CAPITOLO 11

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Non appena i due uomini videro la macchina dell'agente del C.I.I.. parcheggiata lungo la strada a circa una cinquantina di metri da loro, decisero di fermarsi.

Trovarono posto e spensero il motore. Da quella distanza potevano tenere d'occhio la strada senza il rischio di essere scoperti. Non sapevano esattamente cosa stesse facendo Colonna in quella zona di Livorno, ma il fatto che la sua macchina fosse ancora lì, significava solo che, in qualunque edificio fosse entrato, doveva essere ancora al suo interno, il che dava loro tutto il tempo necessario per studiare la zona e pianificare le mosse successive.

Il fattore tempo era fondamentale e nessuno dei due poteva rischiare di fallire. La richiesta d'intervento era arrivata direttamente dalle alte sfere dell'Ordine il che equivaleva a dire: niente domande.

In silenzio, con le pistole cariche nei giubbotti, puntarono lo sguardo verso la strada, pronti a entrare in azione.

***

«Deve sapere che verso la metà del diciannovesimo secolo» iniziò a raccontare Ravizza con voce lenta e cadenzata «a New York esistevano quattro grandi logge massoniche i cui membri erano in stragrande maggioranza di origine latina. Tre erano di stampo francese, L'Union Francaise N 17, la Cincerit N 373 e la Clemente Amitie Compolite N 410 mentre solo una di stampo spagnolo, la Fraternidad N 387.

All'interno di queste logge si trovavano anche molti italiani, emigrati nel corso degli anni negli Stati Uniti principalmente per motivi di lavoro. Uomini di cultura, pionieri e imprenditori, come un certo Attilio Massabo, mercante di stoffe nato in Piemonte ma residente a New York. Fu proprio lui che, nel 1853, decise di riunire tutti gli italiani delle quattro logge sotto una nuova associazione, un'unica congrega che avrebbe preso il nome da grande generale la cui gloria e fama aveva eguagliato in America quella di George Washington. Nacque così la Garibaldi Lodge N 542, di cui Massabo divenne il primo Gran Maestro.»

Ravizza alzò la mano e mostrò a Lapo un anello con inciso il simbolo della massoneria insieme ai numeri e alle lettere identificative della loggia.

Lo stesso fece Achille Gonella.

Lapo l'osservò con attenzione. «Vedo che entrambi fate ancora parte di questa congrega dopo tutti questi anni» commentò con aria sarcastica. Era stanco di sentir parlare di logge massoniche. Più cercava di stare lontano da quel tipo di associazioni, e più ne veniva costantemente risucchiato. Gli era già successo non molto tempo prima con i Cavalieri di Santiago e adesso ecco che ricominciava con Garibaldi, per non parlare di ciò che Rosa gli aveva comunicato poco prima a proposito dell'ordine del Rito Scozzese.

Non ne era sicuro, ma cominciava ad avere la netta sensazione di essere finito nel bel mezzo di un'antica faida che pareva durare da più di centocinquant'anni.

«Sì, rispose Ravizza distogliendolo dai suoi pensieri. «La loggia esiste tutt'oggi ed è potente tanto quanto lo era un tempo. I suoi obiettivi però non sono mutati. Anzi. Ciò che noi tutti stiamo ancora cercando di fare è onorare un antico giuramento, siglato appunto nella riunione del 1882 nelle stanze del teatro alla Irving Hall.»

Lapo socchiuse gli occhi. Temeva la risposta che avrebbe avuto, ma non poté fare a meno di porre la sua domanda.

«Di quale giuramento sta parlando?»

«Del ritrovamento del diario di Giuseppe Garibaldi.»

Ecco, appunto.

«Non mi aspetto che lei condivida le nostre idee, signor Colonna» commentò Ravizza vedendo la sua espressione perplessa, «ma che le accetti per quello che sono. I fatti non possono essere cambiati. Ne prenda atto. Così come credo che debba capire che per i membri della loggia un giuramento è qualcosa di estremamente sacro che deve essere onorato, a qualunque costo. Non importa quanto tempo è necessario.»

«Cos'ha di tanto importante quel diario?» chiese senza fare ulteriori commenti.

