5. Arun



L'ennesima giornata di noia era finita. Neil diede la buonanotte a sua madre, poi si ritirò in camera sua e si distese sul letto.

Erano passati tre giorni da quando aveva visto Anandria l'ultima volta. Non si erano più risentiti e Neil era ancora piuttosto turbato. Certo, ogni tanto era normale avere una piccola incomprensione tra amici, ma loro avevano sempre condiviso le stesse idee e non si erano mai trovati in disaccordo. Anche se non era successo niente di grave, Neil avvertiva un clima di tensione a cui non era abituato, e la terribile paura di perdere la sua unica vera amica lo assaliva senza tregua. Avrebbe dovuto chiarire con lei prima possibile.

Il silenzio della notte lo stordì. Le sue giornate erano fatte di silenzi, la sua stessa vita sembrava tessuta di una tacita monotonia. Quante volte aveva sognato che le cose cambiassero, quante volte aveva immaginato di essere il protagonista di una storia interessante, anziché un misero ragazzino insignificante. Quante volte aveva desiderato un'avventura che cambiasse il significato di quella vita scialba.

Un rumore lieve e insistente richiamò la sua attenzione.
Una goccia: nient'altro che una goccia che perdeva dal lavello della vasca da bagno, cadendo a intervalli regolari nella vecchia bacinella messa lì apposta per contenere la perdita. La bacinella si era riempita e il suono delle gocce a contatto con l'acqua era insopportabilmente martellante.

Stizzito, Neil cercò di ignorarlo, tappandosi le orecchie con i lembi del cuscino; poi si raggomitolò tra le lenzuola e provò a dormire. Ma il rumore continuava, insistente, e dopo qualche minuto di vani tentativi Neil scattò a sedere, vinto dalla rabbia, scese dal letto a castello ed entrò in bagno. Agguantò con malagrazia la bacinella, la svuotò e la posò a terra, accanto al lavandino; poi, all'improvviso, si lasciò cadere sul bordo sbeccato della vasca da bagno e scoppiò in un pietoso pianto di rabbia e di sconforto.

Erano quelle le uniche avventure che poteva aspettarsi: combattere contro le zanzare e le perdite d'acqua. Era deprimente, triste e terribilmente umiliante, ma era la sua vita, nascosta e dimenticata dal mondo.

Una telefonata. Era bastata una telefonata a fargli tornare un'ombra di sorriso sul volto.

Neil mise giù la cornetta e tirò un respiro di sollievo: aveva chiarito con Anandria. Era stata lei a chiamarlo, tormentata dalle sue stesse paure. Gli aveva detto che le dispiaceva di non essersi fidata di lui e di essersi agitata così tanto per una cosa così stupida, ma erano giorni che il lavoro la stressava più del dovuto, e ultimamente in giro non sentiva altro che notizie negative. Neil la capiva; anche lui forse aveva sbagliato a prendere tutto con leggerezza. Ad ogni modo, la questione adesso era risolta.

Era questo il bello di Anandria: sia quando sbagliava sia quando aveva ragione era disposta a mettere tutto in discussione e ad assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti quando le persone che la circondavano non riuscivano a stare bene con lei.

Neil scoppiò a ridere, finalmente sollevato, mentre si spostava in camera sua per cambiarsi. S'infilò al volo un paio di jeans, una T-shirt dai lembi scuciti e una felpa verde, la sua preferita; poi prese i soldi che sua madre gli aveva lasciato sul comodino e uscì di corsa per fare la spesa.

Quando arrivò alla fermata, vicino al pub, Neil scoprì che l'autobus delle cinque era appena partito e che il prossimo sarebbe passato quaranta minuti dopo.

Alzò gli occhi verso il cielo: nuvoloso, ma non troppo da minacciare una bufera. Decise di mettersi in cammino. Aveva voglia di passeggiare e il centro della città distava poco più di mezz'ora a piedi: lo stesso tempo che avrebbe impiegato ad aspettare il prossimo autobus.

Camminare gli diede modo di osservare da vicino la losca periferia in cui era nato e cresciuto. Era ben diversa dal centro della città, con le sue strade pulite, le aiuole piene di fiori variopinti, i negozi affollati, la gente bellissima e sorridente. Non c'era alcun paragone, centro e periferia sembravano parte di due mondi diversi: il primo stracolmo di ricchezze e benessere, il secondo angusto e degradante.

