2. Strana gente



Il rumore della chiave nella serratura fu come una boccata d'aria fresca in quella giornata particolarmente noiosa.

«Neil, sono a casa!»

Sua madre spuntò dalla porta d'ingresso con le braccia cariche di borse e lui si precipitò ad aiutarla, felice di quell'interruzione della sua piatta monotonia. Lei gli stampò un grosso bacio sulla fronte e Neil non si sottrasse a quel contatto; gli piaceva sentirsi amato, gli piaceva significare qualcosa per qualcuno, gli piaceva la compagnia di quella donna non soltanto perché era sua madre, ma perché aveva una gran forza, era schietta e coraggiosa: ciò che avrebbe voluto essere lui, con la sua insicurezza e le sue impacciate esitazioni.

Cenarono in fretta, scambiandosi poche parole sulla giornata che avevano passato. Come al solito, mentre sua madre si preparava per andare a dormire, Neil lavò i piatti e le poche stoviglie, ripulì e rimise tutto in ordine. Ma quando lei si affacciò nella piccola cucina per dargli la buonanotte, lui aveva uno sguardo turbato che non le sfuggì.

«Cos'hai, Neil?» gli chiese.

«Niente.»

«Davvero?»

Lui sospirò. «Sono inutile, mamma.»

«Ma che cosa dici? Non sei affatto inutile!»

«Sì che lo sono. La mia vita non ha un senso, se io non esistessi non se ne accorgerebbe nessuno.»

«Neil, smettila, per favore. Fammi un esempio di qualcuno la cui vita ha senso. Non si tratta di essere utile o inutile; si tratta di scegliere qual è la cosa migliore per te, si tratta di distinguere ciò in cui credi tu da ciò in cui credono gli altri. So che non è facile, ma puoi farcela benissimo: anche se non lo sai, hai un grande coraggio.»

«Un coraggio da vendere...»

«Falla finita. Vedrai che troverai il tuo posto: sei già autonomo, sai fare tutto e sapresti cavartela da solo senza problemi. Alla tua età sono pochi i ragazzi capaci di farlo. Se non ci fossi tu, questa casa cadrebbe in rovina!»

Neil allargò le braccia, puntando lo sguardo sulle pareti macchiate di umidità, sulle grosse crepe dove l'intonaco sembrava volersi staccare da un momento all'altro, sul pavimento sbiadito e segnato dal tempo, sugli infissi vecchi e i mobili graffiati. «Questa casa cade già in rovina!»

La mamma ridacchiò con aria rassegnata. «Questa casa è ciò che possiamo permetterci, lo sai. Per noi due va benissimo, non abbiamo bisogno di nient'altro.»

«Sì, ma se almeno io lavorassi potremmo permetterci di risistemarla!»

Lei lo abbracciò. «Lavorerai per tutta la vita, Neil. Per adesso goditi quello che hai, perché non è affatto scontato che le cose andranno per sempre così.»

Il traffico quel giorno era più intenso del normale. Dalle voci che aveva carpito qua e là, Neil aveva intuito che c'era stato un incidente. Un episodio strano, in quel mondo perfetto e senza errori. Di certo la colpa era di qualcuno come lui: erano loro la causa dei problemi, dei difetti, delle irregolarità di quella società ideale. Erano loro, gli Insani, le piccole macchioline di sporco.

Neil si avvicinò a una vigilessa che stava cercando di gestire quel traffico infernale. Era una donna bellissima e giovane, con i capelli scuri legati in una treccia, un fisico perfetto e i lineamenti aggraziati.

«Sa cosa è successo?» le domandò.

«Un incidente, non molto lontano da qui» rispose lei indaffarata, senza neanche voltarsi a guardarlo. «È solo un tamponamento, per fortuna, non ci sono feriti. La storia è sempre la stessa, tutto questo non succederebbe se non ci fossero quei maledetti Insani.»

La donna si voltò verso di lui con un sorriso, ma il suo bel volto cambiò subito espressione, passando da un'amichevole cordialità al disgusto più totale.

«Quelli come te, insomma» concluse sprezzante.

«Non starla a sentire, ragazzo! La bellezza rende bisbetici» gracchiò una voce alticcia, dietro di lui.

