Epilogo



I tacchi a spillo della donna risuonavano eleganti sull'asfalto, in direzione del Palazzo dei Congressi. Una volta che fu davanti al grosso portone, stretta nel suo cappotto bianco, la donna fece per tirar fuori il suo tesserino dalla borsetta di strass, ma un uomo fasciato da un completo color panna le venne incontro scuotendo una mano. Doveva essere un portinaio.

«Non è necessario, dottoressa Common» gongolò. «Benvenuta!»

Non appena Susie Common mise piede nel palazzo, un altro inserviente si occupò di tenerle il cappotto, mentre un terzo uomo la accompagnò in una saletta illuminata a giorno. Entrambi avevano una divisa scura, elegante e completa di sorriso di circostanza.

«Buon pomeriggio, dottoressa» fece una voce maschile quando la Common entrò nella saletta già piena. «Che piacere rivederla!»

«Il piacere è mio, buon pomeriggio a tutti» rispose lei, mentre prendeva posto al grande tavolo tondo al centro della stanza. «Possiamo cominciare?»

«Se siete tutti d'accordo, dichiaro ufficialmente aperta la seduta» disse l'uomo che l'aveva salutata. Era Mock, un presentatore televisivo sulla sessantina che la Common aveva sempre ammirato. Era un onore poter sedere al tavolo di una riunione con lui.

Gli altri undici presenti assentirono e il presentatore si schiarì la voce. «Bene» esordì con una calma innaturale, «ho ritenuto necessario incontrarci per discutere delle prospettive della società paziente nei prossimi mesi. Vedervi tutti qui mi fa pensare che nessuno di voi abbia ricevuto una scatola di pillole... nuova, diciamo pure così.»

La Common fece ondeggiare la testa su cui spiccavano i boccoli giallo canarino, ultima novità del suo look. «Per quanto mi riguarda, mi sono assicurata che le mie riserve di pillole per i prossimi mesi provengano dai vecchi lotti. Spero che voi tutti abbiate avuto la stessa premura.»

«Oh sì, sì» disse qualcuno. «Certo.» «Ci mancherebbe altro!»

Non era cattiveria né presunzione. I Pazienti erano tutti uguali. Ma si poteva fare un'eccezione, si poteva avere un occhio di riguardo per i membri dell'Assemblea Purissima: tutta gente di un certo livello, delle vere icone di prestigio. Nessun Paziente avrebbe avuto qualcosa in contrario, questo era sicuro.

«Bene» proseguì Mock. «Il dottor Lenis mi ha confermato dal laboratorio che la situazione è molto grave.»

Lo disse come se stesse parlando di qualcosa di poco conto, del nuovo vestito di sua moglie o della cena che aveva organizzato con i colleghi più stretti per il sabato successivo. Anche le reazioni dei presenti furono quelle che ci si sarebbe aspettati davanti a un discorso banale, uno di quelli intavolati solo per intrattenere i commensali a pranzo in attesa che l'arrosto finisse di cuocersi.

Il dottor Lenis, presente anche lui alla riunione, sporse avanti il busto. «Le analisi parlano chiaro: la composizione chimica della pillola è mutata.»

«Spontaneamente» aggiunse Mock.

«Non può esser stata colpa nostra» fece il dottor Lenis.

«Infatti non lo è» concordò l'avvocato Peer. «Non possiamo aver sbagliato.»

«Tutti noi abbiamo agito in maniera corretta e irreprensibile» riprese Mock. «Infatti, i Pazienti sono decuplicati nel corso dell'ultimo anno. Non è forse un ottimo risultato, questo?»

L'Assemblea Purissima assentì all'unisono, fiera. Si doveva solo ai provvedimenti degli ultimi mesi, infatti, quell'aumento esponenziale di persone che avevano scelto la via della felicità senza mai voltarsi indietro. Eppure, ora voltarsi indietro era diventato inevitabile.

«Cosa intendete quando dite che la situazione è grave?» domandò l'avvocato Peer.