Le periferie erano le case degli Insani, troppo poveri e disgraziati per potersi permettere una vita dignitosa. Le periferie erano i posti dove potevano stare quelli come lui, senza importanza né significato. Ovunque si potevano scorgere immagini che pubblicizzavano l'invitante benessere dato dalla pillola: cartelloni affissi sui muri dei palazzi o sulle fiancate degli autobus, volantini disseminati nei luoghi pubblici e nelle cassette della posta, annunci sui giornali. Qualunque fosse la loro destinazione, gli Insani si imbattevano in quelle pubblicità almeno tre volte al giorno. Ma tutto ciò non sortiva effetto su Neil: vedere immagini di persone felici, sentirne le voci e le risa, osservare quell'inquietante, artificiosa bellezza attorno a lui non faceva altro che rafforzare le sue idee e le sue intenzioni di rimanere nell'Insanità per tutto il tempo che la sua vita tormentata gli avrebbe messo a disposizione.

Presto lo scenario cambiò: palazzi eleganti dai muri bianchi o dipinti con colori pastello troneggiavano sulle strade pulite e ordinate, quasi prive di traffico. Disposti in maniera simmetrica, alberi eleganti e siepi scolpite in forme sinuose decoravano l'ambiente. Le insegne dei negozi apparivano perfette e invitanti, così come tutto in quelle strade dannatamente incantevoli; non v'era traccia di sporcizia e degrado neanche nei vicoli più nascosti. Ma ciò che inquietava Neil non era quell'irreale armonia, bensì la gente che la abitava, che viveva senza mai porsi alcun problema, senza preoccupazioni.

Com'era possibile una cosa del genere? Com'era possibile che una pillola potesse dare tutto questo all'umanità?

Neil incontrò due occhi verdi e luminosi, che appartenevano a una donna bellissima. Fuggì lo sguardo indagatore di lei abbassando il suo a terra, sulle minuscole piastrelle del marciapiede disposte a formare un mosaico impeccabile.

Tutti coloro che facevano uso della pillola, i Pazienti, ereditavano un'invidiabile bellezza esteriore. Certo, non diventavano bellissimi da un giorno all'altro: l'aspetto fisico era nient'altro che lo specchio dell'aspetto interiore. Se la mente era sana, anche il corpo ne risentiva. I muscoli si facevano più tonici e forti, i movimenti più aggraziati, i capelli più morbidi, gli occhi sembravano illuminarsi dall'interno, le labbra disegnavano sorrisi radiosi.

Il corpo di un Paziente era praticamente perfetto, in quanto la pillola lo preservava da qualsiasi malattia o disfunzione. In poche parole, un Paziente era la descrizione della perfezione, o almeno rappresentava il significato della bellezza nell'immaginario collettivo.

Lo sguardo di Neil continuò a vagare finché si imbatté nella figura tozza di Arun. Cercò di ignorarlo: quel vecchio era una presenza ordinaria da quelle parti, nonostante molti cercassero di sradicarlo dal suo solito tavolino del bar della stazione, ma in fondo non dava fastidio a nessuno. Era solo matto, tutto qua: matto e rimbambito. Neil gli passò distrattamente accanto e lo sentì canticchiare con la voce gracchiante e impastata dall'alcool.

«Cara biondina, biondina, biondà... cara biondina, cara biondà...»

Faceva tenerezza, in fondo. Disadattato, scansato da una società troppo perfetta per poterlo accettare.

«Qui c'è la guerra e continui a cantar... cara biondina, cara biondà... Ehi, Neil!»

Neil si irrigidì. Forse aveva capito male.

«Ragazzo, dico a te» continuò il vecchio. «Come stai?»

Lui si voltò, incerto. Arun stava parlando con lui, non c'era dubbio. E si era ricordato il suo nome. Forse Anandria aveva ragione, quel vecchio era davvero un pericoloso squilibrato capace di tutto.

Neil si maledisse, mentre pensava a un modo di andarsene il prima possibile. Cercò di apparire tranquillo, disinvolto, ma non vedeva l'ora di svoltare l'angolo e sparire alla vista del pazzo.

«Bene, grazie, sto bene» rispose con garbo.

«Fantastico, meraviglioso! Allora, hai seguito il mio consiglio?»

«Quale consiglio?»

«Qualche giorno fa ti ho detto di lasciar perdere quegli zoticoni dei Pazienti.»

Neil sussultò. Arun ricordava non solo il suo nome, ma anche le parole che si erano scambiati, e tutto ciò non aveva nulla di rassicurante.

«Io... ci provo, signore» farfugliò in risposta.

Il vecchio ridacchiò. «Bene! Ricorda, il vero mondo appartiene a noi Insani!»

Neil lo guardò di sottecchi. Quel giorno portava una giacca di un colore indefinito, tra il verde e il marrone, sopra la solita camicia a quadri. Era davvero orrendo, col volto pieno di rughe e quella barba sporca, nauseabonda. Sulla sua testa spiccava l'immancabile coppola grigia, sempre storta. Un brivido scosse la schiena di Neil: dietro alla figura di quel vecchio reietto poteva davvero nascondersi chiunque.

