7. Preso dal panico



Il sole era appena sorto, sotto una coltre compatta di nubi grigiastre. La pelle del signor J. rabbrividì a contatto col leggero venticello che gli si insinuava sotto la vestaglia e gli sferzava il viso liscio di rasoio.

L'uomo respirò a pieni polmoni quell'aria mattutina, che gli piaceva tanto. Ma questa volta, tutto era diverso. Per sempre.

Voltò le spalle a quell'alba nuova, chiuse la finestra e tornò in camera. Passò davanti allo specchio dell'antico e pregiato comò, dove un uomo sulla cinquantina gli restituiva lo sguardo.

Il signor J. sorrise con orgoglio: il suo viso era più giovane, gli occhi azzurri e luminosi, i capelli grigi ma folti, che gli davano quell'aria attraente da uomo vissuto. Quella mattina, i suoi lineamenti sembravano scolpiti alla perfezione.

Per la prima volta in vita sua, si trovò bello e affascinante; per la prima volta non pensò di essere troppo vecchio, troppo fiacco o poco muscoloso. Era bello così com'era, e si sentiva leggero. Finalmente, si piaceva.

Era vero ciò che si diceva. La pillola funzionava davvero.

Aveva preso quella decisione soltanto il giorno prima, quando in preda a uno dei suoi soliti attacchi di panico gli era mancato il respiro per così tanto tempo che aveva creduto di morire. Erano anni ormai che soffriva di ansia e depressione, una condizione abbastanza normale per quelli come lui.

Era un artista, ed era stato un Insano per cinquant'anni. Dipingeva quadri, talvolta scriveva versi; ai tempi d'oro aveva pubblicato una raccolta di poesie che aveva riscosso un grande successo di pubblico, e tutti conoscevano almeno una delle sue splendide tele.

Tuttavia, il successo non è eterno. Col passare degli anni e con l'avvento della pillola, il suo pubblico si era ridotto a uno sparuto gruppetto di Insani. Non v'era quasi nessuno, ormai, che apprezzasse le sue opere, e così il signor J. era stato lentamente dimenticato, aveva perso fiducia in se stesso e si era trascurato sempre di più.

La sua vita si era consumata in solitudine, tra una bottiglia di birra ogni tanto e i suoi preziosi pennelli, gli unici che non lo avrebbero mai lasciato solo. E ogni giorno, tra una tela e l'altra, tra le sue rime e le rassicuranti macchie di pittura sulle mani e sui vestiti, gli attacchi di panico lo dilaniavano, facendogli perdere la vista e l'equilibrio per terribili minuti, togliendogli il respiro e il controllo di sé.

Il signor J. si era affidato completamente alla sua arte, per sopravvivere. La pittura era l'unico mezzo che aveva per sfuggire a quel mondo malefico: i pennelli, sporchi e consumati, erano stati le sue ali, le tele vuote nuovi mondi da esplorare.

Poi, la mattina del giorno prima, mentre si vestiva proprio lì, davanti a quello specchio, ogni concretezza aveva improvvisamente perso consistenza e lui era precipitato nella voragine nera e terribile della sua solitudine, divorato da un panico incontrollabile. Aveva spalancato la bocca, avido di aria, ma i suoi polmoni erano sigillati e il mostro dell'ansia gli stringeva le sue mani putride sulla gola. E l'oscurità era scesa su di lui, cattiva, accanita.

Il signor J. aveva avuto paura, tanta come non mai. Quando era riuscito a recuperare l'uso delle gambe, era corso in bagno e aveva infilato la testa sotto al rubinetto, lasciando che l'acqua corrente lavasse via i suoi tormenti. Le mani gli tremavano, il cuore era impazzito.

Aveva deciso di uscire a prendere un po' d'aria. Era da tanto che non lo faceva: durante la settimana metteva piede fuori casa appena una volta o due, per fare un po' di spesa, muovendosi furtivo nella città per incontrare meno persone possibili. Per il resto, l'antica villetta sul mare in cui era cresciuto e in cui viveva gli dava tutta la solitudine di cui aveva bisogno per non sentirsi fuori posto in quel mondo che l'aveva tagliato fuori.

Aveva afferrato al volo il suo cappotto grigio e si era chiuso la porta alle spalle, senza neanche sistemarsi gli abiti o i capelli. Non aveva preso le chiavi della macchina; aveva bisogno di camminare, di respirare l'aria fresca che saliva dal mare.

