31. Iris
«Neil! Avanti, sbrigati!»
Il ragazzo scese di corsa la scala a chiocciola, saltando due gradini per volta. Si infilò in bagno e socchiuse la porta, mentre la televisione cominciava a blaterare a tutto volume dal salotto per coprire le loro voci.
Arun fece capolino pochi istanti dopo.
«Dove vado?» gli chiese Neil.
«Va' dove ti pare, ma stai attento.»
«Certo.»
«E magari questa volta evita di fare cretinate!» bofonchiò il vecchio a mezza bocca.
Neil sorrise tra sé. Nell'ultima visita della polizia, appena tre giorni prima, aveva rischiato di farsi scoprire. Si era rifugiato di sopra, dove di solito gli sbirri non andavano mai a ficcare il naso, e preso dalla noia si era messo a gironzolare nella mansarda con il gatto alle calcagna. Gli era tornata in mente la scatola di fotografie della ragazza bionda che Arun aveva fatto sparire prima della riunione e che lui non aveva più ritrovato; si era messo a cercarla e nella foga aveva urtato una sedia facendola cadere.
Al piano di sotto era piombato un terribile silenzio.
«Che cosa è stato?» aveva chiesto allarmata una voce di donna, e Neil era andato nel panico. Il gatto faceva le fusa strusciandogli contro le gambe, così a lui era venuta un'idea: aveva raccolto da terra un foglio di carta, l'aveva appallottolato e l'aveva fatto rotolare per le scale.
Come aveva previsto, il gatto si era lanciato all'inseguimento della pallina in un gran baccano di zampe sul legno della scala. Arun aveva colto al volo il suo piano e si era messo a ridacchiare nervoso, bofonchiando qualcosa a proposito della grande maldestria del suo gatto, e la polizia sembrava averci creduto.
Una volta conclusa l'ispezione, Arun gli aveva fatto una ramanzina interminabile.
«Non pensare che se la siano bevuta» gli aveva detto, fumando la solita sigaretta accanto al balcone della mansarda. «Hanno solo fatto finta. Vedrai che torneranno subito, magari con un mandato, e ispezioneranno tutta la casa. E noi dovremo essere pronti!»
Già da due settimane, ormai, Neil aveva fatto sparire tutte le sue tracce dalla casa di Arun: i suoi appunti erano nascosti tra i vecchi libri ammuffiti, i suoi vestiti erano sepolti sotto a mucchi di coperte e il ragazzo aveva preso l'abitudine di rifarsi il letto ogni mattina, appena sveglio, così da dare l'impressione che la sua camera fosse disabitata. Ora sarebbe stato ancora più attento.
La previsione di Arun, come al solito, si era rivelata azzeccata: il campanello aveva appena suonato per la terza volta, impaziente, confondendosi tra le folate di un vento che si faceva sempre più forte.
«Arrivo, arrivo!» strillò Arun, trascinandosi verso la porta d'ingresso. Neil tese le orecchie, la schiena poggiata alle mattonelle azzurrine del bagno – l'unica stanza le cui finestre davano sul retro della casa.
Il suono del chiavistello. Il cigolio della porta.
«Ah, siete voi! Entrate, non statevene lì al freddo» gracchiò Arun. «Oggi c'è un tempo da lupi. C'è ancora qualcuno, là fuori?»
Nessuno gli rispose. Non v'era modo neanche di capire quanti fossero: l'ispezione dei poliziotti doveva essere già iniziata, silenziosa e invadente.
Lentamente, cercando di non fare rumore, Neil aprì la piccola finestra del bagno e vi si arrampicò, issandosi sulle braccia. Si accovacciò sul davanzale, fece passare le ginocchia ossute all'esterno, spiccò un piccolo salto e fu fuori, nel freddo di quel pomeriggio di fine aprile.