Ravizza fu grato di quel cambiamento di rotta e del fatto che non avesse insistito per avere spiegazioni al riguardo. «Secondo la tradizione» gli rispose «sembra che al suo interno Garibaldi abbia annotato ogni aspetto della sua vita. E' come se fosse una specie di resoconto delle sue memorie, degli avvenimenti più importanti della sua vita, compreso ciò che noi stiamo cercando, ovvero il grande inganno riguardo la spedizione dei Mille.»

«Inganno?»

Ravizza sorrise. «Vedo che anche lei non è a conoscenza della verità che si cela dietro l'unificazione d'Italia. Ma c'era da aspettarselo. Vede, quello che le sto confidando è che l'impresa di Garibaldi, quella che è passata alla storia come un'impresa leggendaria, di liberazione e di creazione di un paese nuovo, di fatto è solo una grande beffa organizzata a tavolino in ogni suo aspetto grazie a una serie di accordi segreti messi in piedi da Cavour e da Vittorio Emanuele II con la connivenza dalle logge massoniche britanniche.»

«E lei è sicuro di ciò che sta affermando?»

Ravizza annuì.

«Che ci creda o no, faccio fatica ad assimilarlo.»

«E' comprensibile. Lasci allora che le faccia un paio di domande. Si è mai chiesto per esempio come mai Garibaldi riuscì in un'impresa così imponente avendo a disposizione solo un manipolo di uomini? Come avrebbe potuto, secondo lei, sconfiggere da solo, e quasi senza sforzo, un esercito enorme e ben gestito come quello borbonico se tutto non fosse già stato predisposto prima?»

«Quindi» fece Lapo cercando di arrivare al punto «come sono andate secondo lei le cose? Cosa successe realmente?»

«Una manovra politica, ecco quello che accadde. Sto parlando di corruzione di militari e di politici, sto parlando di fiumi di denaro utilizzati non solo per assicurarsi il sostegno politico delle persone che contavano negli stati da annettere, ma anche per corrompere gli ufficiali in vista dei famosi plebisciti. Fu un'operazione militare a tutti gli effetti, Colonna, condotta in ombra e gestita in grande stile dai lord inglesi e dalle banche. Un inganno mostruoso, compiuto dai politici italiani per salvarsi dalla bancarotta economica.»

«Sta dipingendo un quadro decisamente fosco» commentò Lapo quasi non volesse credere a quelle parole.

«Oh, non sa nemmeno quanto...»

«E lei è davvero convinto che l'aspetto economico abbia avuto un ruolo fondamentale? Ha parlato di fiumi di denaro, di banche, di crisi finanziaria, ma non ha prove al riguardo.»

«Per questo ci serve il diario. Se ci pensa bene, tra l'altro, sono stati proprio questi i veri motivi che hanno alimentato i moti rivoluzionari di quel periodo. Soldi, sempre e solo soldi. E tanti debiti. Le dirò anche un'altra cosa, che stavolta è ampiamente documentata. Intorno alla metà del 1800, le casse del Regno di Sardegna erano decisamente in rosso. Vuote, per essere più precisi. La politica espansionista dei Savoia era stata deleteria per le banche del regno e la guerra di Crimea fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il rischio della bancarotta era diventato una realtà molto concreta e Cavour stava disperatamente cercando una via d'uscita. Per trovarla, dato che quasi tutti gli stati italiani erano gestiti dalle banche dei Rotschild, non vide altra scelta che rivolgersi all'unico alleato possibile, l'Inghilterra.»

«Perché parla di unico alleato?»

«Perché per Cavour era la scelta più ovvia. Aveva già instaurato dei rapporti bancari con loro, in particolar modo con Joachim Hambro, un banchiere di Londra di origine danese. Quest'ultimo era una persona intelligente e coraggiosa che trovò affascinante l'idea di sfidare i Rothschild in Italia, supportando i Savoia e puntando a sottrarre ai banchieri tedeschi territori e banche locali. Ma questo fu un grave errore. Cavour era un politico abile e scaltro, ma non aveva il potere di controllare tutta la scacchiera. La notizia della bancarotta del Regno di Sardegna giunse infatti alle orecchie attente dell'allora primo ministro inglese, Lord Henry Palmerston che, intuendo il punto debole del parlamentare e intravedendo la possibilità di un grande guadagno per la Corona, non ci mise molto a entrare in azione e a gettarsi nella mischia come un falco.»

«Okay, ma cosa avrebbe ottenuto l'Inghilterra da un accordo con Cavour?»

