8. Il sopralluogo
La casa era appena visibile nella rete intricata degli alberi che la circondavano. Neil si affrettò a raggiungere il cancelletto arrugginito che giaceva, quasi divelto dai cardini, a una decina di metri dalle mura diroccate. Rabbrividì dal freddo e dall'inquietudine e trasalì quando un grosso gatto grigio gli sbucò davanti all'improvviso, in un silenzio felino. Respirò, cercando di calmarsi; strinse i pugni e coprì in pochi passi la distanza che lo separava dalla casa.
Pazzo, sadico, assassino...
Erano voci, solo voci malfidate. Arun era un vecchietto innocuo e un po' svitato, tutto qua. E abitava in un posto da brividi.
Neil se lo ripeteva nella mente, cercando di convincersene. Non doveva lasciarsi suggestionare; doveva andare oltre. Si piazzò davanti alla porta di legno dipinta di un rosso vivo, si scrollò dagli abiti le foglie secche che aveva collezionato lungo la strada e premette un pulsante nero sulla destra, sotto a una targhetta dello stesso colore su cui era inciso un nome cancellato dal tempo. Presto la faccia rugosa e bitorzoluta di Arun apparve oltre la porta e si aprì in un sorriso sdentato.
«Ah, ragazzo, sei arrivato! Entra, entra pure!»
Il vecchio si fece da parte e invitò Neil in casa con un cenno della mano.
«Permesso...» mormorò lui, intimidito, mentre si addentrava nel largo atrio su cui sbucava la porta d'ingresso. Era una stanza strana, alta, esagonale: al centro troneggiava una scala a chiocciola che spariva oltre il soffitto e sulle pareti erano disposte quattro porte chiuse, tutte diverse per misura, fattura e colore. Di fronte al portone d'ingresso, due finestre massicce avrebbero dato luce all'ambente, se i loro vetri non fossero stati così sporchi.
Quando Arun premette un interruttore alla sua sinistra, almeno otto lampadine si accesero nell'atrio. Neil contò quattro plafoniere colorate attaccate alle pareti, due lampadari appesi al soffitto e due piccole abat-jour, in bilico su un tavolinetto poggiato di traverso in un angolo.
«Mi piace che certi spazi della casa siano luminosi» si giustificò il vecchio davanti all'espressione attonita di Neil.
Il pavimento a scacchiera era rovinato e coperto da un tappeto di polvere, e sulla sinistra della scala a chiocciola giaceva un grosso armadio sfondato. Una posizione insensata, pensò Neil, ma in effetti nulla sembrava normale lì dentro. Oltre la scala, accanto a una delle due finestre, un grosso vaso di ceramica a strisce gialle e blu sorreggeva una pianta di dimensioni esagerate.
Quando Neil mosse un paio di passi in avanti, con la coda dell'occhio gli parve di vedere una figura scura alle sue spalle, le braccia tese in avanti, pronta a scagliarsi su di lui. Si voltò di scatto, in preda a un terrore incontrollato, e si ritrovò davanti un innocuo appendiabiti di ferro ingrossato da una decina di cappotti fuori moda.
Neil sentì le guance avvampare dall'imbarazzo. Per fortuna Arun, che aveva già varcato la prima porta sulla destra, non l'aveva visto.
«Vieni pure, Neil!» gracchiò il vecchio dalla stanza.
Lui lo raggiunse e si ritrovò in una camera triangolare con un'unica finestra dalle imposte chiuse. Era impossibile distinguere altro, perché lo spazio era ingombro di oggetti accatastati alla rinfusa: materassi flosci, tavole di legno, un comò senza cassetti, bauli grandi e piccoli, una cyclette azzurra e mezza arrugginita. C'era persino un vecchio pneumatico bucato.
«Questa è la camera che usavo come studio» spiegò Arun, trascinando Neil fuori dalla stanza.
La porta successiva aveva due ante e conduceva a un salotto dimenticato. Anche qui, i mucchi di oggetti la facevano da padroni, ma nel caos generale era stato creato una sorta di passaggio che permetteva di raggiungere un cucinino in fondo alla stanza e le due finestre con le imposte saldate dalle ragnatele. Le assi del parquet erano sconnesse: alcune si erano gonfiate, perciò il pavimento era rialzato in più punti, mentre altre semplicemente non c'erano e avevano lasciato il posto a polvere e cemento grigiastro.