Non fece in tempo a raddrizzarsi che un rettangolo di luce illuminò all'improvviso il tappeto di foglie marce ai suoi piedi. Neil, l'ansia che gli stringeva i polmoni, si appiattì contro il muro in una zona in ombra, allontanandosi dalla finestra, mentre dall'interno della casa risuonavano rumori di passi e di porte sbattute.
«Perché la finestra è aperta, con questo freddo?» domandò una voce, e Neil sbiancò.
«Perché? Secondo voi, perché ho tardato ad aprire la porta? Cos'è, voi Pazienti al bagno non ci andate?» sentì dire ad Arun prima di svignarsela percorrendo il perimetro della casa con le spalle contro il muro, come un ladro.
Stai attento. Stai molto attento.
Prima di svoltare l'angolo, Neil sbirciò di sottecchi verso l'ingresso, restando nell'ombra. Tre auto erano parcheggiate malamente lungo la strada, in fila una davanti all'altra. Due erano macchine della polizia; la terza era bianca. Doveva appartenere a quegli odiosi operatori sanitari che passavano la vita in camice a sentirsi superiori ai loro assistiti, o forse a qualche rappresentante dell'Assemblea Purissima.
Neil fece un rapido calcolo. Tre macchine significavano almeno una decina di uomini, tra sbirri e infermieri: una bella squadra, senza dubbio. Strizzò gli occhi prima di proseguire e si accorse che in uno degli abitacoli la luce era accesa. Un poliziotto stava frugando nel cruscotto, o in una borsa ai suoi piedi, e almeno due volte Neil lo vide gettare un'occhiata veloce fuori dal finestrino.
Arretrò di qualche passo, portandosi sempre più lontano dall'ingresso. Era bloccato: la strada che portava in città era sorvegliata e la casa era piena di uomini in divisa con un mandato di perquisizione. E lui stava infrangendo la legge.
Un lampo azzerò per un secondo i rettangoli di luce artificiale proiettati dalle finestre e illuminò il groviglio di piante sul retro della casa. Più in fondo, l'orto. E ancora più in là, la legnaia. Un nascondiglio perfetto.
Neil si tuffò nella vegetazione e avanzò a tentoni fino al minuscolo magazzino di lamiere. Ci si infilò appena in tempo: un altro lampo e il cielo prese a svuotarsi in un grande scrosciare d'acqua.
Accovacciato tra i ceppi, Neil riprese fiato. Era buio, lì dentro, e puzzava di legna umida, ma almeno era un rifugio asciutto. Asciutto, freddo e noioso, per la verità: presto Neil si pentì di non aver preso una giacca e un libro qualsiasi da sfogliare alla luce dei fulmini. Sarebbe dovuto restare lontano dalla casa di Arun fino a che quella marmaglia non se ne fosse andata: almeno un paio d'ore, a detta del vecchio. Un tempo interminabile.
Sporgendosi appena oltre l'apertura tra le lamiere che delimitava l'ingresso della legnaia, Neil spiò la casa di Arun dalla finestra del bagno. La luce era stata spenta, ma qualcuno aveva lasciato la porta aperta e da lì s'intravedeva il grosso, luminosissimo atrio esagonale e il suo via vai di poliziotti e assistenti in camice bianco. Li immaginò affaccendarsi per le camere, accendere e spegnere luci, aprire cassetti, frugare nei mobili, spostare sedie, tende, tappeti. Immaginò che chiedessero ad Arun di raccontar loro i suoi affari, o che lo riempissero di ciance sulla pillola e sulla mancanza di responsabilità degli Insani. Il vecchio doveva essersi dipinto il viso di quella sua espressione sciroccata che assumeva davanti alla gente e girovagava nell'atrio come un'anima in pena. Poi la squadra salì al piano di sopra, seguita da Arun, e Neil non vide più niente.
La pioggia batteva sempre più forte sulle lamiere, stordendogli i timpani, e il gelo s'era fatto quasi insopportabile. Il ragazzo si strinse nella felpa e nascose le mani intirizzite nelle tasche. Sedette sulla catasta di legna, stando attento a non far rotolare i ciocchi, e rabbrividì quando l'umidità passò attraverso i suoi jeans.