«Intendiamo che non sarà possibile un ritorno alla normalità, almeno in tempi brevi» fece Mock.

«E perché mai?» intervenne la Common.

Il dottor Lenis si sporse di nuovo in avanti. Doveva essere il suo modo di prendere la parola. «Sapete che negli ultimi mesi il governo ha approvato il programma della Commissione scientifica...»

«Certo, quello sulle radiazioni» lo interruppe la Common. «Qualsiasi Paziente che abbia un minimo di importanza sociopolitica ne è al corrente.»

«Esatto. Ecco, come quindi saprete, nelle aree abitate sono state generate o intensificate delle radiazioni per sensibilizzare la popolazione insana all'uso della pillola. Purtroppo, quelle stesse radiazioni hanno causato un effetto del tutto imprevisto nella composizione chimica della pillola. Gli elementi 127, 128 e 129 di norma potrebbero reagire soltanto tra loro: le radiazioni, invece, hanno provocato reazioni a catena con alcuni degli altri elementi che compongono la pillola. Il risultato è quello che è stato somministrato nelle ultime settimane nei Centri Specializzati: delle pillole contraffatte dalle proprietà alterate, che non rispondono più agli standard che noi conosciamo bene.»

«A quanto pare, non è possibile curare i Pazienti che hanno ingerito queste pillole» concluse Mock. «L'unica cura valida potrebbe essere proprio la pillola, ma sono troppi i Pazienti malati e troppo poche le pillole originali rimaste. Ci vorrà almeno un mese prima che si riesca a produrne altre.»

«Siamo in un circolo vizioso, dunque» disse l'attrice Sand.

L'avvocato Peer incrociò le dita e si posò le mani in grembo. «Dobbiamo stilare un piano d'azione, direi.»

Nonostante la situazione fosse critica, nessuno di loro appariva turbato. Pareva quasi che stessero giocando a uno strano gioco da tavolo che avesse in palio solo pochi spiccioli e non le sorti del mondo.

«Il programma radiazioni è stato disattivato» fece il dottor Lenis. «Ora dobbiamo attendere di avere nuovamente a disposizione le pillole originali.»

«E nel frattempo?»

«Nel frattempo continueranno ad aumentare i Pazienti malati, ma basterà tenerli a bada fino a che potranno essere curati. In fondo è un sacrificio che qualsiasi Paziente sarebbe fiero di compiere per il bene superiore.»

Nessuno ebbe da ridire, perché era tutto vero. Così come per l'Assemblea Purissima era un onore difendere i diritti dei Pazienti, un Paziente che si rispettasse avrebbe dovuto tener duro e affrontare quella strana e inaspettata minaccia.

«Cosa accade a un Paziente malato?» domandò la popstar Guise, la più giovane del gruppo.

Lo scrittore Rebo, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, non riuscì a trattenere una risatina. «"Paziente malato" è un magnifico ossimoro» spiegò, e anche gli altri sorrisero.

«Gli effetti sono più o meno gli stessi per tutti: malori, convulsioni, crisi epilettiche, tachicardia, pensieri negativi e pazzia generale» rispose il dottor Lenis. «Qualcuno ha ricominciato persino a sognare durante la notte, pensate che assurdità!»

L'Assemblea Purissima si esibì in un verso di disgusto perfettamente sincronizzato, come se i suoi membri l'avessero provato decine di volte.

«Il problema è che molti Pazienti malati, alla prima comparsa di queste reazioni, dimenticano di prendere la pillola del giorno seguente e la situazione peggiora in maniera drastica, arrivando spesso al suicidio» precisò Mock.

«Certo che sono proprio sfigati!» esclamò la popstar Guise.

I membri dell'Assemblea Purissima discussero dell'argomento per una buona mezz'ora. Si esprimevano a turno, senza alzare la voce, senza parlarsi addosso: sembrava quasi che recitassero un copione. Vennero stabilite le azioni da portare avanti per non allarmare l'opinione pubblica, venne deciso che non sarebbe stato saggio divulgare la verità, o la pillola avrebbe perso la sua credibilità. Sarebbe stato meglio attendere che le pillole originali tornassero sul mercato. In fondo, cosa potevano fare loro per aiutare i Pazienti malati? Angosciarli inutilmente non sarebbe servito a niente.

