9. Lavori in corso
Aveva deciso di cominciare dal salotto.
Era la stanza più semplice: ammucchiati tra quelle mura c'erano soltanto rifiuti. Persino i due grossi e pesanti divani sembravano irrecuperabili, pieni di polvere e con le molle saltate fuori.
Per entrare nel salotto di Arun alle otto, ogni mattina Neil si svegliava alle sei, usciva di casa un quarto d'ora dopo, prendeva due autobus e procedeva a piedi nell'ultimo tratto. Non aveva la patente, né tantomeno lui e sua madre potevano permettersi una macchina. Arun gli aveva affidato subito una copia delle chiavi, perché alle otto non c'era quasi mai: usciva prestissimo, per andare chissà dove, e si faceva vedere solo in serata, quando Neil era in procinto di andarsene.
Neil tornava a casa verso le sette e mezza, mezz'ora prima della madre, e riusciva persino a farsi la doccia e a preparare la cena per entrambi. Leda, per ricambiare, lavava i piatti e si occupava dei panini per il pranzo del giorno successivo.
Arun, almeno per il momento, non aveva manifestato atteggiamenti pericolosi o allarmanti; anzi, era stato gentile e premuroso con Neil. Gli aveva dato carta bianca, e al suo ritorno si complimentava con lui per l'andamento dei lavori, anche nelle giornate in cui Neil riusciva a combinare meno del previsto.
Dopo una settimana, Arun aveva tirato fuori da qualche parte una bicicletta, mezza arrugginita ma funzionante, e l'aveva offerta a Neil. Lui aveva accettato, felice: evitando di fare a piedi il percorso che separava la villa diroccata dalla fermata più vicina, avrebbe recuperato più di quaranta minuti al giorno.
Il lavoro era lungo e spossante, e i primi giorni erano stati i più difficili: Neil ce la metteva tutta, ma i risultati tardavano ad arrivare. I mobili e alcuni dei rifiuti erano troppo pesanti da trasportare, e lui si scoraggiava in continuazione. Aveva paura che anche quella volta i suoi limiti fisici gli avrebbero dato problemi, aveva paura che un giorno il vecchio tornasse a casa accompagnato da qualcuno migliore di lui e che gli dicesse di farsi da parte, di lasciare spazio a chi meritava davvero di lavorare. Ma Arun era un Insano, forse il primo degli Insani: mai l'avrebbe deriso, mai l'avrebbe giudicato. Erano alla pari.
Dopo dieci giorni di lavoro, il salotto era quasi pronto. Neil era riuscito a liberarlo dagli oggetti inutilizzabili, trascinando quelli troppo pesanti per lui e facendoli scivolare sul pavimento con l'aiuto di vecchie coperte. L'organizzazione che gestiva i servizi relativi ai rifiuti apparteneva a dei ricchi Pazienti, ma coloro che ci lavoravano, naturalmente, erano Insani; era stato facile trattare con loro, e Neil era riuscito a ottenere l'aiuto di un paio di netturbini che si erano avventurati nella proprietà di Arun per caricare sul loro furgone tutto ciò che andava portato in discarica.
Il vecchio aveva pagato loro il disturbo e i netturbini, felici, s'erano detti disponibili a tornare, quando ce ne sarebbe stato bisogno. Erano due uomini rozzi ma simpatici, che non avrebbero potuto essere più diversi tra loro: uno era altissimo, grosso e muscoloso, con una barba nerissima e l'espressione accigliata, mentre l'altro era basso e minuto, con pochi capelli di un biondo chiaro e un sorriso ebete costantemente stampato sul volto.
Le pulizie, una volta che la stanza era libera, si erano dimostrate quasi più difficili dello sgombero. Ma poi, tolta la fitta coltre di ragnatele e la polvere che regnava ovunque, puliti i vetri delle finestre e lavato più volte a terra, Neil impiegò poco tempo a ridipingere le pareti e a sistemare le assi del pavimento.