«Molte cose in effetti. Prima di tutto la distruzione dello Stato della Chiesa e del suo alleato, il cattolicissimo Re delle due Sicilie. Poi l'allontanamento dell'odiata Francia delle faccende del Mediterraneo e infine l'ottenimento del controllo delle miniere di zolfo della Sicilia. Insomma Lord Palmerston aveva un sacco di validi motivi per intromettersi nella faccende italiane.

E lo fece nell'unico modo possibile, promettendo di aiutare Cavour e Vittorio Emanuele II a mettere le mani sulle enormi casse del tesoro dei Borboni. Se tutto fosse filato liscio, Cavour avrebbe avuto il denaro sufficiente a ripagare i debiti sia con le banche britanniche che con quelle della famiglia Rotschild, mentre l'Inghilterra avrebbe ottenuto la distruzione dei Regno delle due Sicilie e del Vaticano.

Era un accordo vantaggioso per entrambi.»

«Riassumendo, ciò che sta affermando è che Cavour avrebbe tradito il suo popolo costringendolo a un'unione fittizia solo per uscire da una crisi finanziaria che avrebbe potuto rovinarlo?»

«Ha centrato in pieno l'argomento» rispose Ravizza.

«Lui e Vittorio Emanuele II furono gli artefici di questo inganno» intervenne Gonella scuotendo la testa «e il popolo non ha mai saputo la verità.»

«E Garibaldi invece? Ne era a conoscenza?»

«Non all'inizio. Fu anche lui una vittima di quella macchinazione, come tutti gli altri. E Cavour lo sfruttò. Per lui rappresentava l'uomo giusto al momento giusto. Un patriota che non avrebbe esitato a mettere a repentaglio la sua vita per un bene superiore. Un Generale che non avrebbe esitato a rispondere al richiamo dell'avventura e del suo Re., senza indugio.

E così infatti fu. Ma alla fine anche lui scoprì la verità e a quel punto non poté più rimanere in silenzio decidendo di mettere nero su bianco nel suo diario tutto ciò che sapeva.»

«Sono affermazioni forti, se ne rende conto?»

«E come non potrei.»

«Nessuno aveva prove concrete prima che Menotti Garibaldi portasse all'attenzione della loggia il diario che suo padre aveva scritto prima di morire e che aveva anche prontamente nascosto per timore che potesse essere distrutto. Per questo è importante ritrovarlo, prima che cada nelle mani sbagliate. Un passo falso e tutta la faccenda sarebbe irrimediabilmente insabbiata, per sempre. Perciò avevamo ingaggiato Michele» fece una pausa. «Ed eravamo così vicini...»

Lapo non era ancora del tutto convinto. C'era un particolare che stonava come una sorta di ultimo pezzo mancante.

«Se la faccenda era conosciuta fra i membri della loggia» domandò quindi mentre le rotelle del suo cervello si muovevano a un ritmo vorticoso «perché mai nessuno tentò di fermare Cavour? Sarebbe stato tutto molto più semplice.»

«Lei ha perfettamente ragione, Colonna» rispose Ravizza sospirando. «Ancora una volta.»

Fece una pausa, poi riprese. «In effetti qualcuno ci fu. Un uomo, un politico dello stesso entourage di Cavour. Una persona intelligente che aveva a cuore gli interessi del suo paese e che non tollerava le ingiustizie. Per questo nel maggio del 1860 tentò di assassinare il Presidente del Consiglio per impedire che la spedizione dei Mille venisse approvata. Cercò di farlo eliminando dal gioco proprio uno dei suoi promotori nel giorno esatto in cui si sarebbe dovuto tenere a Bologna l'incontro decisivo con il re Vittorio Emanuele di Savoia.»

«Ma sfortunatamente non ci riuscì, giusto?»

«Già. Sfortunatamente. Se il suo gesto fosse andato a buon fine» mormorò Ravizza «forse l'Italia che tutti noi oggi conosciamo sarebbe stata molto diversa.»

«Sappiamo che fine ha fatto questa persona?»

«Non è una vicenda che si legge nei libri di storia o che si studia a scuola. E' stata insabbiata, come molte altre verità scomode, ma noi della loggia conosciamo la verità. E' stato giustiziato, pochi giorni dopo essere stato arrestato. Si chiamava Giacomo Nigra e sì, prima che lei me lo chieda, faceva parte della loggia Garibaldi N 542.»

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