«In ogni caso, noi abbiamo la coscienza pulita» ribadì l'avvocato Peer. «Noi non possiamo avere colpe. La colpa è sempre degli Insani: se non fossero stati così attaccati alla loro stupida ostinazione, non sarebbe stato necessario ricorrere alle radiazioni e la pillola ora funzionerebbe come sempre!»

L'Assemblea Purissima si lasciò andare a un applauso liberatorio; tuttavia le mani dei suoi tredici componenti battevano forte non soltanto per omaggiare quella sentenza che esonerava il mondo paziente da ogni responsabilità, ma anche per coprire il rumore dell'ansia sopita che, nascosta dietro alla spensierata felicità, alla superbia e alla pace in cui loro avevano scelto di vivere, sembrava essere sul punto di risvegliarsi.

Nessuno dei Pazienti che quel giorno sedeva comodo nel Palazzo dei Congressi avrebbe saputo dare un nome a quella sensazione perché da tempo vi aveva rinunciato, ma in fondo ciascuno di loro aveva temuto, anche solo per un istante, di poter essere la prossima vittima di una pillola contraffatta. Fuori erano donne e uomini bellissimi, sani e felici, ma dentro, per la prima volta nella storia, la loro serenità si era inquinata.

C'era la rabbia, annidata nelle loro viscere, per quella sorte ingiusta. Ma i Pazienti non la conoscevano o non la ricordavano: era una rabbia impalpabile, senza corpo e senza identità. Una rabbia che gli moriva dentro, perché la pillola assorbiva ogni negatività. E c'era la paura: quella paura da cui erano fuggiti, una paura atavica della morte e prima di tutto della vita, che tornava ora a riprendersi il suo posto.

Prima ancora che il campanello finisse di suonare, Neil aveva già capito chi c'era ad attendere fuori dalla porta. Solo lui premeva il pulsante con quella foga, come se avesse voluto recuperare tutti gli anni in cui non aveva fatto visita a nessuno.

«Ciao, Adam» lo salutò facendo capolino fuori.

Adam esibì un sorrisetto. «Buongiorno, Neil. Posso entrare? Ho portato questi per Arun.» Aveva ancora addosso la divisa da netturbino e tra le braccia reggeva una scatola mezza sfondata in cui si intravedevano dei libri.

«Ma certo, vieni! Aspetta, ti aiuto.»

In salotto, Arun sedeva sulla solita sedia con la solita tazza stretta in mano. «Guarda un po' chi si vede!» gracchiò quando Adam sbucò nella stanza. «Vuoi un po' di tè? L'ho appena fatto.»

«No, grazie, vado di fretta. Ti ho portato dei libri: li ho trovati mentre lavoravo, qualcuno li ha gettati via.»

«Avete detto "libri"?» fece Morgane, entrando in salotto con un asciugamano arrotolato sulla testa.

Arun le sorrise. «Perché non guardi tu stessa se c'è qualcosa di interessante?»

Alla ragazza brillavano gli occhi, mentre raggiungeva la scatola che Neil e Adam avevano posato a terra e vi rovistava dentro.

«Statemi bene, ragazzi» si congedò Adam.

«Vai già via?» gli chiese Neil.

Lui aprì le braccia. «Ho due pesti che mi aspettano. Ci vediamo sabato!»

Quando Adam fu uscito, Neil raggiunse Morgane e la guardò analizzare i libri per qualche istante, prima di chinarsi accanto a lei e aiutarla. Gli piaceva da morire quando era così assorta da dimenticarsi del mondo esterno. L'asciugamano che aveva in testa le scivolò su un lato e lei sbuffò per quella insopportabile distrazione, prima di risistemarselo. Neil sapeva bene che non avrebbe perso tempo ad asciugarsi i capelli prima di aver esaminato ogni singolo volume in quella scatola.