Aveva percorso il vicolo che conduceva alla villa, era sbucato in una strada più larga, frequentata da qualche automobile solitaria, poi aveva attraversato i quattro incroci che lo separavano dalla zona abitata. Le case, in quel quartiere, erano curate e impeccabili: erano le case dei Pazienti. Non vi erano Insani da quelle parti. Il signor J. era un'eccezione: lui viveva del successo che aveva avuto come artista, viveva del suo passato.

Appena sbucato nei quartieri alti, il signor J. si era perso nelle vite delle famiglie che li abitavano. I bambini giocavano tra loro, si rincorrevano, ridevano in braccio alle giovani e bellissime madri; i padri potavano le siepi, curavano i giardini, lavavano le automobili e ogni tanto acciuffavano i figli e facevano loro il solletico. Un sole tiepido splendeva sulle loro teste, riflettendo la luce sui vetri scintillanti delle finestre. Era domenica, e il clima non avrebbe potuto essere migliore.

Il signor J. aveva trattenuto un singhiozzo, infelice. Lui sarebbe sempre stato soltanto un osservatore, estraneo a quell'allegria spensierata. Non avrebbe mai avuto quella pace in sé, non avrebbe mai avuto al suo fianco una donna che lo desiderasse per quello che era.

O forse no. In fondo era ancora in tempo per sistemare le cose, per porre fine a quelle inutili sofferenze. Non esisteva un'età giusta per cominciare a essere felici, e lui aveva cinquant'anni: forse non era troppo tardi per godersi la vita, e perché no, anche l'amore di una donna e di un figlio.

Ci aveva pensato molte volte, eccome se ci aveva pensato. Ma una forza invisibile l'aveva sempre fatto desistere dal cedere.

Cedere a che cosa, poi? La pillola non chiedeva nulla in cambio. Ormai era addirittura gratuita! Quanto erano stupide, in fondo, quelle resistenze! Perché gli Insani, lui il primo tra tutti, si ostinavano a voler essere infelici?

Il signor J. si era passato una mano sul viso stanco. Le sue gambe lo avevano portato avanti, oltre le villette ridenti dei Pazienti, nel parco verdissimo in cui andava con sua nonna quando era bambino. Da quando lei era morta, quindici anni prima, non ci aveva mai più messo piede. Era entrato, i passi tremanti, invadendo col suo buio la felicità degli altri.

Seduta sul prato, su un telo azzurro steso con cura a pochi passi dal laghetto artificiale dove da bambino dava da mangiare alle anatre, una coppia Paziente aveva attirato l'attenzione del signor J. Lui non doveva avere meno di quarantacinque anni, ben vestito, i piedi nudi sull'erba, una barbetta curata che gli circondava il mento. Lei, sui quarant'anni, vaporosi boccoli biondo scuro, fasciata da un vestito rosso che metteva in risalto le sue forme morbide. Le loro mani erano strette insieme, e quando tra le loro braccia aveva fatto capolino un bimbo felice, a stento capace di camminare, il signor J. era scoppiato a piangere, lì, davanti a tutti.

Aveva preso la sua decisione, così d'istinto. Era corso verso il Centro Specializzato più vicino senza guardarsi alle spalle, per paura di avere dei ripensamenti. Ma ormai sapeva, sapeva che l'avrebbe fatto.

La segretaria del Centro era stata gentilissima. L'aveva fatto accomodare su un divanetto in una sala tutta bianca, in attesa che arrivasse un medico, e gli aveva fatto alcune domande sulla sua vita. Sorridendo, lo aveva rassicurato e gli aveva rammentato ogni singolo effetto benefico che la pillola avrebbe avuto su di lui, a partire da subito.

In pochi minuti era arrivato il medico. Lo aveva visitato, gli aveva trovato un sacco di problemi e l'aveva rimproverato per aver aspettato così a lungo, prima di entrare in quel Centro bianchissimo che prometteva benessere eterno. Poi gli aveva ficcato tra le dita un foglietto da consegnare alla segretaria. Fuori dalla sala, lei aveva ritirato il foglio, era sparita per qualche secondo dietro al suo bancone immacolato e ne era riemersa con una scatoletta in mano.