Lasciò vagare i pensieri per un po', lasciò che si perdessero nell'amalgama grigioblù di cielo e acqua che lo sovrastava. Se non fosse stato per il freddo, si sarebbe addormentato. Poi la noia divampò e Neil si rimise in piedi. Per tenersi occupato, cominciò a spostare i ceppi da una fila all'altra, prima senza un criterio, poi dividendoli per lunghezza e spessore. Un lavoro ingrato e difficile, nel buio della legnaia, ma che almeno lo aiutò a scaldarsi.
Poi, sotto all'ennesimo pezzo di legno, le sue dita si imbatterono in qualcosa di diverso. Una superficie piatta, una liscia ruvidezza. Cartone.
La scatola di fotografie.
Neil esultò intimamente. L'aveva trovata!
La sfilò con delicatezza dal muro di ceppi e la posò in cima a un tronco più grande. Poi la aprì col cuore a mille, pescò qualche foto dal mucchio e si avvicinò all'apertura tra le lamiere per osservarle alla poca luce dell'esterno. Ormai dovevano essere passate le sei e fuori, complice il maltempo, s'era fatta quasi notte, ma strizzando gli occhi Neil riuscì a scorgere i lineamenti della ragazza bionda che appariva sulla carta al chiarore dei fulmini. In alcune foto mostrava di avere all'incirca la sua età, o qualcosa di meno; in altre era solo una bambina.
Chi è questa ragazza?
Sembrava fragile quanto la carta che ospitava la sua immagine. Sorrideva, ma i suoi occhi parlavano di una inquieta solitudine che toccava il cuore. Neil distolse lo sguardo con una certa deferenza: non si sentiva degno di poter sostenere quello di lei.
Scorse rapido le altre foto finché s'imbatté in un paio di volti che gli erano familiari. La luce era scarsa e l'immagine sbiadita, ma non c'era dubbio: quelli che lo stavano guardando, in piedi davanti a quella porta rossa che Neil conosceva bene, erano Ghorum e un giovane Arun. La ragazzina era davanti a loro e Arun le teneva una mano sulla spalla.
Neil si sentì cogliere da qualcosa che assomigliava a una stupida gelosia. Allora anche gli altri conoscevano l'identità della ragazza bionda: Ghorum, Indre e Sylvia, Viktor, forse l'intero Ponte di Nessuno, tranne lui. A lui Arun aveva tenuto segreta quella presenza misteriosa, gliel'aveva nascosta in tutti i modi possibili.
Ma perché, perché l'aveva fatto?
Restò a guardare le foto ancora per un po', perso nei pensieri. Poi le rimise a posto nella scatola. Fuori, nel frattempo, aveva smesso di povere, ma infuriava un vento che faceva vibrare le lamiere in una nenia assordante. Per questo, Neil non si accorse che qualcuno si stava avvicinando e quando una sagoma umana apparve all'ingresso della legnaia, gli abiti che parevano lacerarsi al vento, il suo cuore perse un paio di battiti.
La luce di una torcia si accese all'improvviso, puntata dritta nelle sue pupille, e Neil strillò.
«Che diamine ci fai qui?»
La voce che aveva parlato apparteneva ad Arun. Neil si coprì gli occhi con le mani, facendosi ombra, mentre cercava di recuperare la calma.
«Non volevo spaventarti. Se ne sono andati.»
«C-chi?» riuscì a balbettare Neil.
«Come chi? Gli sbirri, no? Dai, torniamocene dentro.»
Neil non se lo fece ripetere due volte. Attese che Arun si voltasse e tornasse indietro, ma il vecchio rimase fermo al suo posto.
«Va' avanti tu, devo fare una cosa» fece Arun e Neil trattenne un gemito.
Non era venuto per lui. In fondo, come poteva sapere che Neil fosse lì?
No: era venuto a riprendersi la scatola. La scatola che Neil non aveva avuto il tempo di seppellire di nuovo sotto ai ceppi.