Fuori dal salotto, Neil e Arun passarono dietro alla scala a chiocciola. Il vecchio aprì la terza porta, enorme e dipinta di blu, rivelando un bagno con le piastrelle azzurre e i muri macchiati dall'umidità. Una vasca ovale, ingiallita e piena di crepe, collegata a tubi a vista che si arrampicavano fino al soffitto, si ergeva in un angolo rialzato da un gradino, e la metà della sua superficie era occupata da piante rigogliose. I sanitari erano vecchi e sgocciolavano acqua sul pavimento. Quando un terribile odore stagnante gli giunse alle narici, Neil storse il naso e si guardò intorno. Doveva provenire dalla pezza sudicia abbandonata a terra, sotto alla tenda a quadri gialli e azzurri che copriva una finestra lunga e stretta.
Arun saltellò fuori dal bagno e raggiunse l'ultima porta. Anche questa era a due ante, decorate da una lastra di vetro opaco dalle venature rossastre. Il vecchio la aprì con un calcio, in quanto sembrava sprovvista di maniglie.
«E questa è la mia camera!» esclamò, sorridendo in maniera inquietante.
Neil si sporse dalla porta. Un baldacchino sbilenco troneggiava al centro esatto della stanza, sfatto, le coperte appallottolate. I muri erano di un rosso acceso, e parte dell'intonaco in un angolo era crollata e giaceva sul pavimento di legno chiaro, in un letto di polvere. Disposti in maniera asimmetrica, un armadio scuro, uno bianco e un comò di un verde stinto arredavano la camera, insieme alle tende bianche a pois marrone usate sia per celare le finestre, sia come drappi del baldacchino.
Neil tossì per la polvere. Ma come faceva Arun a dormirci, là dentro?
Finito il sopralluogo del piano inferiore, il vecchio lo invitò a salire di sopra. A Neil venne quasi subito un capogiro: detestava le scale a chiocciola, con le loro curve infinite e i gradini triangolari. Temeva sempre di appoggiare male un piede e di ruzzolare giù, spaccandosi almeno un paio di ossa.
Quando la sua testa sbucò oltre il pavimento della mansarda, tuttavia, Neil restò a bocca aperta.
Un unico, immenso ambiente luminoso. Scrivanie polverose ingombre di carte. E libri, tantissimi libri. Alle pareti, quadri, mappe strappate, arazzi logori, tra gli scaffali straripanti di volumi.
Sul pavimento, forse un tempo lucido e splendente, spiccava qualche orma di scarpa. I muri erano dipinti ciascuno di un colore diverso, e questo donava un'insolita vita a quel deposito abbandonato di polvere, disordine e ragnatele.
Spostandosi dalla parte centrale della stanza, dove il soffitto era più alto, Neil era costretto a curvare la schiena. Si fece strada tra l'immancabile caterva di oggetti privi di senso: una culla semisfasciata, vecchie pentole di rame, scarponi sfondati, cavi elettrici, sedie rovesciate. In fondo alla stanza, riuscì a intravedere una larga balconata del tutto invasa dalla vegetazione, una specie di giungla nella quale sembrava impossibile addentrarsi.
Stavolta, Neil quasi non fece caso al caos. Quella soffitta emanava un'aura di fascino inquietante che l'aveva stregato. Si avvicinò agli scaffali con i libri, rapito.
Arun batté le mani, entusiasmato. «Bene, vedo che ti piace!»
Neil si riscosse. «Non avevo mai visto così tanti libri.»
«Ne vado molto orgoglioso. Che io sappia, sono l'unico ad averne di così antichi, da queste parti.»
In silenzio, Neil studiò la biblioteca di Arun per qualche minuto, e lui lo lasciò fare. Le pagine ingiallite che sporgevano dai tomi, le rilegature scollate, i fogli arrotolati e riposti a caso in mezzo ai libri... persino la polvere che ricopriva gli scaffali sembrava densa di segreti.
C'era almeno un volume per ogni disciplina: storia, geografia, letteratura, musica, matematica, fisica, ingegneria, chimica, biologia, psicologia, sociologia... tutte le materie che potevano destare interesse nell'uomo trovavano un piccolo appiglio nei tomi dimenticati di Arun.
«Sono bellissimi» osservò Neil, sincero.