Dopo il salotto, toccò alla camera da letto. Era così polverosa che Neil dovette lavorare con la bocca e il naso coperti, per evitare di starnutire ogni due minuti; ma una volta che ebbe stuccato i muri e lasciato arieggiare l'ambiente per due giorni consecutivi, il problema sembrò risolversi. Tende, coperte e cuscini vennero portati in lavanderia senza esitazione, gli armadi vennero sgombrati dagli strati di polvere e le pareti ridipinte di un rosso leggermente più scuro, che Arun trovò adorabile.
Quando Neil, che cominciava a prendersi un minimo di confidenza, gli propose di comprare nuove lenzuola per sostituire quelle vecchie, Arun rifiutò categorico, piagnucolando che era troppo affezionato alle sue cose. Neil, stranito, decise che d'ora in avanti si sarebbe fatto gli affari suoi. Diede gli ultimi ritocchi alla stanza, cambiò le viti arrugginite degli armadi e montò una maniglia sulla porta.
Sistemare il bagno fu più facile del previsto: a Neil bastò stringere alcuni bulloni per limitare le perdite d'acqua. I sanitari erano vecchi e rovinati, certo, ma una pulizia accurata e una faticosa rimozione del calcare diede loro nuovo vigore. La stanza era umida, e Neil sperò che la mano di antimuffa che aveva steso sulle pareti prima di ridipingere bastasse a contenere i danni. Una passata d'olio sui cardini risolse il cigolio della porta e con ingenti quantità di sapone e olio di gomito le piastrelle tornarono quasi a splendere. Arun insistette perché le piante rimanessero nella vasca, e Neil, come si era ripromesso, non disse altro.
Era passato quasi un mese da quando erano iniziati i lavori. Neil non si aspettava di impiegare tutto quel tempo, ma le cose da fare erano troppe e lui era da solo. Poco male: avrebbe guadagnato più del previsto.
«Quattrocento bigliettoni?!» aveva esclamato Anandria quando Neil gli aveva mostrato la sua paga settimanale. «Io li guadagno in venti giorni!»
«Te l'avevo detto che Arun non era poi così male!»
Il vecchio lo pagava regolarmente. Pareva avesse davvero soldi da gettare, oltre a tutti quei rifiuti. Spesso, per di più, gli regalava gli oggetti che Neil adocchiava in giro per casa. In quel mese di permanenza tra quelle mura, il ragazzo era riuscito a racimolare un discreto bottino: un vecchio orcio di coccio, un antico fascicolo di ricette a base di pesce che valeva una fortuna e che si era subito rivenduto, e un ditale d'argento di cui sua madre si era innamorata.
Leda amava cucire, lo faceva nei rari ritagli di tempo libero che il lavoro ogni tanto le concedeva. Arun aveva insistito perché Neil si portasse via l'antica macchina da cucire appartenuta a qualche suo avo indefinito, accatastata tra la polvere in mezzo a materassi flosci, tavole di legno e pile di vecchi giornali; lui, tuttavia, non aveva idea di come fare per trasportarla, pertanto ringraziò di cuore il vecchio e rifiutò la gentile offerta, promettendogli che un giorno avrebbe portato sua madre con sé per farle ammirare quel pregiato cimelio.
Prima di mettere mano all'ingresso, Neil si concesse una pausa di un giorno. Lo chiese ad Arun, precisando che l'indomani sarebbe stato il suo compleanno, e lui acconsentì felice. Gli fece persino un regalo: un pacchettino incartato malamente in diversi strati di carta velina gialla.
«Che bello, fantastico!» esclamò felice, mentre glielo porgeva con una delicatezza inaspettata. «Non devi aprirlo ora, assolutamente! Fallo domani, è domani che compi gli anni, domani è un giorno speciale! È il tuo giorno!»
Poi rientrò in casa canticchiando come al solito, e facendo capolino dalla porta d'ingresso salutò Neil col suo sogghigno più largo e inquietante. Il ragazzo sorrise a sua volta, sperando di apparire meno spaventoso, afferrò al volo la bici e prese a pedalare verso la fermata dell'autobus, infilandosi nella solita stradina sterrata.