Era passato quasi un anno dal giorno in cui l'aveva conosciuta e, idiota com'era, l'aveva detestata. Quasi un anno prima erano saliti entrambi sul Ponte di Nessuno, in quello stesso salotto, clandestinamente e con la paura che il mondo finisse di crollare, e tra meno di una settimana sarebbero scesi, di nuovo coi piedi a terra, a respirare quiete. La riunione di sabato sarebbe stata l'ultima: non c'era più bisogno, ormai, di nascondersi.

«Trovato qualcosa?»

Morgane alzò a stento lo sguardo dai libri. «Credo di sì. Sono vecchi, ma in buone condizioni. Ma come hanno potuto buttarli nella spazzatura? Certa gente i libri non se li merita!»

«Beh, tanto meglio: più libri per noi» le sorrise Neil.

«Guarda che mica possiamo portarceli tutti!»

«Ma va! Li lasceremo qui, vuoi che non siano al sicuro?»

Morgane si rialzò con quell'eleganza che non abbandonava mai, neanche quando indossava tute slargate e turbanti di asciugamani. «Ma certo, mi fido di Arun, specie quando si tratta di libri. Però separarsene è sempre un trauma, per me.»

Lo disse mentre abbracciava un paio di volumi, quelli che doveva aver trovato più interessanti, e Neil pensò che aveva una ragazza fantastica. Si alzò a sua volta e la strinse forte.

«Sai una cosa?» le disse. «Non vedo l'ora di partire.»

«Nessun ripensamento?» sorrise lei.

«No. Mi dispiace solo un po' per Arun, non vorrei che si sentisse solo.»

L'ultima frase Neil la sussurrò per non farsi sentire dal vecchio. Quando aveva saputo del loro progetto, ne era stato felice: «Partite prima possibile e non vi azzardate a stare in pena per me» aveva detto, ma Neil in fondo sapeva che nel momento in cui quella casa sarebbe tornata a essere vuota, Arun ne avrebbe sofferto.

«Mio zio verrà a trovarlo spesso, e così anche gli altri. Vedrai che non lo lasceranno da solo neanche per mezza giornata!» lo rassicurò Morgane.

In effetti, negli ultimi mesi il campanello di Arun suonava almeno due volte al giorno. Chi passava per un saluto, chi per chiedere in prestito un libro, chi per bere una tazza di tè condita con quattro chiacchiere tra amici: quella casa era diventata una sorta di quartier generale e sembravano lontani i tempi in cui le uniche visite che il vecchio riceveva erano quelle della polizia.

«Ma sì, hai ragione. Starà bene.»

La polizia, anzi, non si vedeva da un bel po'. Sbirri, infermieri, assistenti sanitari parevano aver perso tutto il loro interesse per il pazzo che viveva nel bosco. Neil non ricordava di preciso quando fosse successo: semplicemente, a un certo punto la situazione per i Pazienti era diventata così grave che l'ultimo dei loro pensieri era prendersela con un povero vecchio indifeso – anche perché, in tutti quei mesi di resistenza insana, nessuno era riuscito a ottenere uno straccio di prova che Arun fosse coinvolto in qualcosa di losco.

Morgane si avviò verso il bagno per asciugarsi i capelli e Neil puntò la finestra del salotto, scostò le tendine e spiò nel buio acerbo di quel pomeriggio di febbraio. Era bello poter guardare fuori senza l'ansia di veder comparire una volante della polizia o un'auto bianca di un ispettore sanitario. Era così liberatorio!