«Devo andare, arrivederci» tentò di congedarsi.

Arun sbuffò, teatrale. «Vai, vai, sempre di fretta. Porta i miei saluti a Leda.»

Neil, che si era già voltato per andarsene, si immobilizzò, un piede a mezz'aria.

«Come fa a conoscere il nome di mia madre?» gli domandò, la voce tremante.

«Beh, conoscevo tuo nonno, e lui mi parlava sempre di lei! L'ultima volta che l'ho visto, tua madre avrà avuto sì e no dodici anni. Ah, bei tempi! C'erano ancora pochi Pazienti, e potevi andartene in giro tranquillo. Poi tuo nonno è morto e non ho avuto più notizie della sua famiglia, ma ogni tanto vedevo Leda da queste parti. Non credo che lei si ricordi di me. La osservavo perché era tutta suo padre, mi ricordava i bei momenti passati insieme a insultare i Pazienti. Era un bel tipo, tuo nonno.»

Arun si accese una sigaretta, scrutando torvo i passanti e scagliandovi contro qualche imprecazione. Neil non riusciva a pensare.

«Sì, ma come fa a sapere che io sono il figlio di Leda?»

«Ma allora sei tonto, ragazzo! Non sono mica cieco, io! Rimbambito sì, ma cieco no. Ti ho detto che la vedevo spesso in città; a volte da sola, altre volte accompagnata da un bel giovane. E poi l'ho vista tenere in braccio un marmocchio. Indovina chi era?»

«Ero... ero io...»

«Ecco! Come ho visto crescere Leda da lontano, ho visto crescere anche te.»

Neil ebbe un tuffo al cuore. Per tutta la sua vita, era stato osservato da quel vecchio squilibrato senza mai accorgersene. Chissà quante altre cose sapeva di lui!

Anandria aveva visto giusto: tutto ciò che Neil avrebbe dovuto fare era fuggire via, non passare mai più davanti a quel bar e non rivolgere mai più la parola a uno sconosciuto. Eppure Arun aveva detto qualcosa a cui lui non poteva restare indifferente.

Suo padre. Arun l'aveva visto... forse avrebbe potuto dargli delle risposte!

Sfidando ogni cautela, con il cuore all'impazzata, Neil gli fece quella domanda che da sempre avrebbe voluto porre a qualcuno, ma che mai aveva avuto l'opportunità di fare.

«Quindi lei conosceva mio padre?»

«Tuo padre? L'ho solo visto una o due volte assieme a tua madre, ma non so nemmeno come si chiama. In effetti, non lo vedo da prima che nascessi tu. È forse morto?»

Neil scosse la testa. «Non lo so, io non l'ho mai conosciuto.»

«Ah. Brutta storia, veramente brutta» fece Arun, gettando per terra il mozzicone giallastro della sigaretta.

«Non importa» sospirò Neil.

Nemmeno quella volta aveva trovato risposta all'enorme punto di domanda che suo padre rappresentava nella sua vita. Sua madre era sempre stata vaga sull'argomento. Gli aveva detto solo che lui era stato il frutto di un amore passeggero, finito troppo presto per potersi rendere conto dei suoi esiti, ma Neil non poteva accontentarsi di quelle misere parole.

Quando si rese conto che il vecchio lo stava fissando da diversi secondi, Neil si riscosse dai suoi pensieri. Arun gli sorrise goffamente e le rughe della bocca si incresparono in complessi reticolati che gli spiccavano sulla carnagione scura. Neil provò a rispondere, ma i muscoli del suo viso sembravano paralizzati.

«Ora devo salutarla. Vado a fare la spesa» gli disse, impacciato.

«Puoi darmi del tu, se vuoi. Fatti vedere qualche volta qui in centro, mi ha fatto piacere parlare con qualcuno!»

«S-sì, va bene.»

Neil alzò una mano a mo' di saluto e si voltò di scatto. Confuso e in lotta con sé stesso, deviò verso la stazione, svoltò l'angolo e appena non fu più visibile agli occhi del vecchio cominciò a correre con tutto il fiato che aveva in corpo, ignorando gli sguardi attoniti dei passanti e le risatine di scherno delle giovani e bellissime Pazienti. Si fermò solo centinaia di metri più avanti, lasciandosi cadere su una panchina per recuperare il fiato e per pensare a cosa gli stava succedendo.

Avrebbe dovuto provare paura davanti a quel pazzo che sembrava sapere molte cose di lui; tuttavia, tra le sue emozioni caotiche e contrastanti riusciva a scorgere soltanto una viva curiosità, tanta confusione e una forte perplessità.

No, decisamente non v'era alcuna traccia di paura nei suoi pensieri.

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