Il vecchio sorrise. «A tempo debito, forse te ne consiglierò qualcuno.»
Quando scesero di nuovo nell'atrio, Neil ascoltò ciò che c'era da fare in quella casa. Arun era stanco di tutto quel disordine, accumulato in tanti, troppi anni di solitudine: la maggior parte degli oggetti accatastati in ogni stanza era da gettare via; il resto andava ripulito e messo in ordine. Bisognava riparare le assi del pavimento, stuccare i buchi nel muro, inchiodare gli stipiti delle porte alle pareti e ridipingere i muri. E fare delle drastiche pulizie, ovviamente.
Oltre alla retribuzione che il vecchio gli avrebbe riconosciuto, Neil avrebbe potuto tenersi qualsiasi cosa che avrebbe trovato interessante, e questo era un grande vantaggio: di oggetti riutilizzabili ce n'erano parecchi, li avrebbe rivenduti.
Naturalmente, i libri erano esclusi da quella gentile concessione. D'altronde erano sempre più rari: ormai erano considerati pezzi d'antiquariato e valevano una fortuna. Sua madre gli diceva spesso che quando era una bambina non era difficile trovare gruppetti di libri nelle case delle persone, e a Neil sembrava quasi assurdo. Ma le cose cambiavano in fretta. E anche in quel caso, c'era di mezzo la pillola.
I Pazienti crescevano a dismisura, e con loro gli interessi degli uomini andavano modificandosi. A loro non occorreva rifugiarsi nei libri, né leggere per soddisfare il desiderio di sapere; desiderio che semplicemente non esisteva. Un Paziente aveva già tutto: non necessitava d'altro che della sua pillola. Tutto quello che bisognava conoscere si poteva leggere sui giornali o ascoltare nei notiziari e nei programmi in tv.
Siccome era la maggioranza a dettar legge, erano gli Insani a doversi adattare. Se i libri non erano più una fonte d'informazione sicura e interessante per la fetta più grande del popolo, anche chi non faceva uso della pillola doveva attenersi a quella convinzione. Per questo, anno dopo anno, miriadi di pagine erano sparite dal mondo, ritirate dalle case degli Insani o gettate via senza pietà dai Pazienti.
Non che i libri fossero vietati. Non in maniera estrinseca, almeno: leggere era considerato qualcosa di sciocco, ignobile, e quei pochi Insani che avevano il coraggio di farlo perdevano ogni traccia di credibilità, in quanto preferivano esternarsi completamente dal mondo piuttosto che affrontarlo.
Prima di visitare la mansarda di Arun, Neil non si era mai imbattuto in niente di più interessante di un libro di storia appartenuto a suo nonno e che sua madre conservava come una reliquia. Avevano pensato spesso di venderlo per racimolare qualche soldo, ma quello era l'unico libro che Leda possedeva: v'era troppo affezionata, le ricordava suo padre. Neil aveva provato a leggerlo, ma non c'era mai riuscito: si distraeva in continuazione. Eppure, davanti ai volumi polverosi di Arun, aveva sentito crescere in sé una curiosità inspiegabile.
«È tutto chiaro, ragazzo?» gli domandò il vecchio quando ebbe finito di esporgli i suoi compiti.
«Chiarissimo.»
«Bene. Vieni pure quando vuoi.»
Neil indugiò un attimo. «Posso cominciare anche domani.»
Arun fischiettò. «Eccellente! Meraviglioso!». Poi lo accompagnò alla porta, intonando una vecchia canzone, e lo salutò con la mano senza smettere di canticchiare.
Prima di andarsene, Neil gettò un ultimo sguardo sulla casa. Crepe sui muri, tegole cadute e scolorite dal sole, pezzi di cornicioni crollati. Se non avesse saputo dell'esistenza di Arun, avrebbe potuto giurare che lì non ci abitasse nessuno da tempo; la vegetazione sembrava essere l'unica forma di vita su quella collina disabitata.
Come per contraddirlo, il grosso gatto che lo aveva colto sovrappensiero al suo arrivo sbucò di nuovo tra le piante e si acciambellò con eleganza poco lontano da Neil. Lo scrutò torvo, poi si stiracchiò allungando le zampe anteriori. E ai piedi di quella catapecchia scassata tra le foglie, Neil sorrise: forse, in realtà, non aveva mai visto niente di più vivo in vita sua.
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