Quando le prime pillole fallate erano comparse sul mercato, la società si era congelata: più i Pazienti impazzivano, più le strade si svuotavano, i negozi chiudevano, le istituzioni fallivano. E man mano che ciò avveniva, gli Insani si riprendevano il loro posto nel mondo: quel posto da cui erano stati cacciati via come mosche da una tavola imbandita, ma che gli apparteneva e li aveva aspettati così a lungo. Gli ospedali avevano riaperto, i medici insani erano tornati a indossare i loro camici e avevano accolto tra quelle mura le vittime delle pillole fallate, insegnando loro a familiarizzare con quel dolore dimenticato. Gli uffici avevano trovato nuovi dirigenti, le scuole nuovi insegnanti, le città nuovi commercianti e così via. Le macchine degli Insani, rimaste chiuse nei garage o parcheggiate per mesi sotto il sole, erano tornate a guizzare per le strade prima ancora che la revoca delle patenti venisse ritirata, spinte dalle Resistenze che nel frattempo si erano moltiplicate: lo stesso Ponte di Nessuno contava ormai quasi cinquanta membri.

La follia si era imposta sui Pazienti senza che questi potessero rendersene conto: non una sola parola era stata detta sull'argomento, non una sola notizia era trapelata dalle fonti ufficiali. Anzi, i telegiornali avevano continuato a sostenere la tesi che i pazzi erano Insani che credevano di essere Pazienti e che non c'era nulla da temere, almeno finché una gran parte dei conduttori, dei giornalisti e dei tecnici si era ammalata e le reti televisive erano tornate, anche se solo in parte, tra le mani degli Insani. Solo allora la verità aveva iniziato a circolare e i Pazienti malati, abbandonati a se stessi, avevano dovuto farci i conti.

«Le pillole sono sicure!» continuavano a vociare i Pazienti rimasti in tv. «È assurdo anche solo pensare che ci sia qualcosa di sbagliato. Preoccuparsi non ha alcun senso» recitavano melliflui; qualcuno era arrivato addirittura a ingoiare la pillola in diretta, come dimostrazione della sua efficacia, ma ormai la crepa si era allargata e sarebbe stato impossibile, per i Pazienti, tenere ancora insieme i cocci di quella società.

Un paio di mesi dopo la sua partenza, Viktor era tornato. Durante la sua assenza era riuscito a contattare le persone giuste e a portare avanti qualche piccolo esperimento che aveva confermato la sua ipotesi: le pillole fallate erano il risultato di un'imprevista reazione di delerio, subdio e canonio alle radiazioni.

«I Pazienti, in sostanza, si sono messi nel sacco da soli» aveva sorriso.

«Prima o poi il mondo si riprende il suo equilibrio» aveva commentato Arun. «Non si può forzare troppo a lungo la natura delle cose.»

Viktor era ripartito quasi subito, ma aveva presto preso l'abitudine di farsi rivedere ogni due o tre settimane. Ogni volta che tornava a far loro visita, portava con sé un paio di Pazienti malati che non volevano più saperne della pillola e li affidava alle cure del Ponte di Nessuno, che in quei mesi aveva svolto un'incessante attività di divulgazione e sostegno.

Non c'era voluto molto, in realtà, perché la pillola originale tornasse sul mercato. L'errore era stato corretto in poche settimane e i Pazienti malati avevano potuto curarsi e dimenticare quella piccola parentesi di terrore. Solo che molti di loro, nel frattempo, si erano resi conto che la vita lontana dalla pillola non era ripugnante come credevano: anzi, quel perpetuo torpore in cui la loro condizione di Pazienti li aveva intrappolati gli aveva fatto dimenticare che il bello esisteva proprio perché connesso al brutto, che ne era al tempo stesso l'assenza e l'essenza. La felicità esisteva perché esisteva il dolore, il successo esisteva perché esisteva il fallimento, e ciò che rendeva quel mondo così vero e interessante era proprio quel contrasto inscindibile tra l'una e l'altra cosa.

Davanti a quella riscoperta, la pillola ormai non appariva più una fonte di salvezza, ma di cecità. Erano tanti, dunque, i Pazienti malati che avevano deciso di mantenere gli occhi aperti, ora che avevano imparato di nuovo a guardare.