«Una ogni mattina, appena sveglio» gli aveva detto. Con acqua o senza, masticandola o inghiottendola; non aveva importanza. L'effetto sarebbe stato lo stesso. La prima pillola della confezione avrebbe dovuto prenderla a mezzanotte, perché facesse effetto durante il sonno. Poi, il resto era semplicissimo.

Una pillola al giorno, ogni mattina. Non se ne sarebbe dimenticato.

Quando la confezione sarebbe arrivata al termine, il medico del Centro Specializzato da lui scelto gliene avrebbe fatta recapitare un'altra direttamente a casa, senza che lui avrebbe dovuto preoccuparsi. Il suo indirizzo lo aveva scritto, assieme ai suoi dati, sul foglio che la segretaria gli aveva fatto compilare? Sì? Perfetto, allora poteva anche tornarsene a casa. Aveva fatto la cosa giusta, era stato saggio e in gamba.

La segretaria lo aveva salutato con il suo sorriso più ampio ed era tornata al lavoro. Il signor J. era uscito dal Centro Specializzato, confuso ma sempre più convinto di ciò che aveva deciso di fare.

A mezzanotte aveva ingoiato la prima pillola. Poi si era messo a letto, provato dalle emozioni della giornata. Aveva dormito divinamente, senza ombra di incubi a disturbarlo. Al risveglio, aveva mandato giù la seconda pillola della sua vita.

Era incredibile quanto si sentisse bene. I muscoli avevano un nuovo vigore, la mente era sgombra da pensieri negativi, il cuore pulsava regolare e pieno di vita. Tutto sembrava essere come prima, eppure tutto era diverso: il suo letto sfatto, i comodini, il pavimento pieno di tappeti, la finestra che dava sul mare, la linea sottile dell'orizzonte che congiungeva acqua e cielo, appena visibile nella nebbia mattutina.

Tutto quello che vedeva c'era sempre stato, ma i suoi occhi e la sua mente lo percepivano in maniera diversa. Tutto era magnifico, tutto era nuovo, e da ogni cosa filtrava bellezza e positività.

Il signor J. si vestì. Si accorse di avere solo abiti vecchi, quasi tutti macchiati irreparabilmente di pittura, e decise che nel pomeriggio sarebbe uscito per rinnovare il guardaroba. Si infilò la tunica che usava per dipingere, sopra un paio di jeans sdruciti, poi mise piede nel suo studio. Come di consueto, preparò l'occorrente per lavorare: pennelli, tavolozza, colori, una ciotola d'acqua. La tela era già lì, sul cavalletto, iniziata due giorni prima, con le sue figure astratte e sinuose in bella vista, rosse su sfondo nero.

Il signor J. intinse il suo pennello più fino nel colore. Ma rimase con la mano a mezz'aria per un minuto abbondante. L'ispirazione, che mai lo aveva abbandonato in tutta la sua vita, sembrava essere svanita nel nulla.

Provò di tutto: ascoltò un cd rilassante, accese un incenso profumato, prese una nuova tela dal mucchio nel ripostiglio, trasportò il cavalletto e l'attrezzatura all'aperto, nel minuscolo terrazzino dello studio, sotto alle nubi minacciose. Ma non ci fu niente da fare.

Nonostante quella situazione fosse snervante, il signor J. non si irritò. Sorrise al pensiero che quella sua serenità era dovuta alla pillola, e d'improvviso capì.

Non riusciva a dipingere perché non gli occorreva più.

La pittura era stata la sua unica via di fuga, la sua salvezza, il suo riparo in quella vita tormentata e marchiata dal dolore; ma ora non aveva più bisogno di sfogarsi. Ora la felicità tanto agognata era finalmente arrivata: mai più il signor J. avrebbe dovuto affidare i suoi sentimenti ai pennelli, mai più avrebbe dovuto assegnare alle sue tele l'oneroso compito di contenere le sue ansie e le sue preoccupazioni. Era un uomo nuovo, adesso, lontano da qualsiasi paura, lontano dai difetti e da ogni imperfezione.

Il signor J. rise. Una risata lunghissima, forte, straziante.

Alzò le braccia al cielo che prometteva tempesta, sorridendo al mondo che, dopo così tanti anni, aveva finalmente deciso di capirlo.

Era felice, adesso. Era libero.

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