Se ne accorgerà. Capirà che l'ho trovata.
Neil cercò di temporeggiare, ma Arun lo spostò di peso e fece luce sulle cataste di legna. La scatola era lì, chiusa ma terribilmente visibile.
Il vecchio la prese senza una parola e uscì dalla legnaia, la torcia puntata tra le erbacce. Neil lo seguì restando qualche passo indietro, teso e turbato. Aveva l'impressione che Arun fosse furibondo; eppure, quando fu sulla soglia di casa, il vecchio tenne la porta aperta in attesa che lui arrivasse e gli riservò un sorrisetto una volta che Neil fu entrato.
Quando il ragazzo ormai cominciava a rilassarsi, Arun ruppe il silenzio.
«Alla fine l'hai trovata.»
Neil si irrigidì, ma non finse di non capire. «Non l'ho fatto di proposito» si giustificò. «Ho spostato la legna per tenermi occupato, e...»
«L'hai aperta?»
Neil temporeggiò per qualche secondo e non ci fu bisogno di rispondere.
«Lascia stare, non ha importanza» mugugnò Arun. «Non era da te che volevo nascondere quelle foto.»
«Sul... sul serio?» Neil non riuscì a nascondere la sorpresa.
«Diamine, ragazzo, perché mai dovrei perdere tempo a fare questi giochetti? È la polizia che non deve mettere le mani su quella scatola, non tu.»
«Per questo l'avevi portata nella legnaia?»
«Esatto. E ho fatto bene: quei delinquenti hanno rovistato ovunque, se l'avessi lasciata qui dentro l'avrebbero trovata di sicuro.»
Neil sussultò. Preso dalla tensione, aveva del tutto dimenticato l'ispezione della polizia. In effetti, in casa sembrava essere entrato un tifone: i mobili erano aperti, le sedie spostate, qualche foglio di carta sparso sul pavimento portava le impronte di piedi sbadati o menefreghisti.
«Sono stati davvero invadenti, stavolta» commentò Neil.
«Ma si sono ritrovati con un palmo di naso.»
Arun posò la scatola sul tavolo del salotto e lasciò cadere le membra stanche su una sedia. Neil, nel frattempo, aveva raggiunto il piccolo angolo cottura e aveva messo su l'acqua per il tè.
«Era mia figlia.»
Mancò poco che Neil rovesciasse il pentolino sui fornelli. Gli attimi che seguirono furono una ricerca disperata della cosa giusta da dire, da chiedere o da tacere. Ma, ancora una volta, parlare non fu necessario.
«Si chiamava Iris. Non ti so dire se amassi o meno sua madre, ma un giorno lei la portò qui da me, strillando che non voleva saperne niente. E il giorno dopo divenne una Paziente.»
Arun fece una pausa, soppesando quella confessione. Neil, nel frattempo, era rimasto immobile davanti ai fornelli.
«Iris aveva solo pochi giorni di vita. Era nata prematura, era sempre malata. Frequentavo già da tempo la Resistenza e la portavo con me, ma fin da bambina lei aveva maturato la decisione di prendere la pillola. E io gliel'ho sempre impedito. Pensavo di farlo per il suo bene, ma la realtà è che non avrei mai sopportato di veder fallire i miei ideali proprio davanti ai miei occhi. Proprio come era successo con sua madre. Proprio come era successo con mio fratello. L'ho lasciata appassire, ho lasciato che mi odiasse pur di non fallire anche con lei. E così, ho fallito come padre e come uomo.»
Neil staccò gli occhi dalla cucina e trovò finalmente il coraggio di puntarli su Arun, ma lui teneva lo sguardo fisso sulla scatola di fotografie.
«Che cosa è successo a Iris?» gli chiese.
Arun mosse appena le spalle. «Si è suicidata.»
A Neil parve che l'avessero trafitto con una lama affilata.
«No...»