Il pacchetto che Arun gli aveva dato gli pesava in tasca. Neil fu tentato di aprirlo, ma si impose di resistere. Avrebbe dato retta a quel vecchio strampalato.
Durante il tragitto verso casa, fece un po' di calcoli. C'era ancora molto da fare a casa di Arun, ma ormai il grosso era andato: gli oggetti più ingombranti erano stati già presi dai netturbini, che erano dovuti tornare altre due volte. L'indomani Neil si sarebbe goduto un po' di meritato riposo e poi sarebbe tornato subito al lavoro, per non perdere giornate preziose. L'autunno era alle porte e le giornate cominciavano ad accorciarsi con un ritmo precipitoso: un'ora in più di luce era una delle risorse migliori che Neil aveva a disposizione.
L'ingresso sarebbe stato semplice da sistemare: Arun voleva che restasse quasi uguale a com'era già, coi suoi lampadari tutti diversi, il grosso vaso giallo e blu e l'appendiabiti che aveva terrorizzato Neil la prima volta. L'armadio era già stato portato via dai netturbini, mentre le carte ammuffite che lo avevano occupato giacevano sparse sul pavimento.
Per rispetto e discrezione, Neil aveva preferito non esaminarle. Non sapeva cosa fossero quei documenti né aveva intenzione di scoprirlo: erano affari di Arun. Non sapendo cosa farne, aveva chiesto istruzioni al vecchio, che gli aveva promesso di occuparsene di persona.
Qualche giorno prima, il grosso gatto grigio era tornato a farsi vedere. Doveva essersi intrufolato in casa dalla finestra del salotto, e Neil l'aveva visto aggirarsi per le stanze con aria smarrita. Aveva provato a farlo uscire in tutti i modi possibili, ma il gatto non aveva voluto saperne: dopo aver gettato qua e là qualche sguardo giallo e indifferente, si era acciambellato sui fogli sparsi a terra nell'ingresso ed era rimasto a osservare le mosse di Neil con gli occhietti socchiusi.
Quando Arun era tornato, si era messo a ridere alla vista del gatto. «Eccoti qua!» gli aveva detto.
«Non sono riuscito a mandarlo via» lo aveva informato Neil.
«È perché comincia a far freddo! D'estate se ne sta fuori, e d'inverno mi fa compagnia in casa. Non è mica stupido» aveva spiegato Arun, mentre il gatto faceva le fusa rotolandosi tra i fogli. Poi, a un tratto, l'animale era scattato sulle zampe ed era corso via, sulla scala a chiocciola, fino a scomparire al piano di sopra con un guizzo della grossa coda pelosa. Neil l'aveva seguito con lo sguardo.
Chissà quanto ci sarebbe voluto per cominciare a lavorare alla mansarda. Quell'ambiente era un vero e proprio richiamo per lui, ma Neil si era ripromesso di completare il pianterreno, prima di passare di sopra. Oltre all'ingresso, mancava la stanzetta triangolare, che tra l'altro gli metteva addosso una strana inquietudine. Non sembrava diversa dalle altre camere, ma Neil aveva l'impressione che nascondesse qualche oscuro segreto. Arun gli aveva detto di averla usata come studio, ma la stanza sembrava essere tutto tranne che un posto tranquillo e sereno che stimolasse la concentrazione.
Il rumore di un clacson lo riscosse dai suoi pensieri. Neil sobbalzò, rischiando di cadere dalla bici. Era arrivato. Con una catena, infilata in un tubo di plastica giallo, assicurò la bicicletta arrugginita al palo di un lampione, che gettava una luce fioca sulla strada. Si strinse nella felpa, sistemò le cinghie dello zaino, attraversò la minuscola piazzetta e si sedette sulla panchina storta della fermata dell'autobus, aspettando come al solito insieme a una decina di Insani di ritorno dal lavoro.
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