare la sua presenza accanto alla sala cui Cavour teneva le sue riunioni private. Soprattutto a quell'ora e con un atteggiamento che denotava tutto tranne che un'aria indifferente.

Le sue orecchie erano appoggiate alla porta socchiusa, nel tentativo di captare quanti più frammenti possibili della conversazione che il Presidente del Consiglio dei ministri stava portando avanti con il generale Manfredo Fanti.

Era capitato lì per caso.

Come ministro degli esteri del governo Cavour aveva tutte le ragioni per trattenersi a Palazzo anche fuori dell'orario previsto, ma quella sera il destino aveva voluto riservargli qualcosa di molto diverso, qualcosa che avrebbe cambiato per sempre ilo corso della sua vita.

Stava camminando per il corridoio centrale diretto verso l'uscita, quando aveva sentito la voce inconfondibile di Cavour provenire dall'interno della sala delle udienze. Niente di strano e probabilmente non ci avrebbe nemmeno dato più di tanto peso se non avesse udito alcune parole che gli avevano fatto accapponare la pelle.

E' un inganno per Italia – dobbiamo stare attenti con Lord Palmerston - e poi c'è la faccenda Garibaldi – ormai è tardi.

Si era fermato di colpo.

Ma di cosa stanno parlando?

Conosceva bene Lord Palmerston. Henry John Temple era un lord inglese che aveva fatto una rapida carriera all'interno del parlamento inglese, guadagnandosi ben presto la fiducia della Regina Vittoria fino a diventare Primo Ministro. Un uomo intelligente, scaltro e opportunista. Un personaggio ambiguo che già da tempo stava cercando l'occasione giusta per allargare i suoi orizzonti espansionistici verso il Mediterraneo e mettere le mani nelle faccende italiane.

Come mai Cavour lo aveva citato?

Da quello che aveva percepito sembrava quasi che stesse parlando di qualche strano accordo messo in piedi con lui e che adesso fosse troppo tardi per tirarsi indietro.

Di qualsiasi cosa si trattasse sentiva una gran puzza di bruciato.

E poi Garibaldi. Cosa c'entrava il Generale in quella storia?

Convinto che dietro quella discussione si celasse del losco, si era avvicinato alla porta per continuare a origliare. Non ne andava fiero, ma quella aveva tutta l'aria di essere un'occasione particolare. Conosceva da molti anni Cavour e lo aveva sempre appoggiato in ogni sua scelta. Gli era stato al fianco in tantissime decisioni anche in quelle più difficili e politicamente meno corrette, e ciò gli aveva permesso di ottenere la sua piena fiducia.

Per tale motivo non riusciva a spiegarsi come mai non gli avesse parlato di possibili accordi con l'Inghilterra.

In effetti, era molto strano. Oltretutto, da che ne sapeva, l'Inghilterra era l'ultima nazione da cui si sarebbe aspettato un qualche tipo di aiuto e lui stesso stentava a credere che Cavour la pensasse diversamente e che si fosse rivolto al Primo Ministro britannico piuttosto che a Édouard Drouyn de Lhuys, il ministro degli esteri francese.

Con la Francia, infatti, il Regno di Sardegna aveva un rapporto decisamente migliore, frutto peraltro anche del suo operato, soprattutto dopo che, inviato in missione segreta alla corte di Napoleone III due anni prima, era stato fondamentale per la realizzazione degli accordi di Plombieres con i quali si stabiliva non solo un'alleanza fra il Regno di Sardegna e la Francia in previsione di una guerra contro l'impero austriaco, ma anche un rafforzamento dei rapporti fra i due paesi.

No, indubbiamente c'era qualcosa di strano in quella discussione.

E lui doveva saperne di più.

Si fece attento.

«Sei sicuro di volerlo fare? Voglio dire è il momento giusto?» domandò il generale Fanti con una voce carica di preoccupazione.

«L'incontro? Certo che sì» la voce di Cavour era invece chiara e nitida.

«Ormai è deciso. Fra due giorni sarò a Bologna e incontrerò il Re. Sarà un momento decisivo e vorrei che tu venissi con me.»

«Va bene.»