Gli occhi di Arun infine riuscirono a staccarsi dalla scatola e incontrarono quelli sconvolti di Neil. «Credevo che l'avesse fatto a causa mia» disse il vecchio. «A volte lo penso ancora. Ma il giorno del suo funerale ho scoperto che lei parlava benissimo di me, che mi difendeva, che mi rispettava. E nessuno si permise di infierire. Persino la polizia mi lasciò in pace.»
Arun restò in silenzio per un po'. Più che turbato, sembrava rassegnato: doveva essere trascorso molto tempo da allora e il vecchio doveva aver avuto modo di elaborare quel terribile lutto.
«Sono passati vent'anni» disse infatti. «Iris si tolse la vita il 24 ottobre di vent'anni fa.»
Neil ebbe un piccolo tuffo al cuore. «È il giorno in cui sono nato io...»
«Già. Il giorno in cui sei nato. Una coincidenza particolare, questo è sicuro.»
Il tè era pronto. Neil posò una tazza fumante sul tavolo, davanti ad Arun, e bevve un sorso dalla propria.
«È una storia terribile» disse poi. «Però non riesco a capire. Perché non vuoi che la polizia trovi quelle foto?»
Arun finì di bere il suo tè, senza fiatare. Neil non trovò il coraggio di ripetere la sua domanda: aveva parlato a bruciapelo, senza ponderare il dolore di un padre che ha perso la sua unica figlia. Lui conosceva soltanto il dolore inverso, ed era un dolore che non ammetteva domande stupide come la sua.
«In questa scatola non ci sono solo le sue fotografie» disse poi Arun. «C'è anche un'altra cosa, ma a questo punto suppongo che tu non l'abbia vista.»
Alzò il coperchio come se fosse fatto di piombo, scavò tra le foto e tirò fuori quello che sembrava un foglio ripiegato e ingiallito.
«Questa è la lettera che Iris mi ha lasciato prima di... insomma, prima di andarsene.»
Aveva ragione: Neil non aveva notato quel foglio, complice la poca luce, ma forse era meglio così. Essere beccato a ficcanasare tra questioni così intime l'avrebbe fatto sentire molto più a disagio di quanto non fosse già.
«Ti giuro che non l'ho letta, né l'avrei fatto se l'avessi trovata» disse al vecchio, cercando di convincersi che lo pensasse davvero.
«Beh, meglio così. Se questa lettera finisse nelle mani sbagliate, potrei avere qualche rogna.»
«Credi che le mie sarebbero mani sbagliate?»
Ancora una volta, Neil si pentì all'istante di quella domanda così sciocca. Eppure era più forte di lui: l'idea di essere messo da parte lo infastidiva. C'era dell'altro, in quella storia: qualcosa che Arun si ostinava a volergli nascondere.
«Non era quello che intendevo.» Arun si posò una mano sugli occhi e tirò un lungo sospiro. «Neil, tu non hai idea, tu non hai idea...»
Dopo un lungo, angosciante silenzio, il vecchio si rimise in piedi, prese la sua tazza e si avviò verso il lavello della minuscola cucina. «Lasciamo questo discorso da parte, per favore» disse in un tono che a Neil parve appena irritato.
Dal canto suo, Neil si sentiva più ignorato che mai. Negli ultimi tempi aveva creduto di contare qualcosa per gli altri, ma non era vero. Nessuno gli dava fiducia: i compagni del Ponte di Nessuno non gli avevano affidato alcuna missione; Arun gli aveva parlato di sua figlia solo per via di quelle foto; persino Anandria l'aveva tenuto all'oscuro dei suoi pensieri più profondi.
Solo ora cominciava a rendersi conto di una cosa: Arun conosceva molto bene la sua vita, mentre Neil non sapeva quasi nulla di lui, della sua giovinezza, della sua famiglia o dei suoi affetti. Questo lo turbò, e non appena il vecchio gli passò accanto con la tazza vuota tra le mani, Neil alzò lo sguardo su di lui.
«Non ti fidi di me, vero?» mormorò.