Al tempo stesso, per altri quel contrasto faceva troppo male e non valeva la pena dovercisi scontrare ogni giorno per vivere. In questi casi, la pillola restava l'unica soluzione valida per arrivare alla vecchiaia.

Anche Anandria, come tutti, si era ammalata. Neil e Adam, dimentichi della loro ultima discussione, avevano fatto squadra per assicurarsi, senza che lei lo sapesse, che le venissero riservate le cure migliori. Quando le pillole originali erano tornate disponibili e lei aveva deciso di riprendere la terapia, avevano accettato la sua scelta senza interferire. Qualche giorno dopo, Adam si era presentato alla porta di Arun e aveva chiesto di poter salire sul Ponte di Nessuno.

Il gattone grigio comparve nel suo campo visivo e Neil si riscosse. Lo guardò avvicinarsi e spuntare sul davanzale, aprì le imposte e lasciò che saltasse sul pavimento con un trillo affettuoso. Si chinò per accarezzarlo, ma i suoi occhi restarono puntati oltre i vetri della finestra.

«Ti vedo pensieroso» disse la voce cavernosa di Arun alle sue spalle.

Pensieroso, era questo l'aggettivo che più gli si addiceva. Qualsiasi cosa fosse accaduta al mondo, Neil non avrebbe mai smesso di pensare. Però adesso non era come prima: il suo pensare era cambiato con lui. Se un tempo la sua mente era stata occupata da una massa opprimente di negatività, di preoccupazioni, di angoscia per il futuro, ora quella massa si era fatta molto più leggera e per il futuro c'era solo curiosità.

«Sì, sono pensieroso, ma in senso positivo» disse al vecchio, raddrizzando la schiena.

Arun lo raggiunse alla finestra, la solita sigaretta tra le dita. «Ti ricordi quando mi hai incontrato per la prima volta?»

«Certo che mi ricordo!» sorrise Neil. «Mi avevi messo una paura enorme.»

Il vecchio ridacchiò tra un colpetto di tosse e l'altro. «Faccio ancora paura! Però, insomma, non è questo il punto.»

«Cioè?»

«Ecco, quel giorno io ho conosciuto un ragazzo. Oggi, davanti a me, c'è un uomo.»

Neil si irrigidì. Non si aspettava quel discorso. Negli occhietti acquosi di Arun c'era qualcosa che assomigliava a un sincero orgoglio.

«Arun, io...»

«È così, e lo sai anche tu. Anzi, è così proprio perché lo sai anche tu.»

Neil provò a rispondere, ma non aveva idea di cosa dire. Si limitò a sorridere: la convivenza con Arun gli aveva insegnato che spesso non c'era alcun bisogno di riempire i silenzi. Doveva tanto a quel vecchio: chissà come sarebbe stata la sua vita se quel giorno non si fosse fermato a parlare con lui o se si fosse rifiutato di lavorare in quella casa. Se non avesse mai letto uno dei suoi libri, se fosse rimasto a vivere in città, preda delle radiazioni, della solitudine, delle ostilità.

«Ricorda sempre, Neil, qualsiasi cosa succederà, ricordati sempre da dove sei partito. Non dimenticare la strada che hai fatto, rispetta i tuoi successi ma ancora di più rispetta i tuoi fallimenti. Sono sicuro che andrete lontano, tu e Morgane: le vostre forze si completano.»

Arun tirò una boccata di fumo che soffiò fuori dalla finestra. Tossì, come di consueto, e si strinse addosso la vestaglia verde. Quando Neil incontrò di nuovo il suo sguardo, si accorse che ciò che aveva scambiato per orgoglio era in realtà molto di più. Era uno sguardo alla pari, e forse per la prima volta si sentì davvero adulto.

In effetti, se Arun aveva fatto tanto per lui, anche Neil era stato importante per il vecchio. La verità era che s'erano aiutati a vicenda a non naufragare: Arun nella pazzia, Neil nello sconforto.

«Se andremo lontano, sarà perché tu sei stato la guida migliore che io potessi incontrare» gli disse quando Arun finì di tossire.