«Ormai è tutto predisposto, non possiamo tirarci indietro. L'unica cosa che spero è che Vittorio Emanuele non ci metta i bastoni tra le ruote. Dal nostro accordo dipendono le sorti del Regno.»

«Perché dovrebbe? Anche lui in fondo si trova sulla stessa nostra barca. Non ne trarrebbe alcun vantaggio, non credi?»

«Hai ragione, ma la faccenda è troppo delicata e non mi fido di nessuno.»

«E di Garibaldi invece che mi dici? Ti fidi del Generale?»

«Lui non è un problema, puoi stare tranquillo. E' già pronto con i suoi uomini. Sta solo aspettando un mio ordine. Farà quello che gli diremo. E' abituato a combattere e non si lascerà sfuggire l'occasione di passare alla storia come l'uomo che ha unificato il paese.»

Giacomo sussultò. Unificare il paese?

Una gran brutta sensazione si fece strada dentro di lui, mentre un brivido freddo gli corse lungo la schiena.

«Forse hai ragione» continuò la voce di Fanti «mi sto preoccupando un po' troppo.»

«E' naturale, ma non ne hai motivo. La macchina ormai è in moto, tutti sono stati avvertiti e ognuno farà la propria parte, come da programma. So anche che il manipolo di militari inglesi è già in viaggio per raggiungere Garibaldi a Quarto. Saranno i rinforzi necessari a completare l'invasione. Te l'ho detto, a questo punto non si può più tornare indietro. Quello che dovremo fare è solo lasciar credere al Generale, e al popolo, che si tratta di una vera e propria guerra di liberazione, di un'impresa che cambierà per sempre, in meglio, la vita di tutti. Vedrai, andrà bene.»

«D'accordo. Ma per le banche?»

«Se tutto procederà come stabilito, saranno solo un brutto ricordo.»

«Già, ma a che prezzo» si lasciò sfuggire Fanti.

«So cosa di turba, ma nessuno saprà mai la verità. Sarà il nostro segreto che porteremo nella tomba. Non ne vado fiero, intendiamoci, ma come tu ben sai è l'unica soluzione possibile per evitare la bancarotta. E io farò di tutto per salvare le casse del Regno.»

«Adesso o mai più, quindi.»

«Adesso o mai più.»

Giacomo ebbe un sussulto. Aveva sentito abbastanza.

Un groppo in gola gli bloccò il respiro mentre la sua mente cercava di assimilare l'enorme portata di ciò che aveva appena udito.

Il pensiero di ciò che si stava architettando nelle stanze di palazzo Carignano e il fatto che il popolo italiano ne era totalmente all'oscuro gli piombarono addosso come un macigno.

Con le ginocchia tremanti si allontanò dalla porta e si mosse veloce lungo il corridoio cercando di uscire dal palazzo prima che qualcuno notasse la sua presenza.

Devo fare qualcosa, mormorò fra di sé non posso permettere che venga perpetrato un simile inganno.

***

La notte passò insonne, con la mente pervasa da orribili pensieri.

Su tutti uno: Camillo Benso conte di Cavour.

Come aveva potuto quell'uomo così retto e devoto alla causa italiana mettere in piedi una simile beffa?

Evidentemente non lo conosceva poi così bene come aveva creduto. Certo come ministro sapeva perfettamente che le casse del regno erano, per così dire, in una situazione non favorevole, ma mai avrebbe creduto che la soluzione fosse svendere il paese agli Inglesi e alle loro banche, per di più facendo in modo di mascherare il tutto ingannando il popolo con l'idea rivoluzionaria di una guerra di liberazione.

Era un piano diabolico e la cosa peggiore era che poteva benissimo funzionare anche perché lui era perfettamente a conoscenza delle mire espansionistiche della Corona nel Mediterraneo e, se aveva intuito bene i pensieri di Cavour, questi accordi segreti non facevano altro che servire al Primo Ministro l'intero paese su un piatto d'argento.

Ma cosa avrebbe potuto fare lui da solo? Come avrebbe potuto impedire che ciò avvenisse?

Se avesse rivelato quello che sapeva, nessuno gli avrebbe creduto. Tutta la vicenda era stata rigorosamente tenuta sotto traccia e senza prove non avrebbe avuto alcuna speranza.