«Che idiozie vai dicendo?» sbraitò Arun. «Certo che mi fido di te. Ma certe cose è meglio che tu non le sappia.»
«Grazie per avermelo detto: adesso sì che mi sento davvero considerato.»
«Oh, per la miseria!»
Arun scagliò a terra la tazza, che si infranse in un tappeto di cocci e schegge, e Neil sussultò. Era stato irriverente, era vero, ma non si aspettava quello scatto d'ira.
«Ti ho insegnato tutto quello che sapevo, ti ho accolto a casa mia, ti ho fatto entrare nella Resistenza: ti servono forse altre prove?» gridò il vecchio. «Davvero non riesci a renderti conto di ciò che significa?»
Neil tacque, immobile, la schiena contro il muro. Non sapeva cosa dire, cosa fare, come comportarsi. Arun nel frattempo pareva essersi pentito di aver sacrificato una povera tazza ed era corso ai ripari, pescando la scopa da una nicchia accanto al frigorifero. Spazzò i cocci accostandoli alla parete, poi recuperò una paletta accanto alla finestra.
«L'orologio che ti ho regalato al tuo compleanno era di Iris» continuò, di nuovo calmo. «Donartelo, per me, ha significato considerarti come un figlio, o come un nipote. Insomma, come un membro della famiglia. E io per la mia famiglia... per Iris, ho ucciso.»
A un tratto Neil non fu più sicuro di avere delle gambe. Non si accasciò a terra solo perché si tenne stretto allo schienale di una sedia.
«C-che... che cosa?»
Arun cadde a sedere, lo sguardo nel vuoto. «Me l'hanno violata. Più volte. Hanno abusato di lei. Era solo una ragazzina. Loro erano poco più grandi. Due Insani: i Pazienti non le fanno, queste cose.»
Le mani presero a tremargli e il vecchio se le piazzò sulle gambe.
«Iris era fragile. Troppo fragile. Tenne tutto per sé, senza chiedere aiuto, senza chiedere giustizia, ma non riuscì a gestire il suo dolore. Fu per questo che si uccise. Per questo io ho perso mia figlia.»
Neil stringeva lo schienale così forte che i tendini gli bruciavano.
«Trovai quella lettera qualche giorno dopo il funerale. Era spiegato tutto lì, ogni dettaglio. Era una situazione che andava avanti da quasi due anni, e io non mi ero mai accorto di niente. Nessuno si era accorto di niente. Nessuno lo sapeva. Un giorno vidi quei due figli di puttana importunare un'altra ragazzina anche più giovane di Iris e diventai un mostro anch'io. Li adescai con una scusa, li portai in un posto isolato e... un colpo secco.»
Arun riempì un bicchiere e mandò giù un lungo sorso d'acqua, come se potesse lavargli via ogni colpa.
«Quando la polizia cominciò a indagare sulla loro sparizione, vennero a interrogare anche me. Non avevano alcun indizio, ma quei due erano stati visti ronzare attorno a mia figlia, qualche volta, e la polizia non escluse alcuna pista. Allora cominciai a comportarmi come un pazzo. O meglio, pazzo lo ero davvero. Lo sono davvero.»
Un sospiro, una mano sul viso, un altro sorso d'acqua.
«La lettera di Iris era l'unico indizio che avrebbe potuto incastrarmi, ma la nascosi per bene e nessuno la trovò mai. La polizia non poté incolparmi per mancanza di prove, ma da allora non mi ha mai più lasciato in pace.»
Arun si voltò a guardare Neil, ancora pietrificato, e il ragazzo si sentì gelare.
«Ecco. È tutto. Adesso fa' pure quello che vuoi: corri alla polizia, denunciami. A me... a me ormai non importa più.»
Neil indietreggiò appena. Si trattenne dallo schiaffeggiarsi: non poteva credere a quella confessione.
Arun, un assassino.
Raggiunse la porta del salotto senza voltarsi, attraversò il corridoio e in un lampo fu fuori, nel buio angosciante di quella sera.
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