Lui tacque per un po'. Spense la sigaretta nel posacenere, ciabattò fino alla sua poltrona e si sedette, nascondendosi la faccia con una mano.

«Ora che mi hai detto questa cosa, potrò morire in pace» mormorò, la voce appena incrinata.

Morgane ricomparve in salotto qualche istante dopo, i capelli asciutti che le danzavano sulle spalle. «Ti va di leggere qualcosa insieme?» gli chiese e Neil la seguì sulla scala a chiocciola, anche lui con una mano sul viso.

Restarono in mansarda a sfogliare pagine fino a sera, un passatempo che non li stancava mai. Poi Morgane, prima di tornare di sotto per la cena, gli afferrò le spalle.

«Sei pronto?» domandò. «Possiamo aspettare ancora un po', se vuoi.»

Neil le sorrise, fermo. «Adesso sono pronto.»

«Quindi lo stiamo facendo davvero? Partiamo sul serio?»

«Domenica prossima, a quest'ora, saremo già lontano.»

Lei era raggiante. Gli stampò un bacio su una guancia. «Sai qual è la cosa più importante?»

«No, qual è?»

«Ovunque andremo, avremo sempre un posto in cui tornare: un posto in cui ci siamo sentiti a casa, un posto che sa di famiglia.»

Neil la strinse forte e si lasciò scappare un paio di lacrime. Se in passato qualcuno gli avesse detto che un giorno avrebbe pianto al pensiero di lasciare la casa di Arun, non gli avrebbe mai creduto. Ma c'era un mondo da scoprire, là fuori, un'avventura che lo aspettava, ed era giunto il momento di rispondere a quella chiamata. Ci sarebbe stata Morgane, accanto a lui, e Neil sapeva che non avrebbe potuto avere una compagnia migliore. D'altronde, lui era adulto da pochi minuti, lei forse da tutta una vita.

All'inizio di gennaio, Viktor era venuto a trovarli a bordo di un vecchissimo camper. Il camper che era appartenuto a sua madre. Il camper che Morgane aveva sempre sognato di guidare. L'aveva preso per lei: «Non chiedermi come ho fatto ad accaparrarmelo» le aveva detto davanti alla sua espressione sconvolta, e Morgane era rimasta in silenzio, gli occhi spalancati e le mani poggiate sulla carrozzeria color crema, come se temesse di vederlo sparire da un momento all'altro. Non era abituata a ricevere dei regali, specie così importanti.

Da allora, il loro progetto aveva cominciato a delinearsi: partire senza sapere dove andare né quando tornare, lasciandosi guidare dal cuore. Sentirsi liberi in tutto e per tutto. Andare ad ammirare le bellezze del mondo e, conoscendo meglio il mondo, conoscere un po' meglio anche se stessi. Solo qualche mese prima sarebbe stato impensabile, per due Insani, ma ora non v'era più motivo di aspettare: se erano stati pronti a morire, ora dovevano essere pronti a vivere.

Quella sera il pane di Arun aveva il sapore di quelle cose che non sappiamo di amare finché non dobbiamo privarcene. Neil ne assaporò ogni briciola, mangiò con gusto e alzò il bicchiere quando il vecchio li invitò con un cenno a brindare. Anche il gatto saltò su una sedia vuota e puntò le zampe sul bordo del tavolo, come se volesse partecipare al brindisi.

«Al vostro viaggio» disse Arun, poi le mani si accostarono e il vetro tintinnò. La manica sinistra di Morgane scivolò verso il gomito, mettendole a nudo il polso fasciato da un braccialetto di perline rosse. Il braccialetto di Iris, che le stava così bene.

«Ciò che riesci a lasciar andare torna sotto una nuova forma» gli aveva detto una volta sua madre, tanti anni prima, e mai come in quel momento Neil si rese conto di quanto avesse ragione. Quella sera, circondato da quella strana famiglia, seppe che non sarebbe mai stato solo.

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