E allora? Doveva lasciare che tutto accadesse senza nemmeno provarci?

In quel momento gli venne in mente un particolare della discussione della sera prima.

Cavour aveva parlato di un incontro che si sarebbe tenuto il giorno successivo a Bologna con Vittorio Emanuele II, incontro che a sarebbe servito a dare l'avvio a tutta l'operazione.

Avallato dal Re, Cavour avrebbe potuto dare l'ordine a Garibaldi di invadere il sud del Paese ammirando da lontano il compiersi della sua opera. Non ne conosceva i dettagli ma essendo abituato agli intrighi di palazzo e conoscendo gli attori in gioco, non ci mise poi molto a ricostruire ciò che il Presidente del Consiglio aveva in mente.

La rivelazione fu uno shock.

Il tesoro dei Borboni! Ecco a cosa mirano Cavour e il Re.

L'unica soluzione per uscire dalla bancarotta era ripagare i loro enormi debiti e quale occasione migliore della requisizione delle enormi casse di denaro delle banche borboniche?

Oltretutto l'invasione dei territori del Regno delle due Sicilie e dello stato Pontificio da parte dell'esercito di Garibaldi avrebbero fornito l'alibi perfetto per fare man bassa senza il rischio di essere tacciati di furto.

Un piano semplice quanto geniale.

Peccato che sull'altro piatto della bilancia si sarebbero trovate le banche estere e gli avvoltoi della Corona.

Scosse la testa.

Non posso permetterlo.

Dilaniato da questi foschi pensieri maturò lentamente un'idea. Folle, rischiosa, ma allo stesso tempo anche l'unica che avrebbe potuto in qualche modo evitare tutto questo: avrebbe assassinato il Presidente del Consiglio.


Nascosto dalla vegetazione stava osservando la carrozza su cui avevano viaggiato Cavour e il generale Fanti ancora ferma al centro del cortile del monastero di San Michele in Bosco.

Una pioggia torrenziale si stava abbattendo sul terreno da ore, riempiendo l'aria di umidità e offuscando la visuale.

Strinse i pugni e si asciugò il volto, poi si mise un cappuccio nero sulla testa tornando un attimo dopo a osservare dritto di fronte a sé per mettere a fuoco il momento esatto in cui avrebbe agito.

Quando vide i due uomini scendere dalla carrozza e avviarsi verso l'ingresso, decise che era arrivato.

«Morte ai traditori!» urlò uscendo alla scoperto scagliandosi contro Cavour nel tentativo di conficcare la lama del coltello dritta nel suo cuore.

Non ci arrivò mai.

Tutto accadde nel giro di qualche secondo. Il generale Manfredo Fanti si avvide dell'uomo un attimo prima che riuscisse nel suo intento. Si gettò su di lui scaraventandolo a terra e immobilizzandolo.

«Tu?» sentì dire al Presidente quando gli tose il cappuccio nero dalla testa. «Perché?»

Giacomo non gli rispose.

Il suo volto era una maschera di tristezza. Aveva fallito e il suo tentativo di salvare il paese era svanito per sempre.

Non avrebbe avuto una seconda possibilità. Adesso tutto sarebbe andato a rotoli. Non c'era più speranza. Nemmeno la pistola puntata alla sua testa lo stava intimorendo tanto quanto l'orrore per ciò che sarebbe potuto accadere nei mesi successivi.

Chiuse gli occhi. Non c'era più niente che potesse fare. Il segreto del suo insensato gesto sarebbe morto con lui.

«Perché mi hai chiamato traditore?» si sentì dire ancora da Cavour con una voce rotta dalla rabbia. «Perché?»

Il rumore della pioggia attutiva le sue parole.

Ancora una volta non rispose limitandosi a fissare il Presidente, che stringendosi nelle spalle, si voltava sparendo lentamente alla sua vista.

Lo vide entrare nel monastero, il cuore gonfio di un'amara sconfitta.

E stette così, immobile e silenzioso, mentre una pioggia sferzante continuava a picchiettare sul terreno fangoso e una densa cortina di nebbia sfumava i contorni.

Quella fu l'ultima cosa che vide.

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