«Sta' zitto, Arun!» ordinò la vigilessa. La voce ridacchiò, provocatoria, ma si fece sempre più lontana.

Neil riprese a camminare, nervoso. Si stava facendo tardi, doveva ancora sbrigare un sacco di faccende; per di più, conosceva la pessima reputazione dell'uomo che aveva insultato la vigilessa e non aveva nessuna voglia di interagire con lui. Tuttavia, le intenzioni di Arun sembravano essere diverse.

«Bene, bene, bene. Un altro Insano!» blaterò la voce alticcia, non troppo lontana da Neil. Arun lo stava seguendo.

«Non ho tempo, mi dispiace» bofonchiò Neil a mo' di scusa, senza fermarsi. Ma quello continuava ad arrancare dietro ai suoi passi.

«Neanche io ho tempo, ragazzo. Ho così poco tempo che non sono nemmeno sicuro di arrivare a domani, e appunto per questo non voglio sprecarlo a guardare il traffico, tu che ne pensi?»

Irrequieto, Neil si voltò verso il suo oppressore: era un vecchio, nient'altro che un vecchio svitato e insolente. Era famoso da quelle parti proprio a causa della sua follia: aveva perso il senno negli anni remoti della sua giovinezza, e probabilmente non lo aveva mai più cercato.

«Come ti chiami, ragazzo?»

La voce del vecchio pareva innocua, colma di sincera curiosità. Neil non ci aveva mai avuto molto a che fare, eppure tutti gli avevano sempre raccomandato di non rivolgere mai la parola ad Arun; dicevano che fosse pericoloso. In effetti, la sua figura tozza e tarchiata emanava qualcosa di terribilmente inquietante. Aveva l'aspetto di un vecchio straccione, con la testa incassata nelle spalle curvate dagli anni, la lurida camicia a quadri rossi e verdi e quel solito paio di jeans stinti, sgualciti e macchiati. Nessuno sapeva come vivesse, ma si vociferava che abitasse in una casa sperduta nelle campagne, dominata dalla polvere e dallo sporco.

Ciò che più faceva paura di lui, tuttavia, era il volto. Era di una bruttezza rivoltante: un paio di occhialetti dalle lenti incrinate, sorretti da un naso bitorzoluto, gli copriva gli occhi piccoli e rugosi, e una zazzera grigiastra gli ricadeva disordinata sulla testa, schiacciata da una vecchia coppola color cenere messa di traverso. Una barba trascurata gli copriva la metà inferiore del viso, fin sotto il mento.

«Allora, come ti chiami? Guarda che mica ti mangio!» ridacchiò il vecchio, mostrando una fila di denti giallastri e appuntiti. Una disgustosa zaffata di alcool lo raggiunse e Neil si irrigidì, rabbrividendo per l'inquietudine e il ribrezzo. Esitò un momento ancora, valutando la situazione.

«Neil» rispose poi con sincerità.

«Come?»

«Neil!»

«Ah, Neil... avevo un nipote che si chiamava come te. Non so ora che fine abbia fatto, sarà sicuramente uno di quegli smidollati senza cervello, succubi della pillola» fece Arun, pensoso.

Neil scosse appena il capo. Quel vecchio era il peggiore degli Insani: non perdeva occasione per parlar male della pillola e screditarne gli effetti miracolosi. La gente lo evitava e avrebbe dovuto farlo anche Neil, ma il ragazzo non poté fare a meno di pensare che gli ideali del vecchio, seppur spesso incomprensibili, erano simili ai suoi, a quelli di sua madre, di Anandria e di tutti quelli come loro: quelli strani, sbagliati ed emarginati.

Gli Insani.

In quel momento, a Neil fece quasi tenerezza.

«Signore, devo proprio andare, davvero» gli disse.

Il vecchio continuò a ridere. «Dovresti rilassarti, Neil. Guardati intorno: siamo circondati da gente bellissima e felice, disposta a tutto per farci invidia. E noi che cosa dovremmo fare? Lasciare che tutto ci crolli addosso? Farci divorare dalle preoccupazioni? No!» esclamò, sputando con vigore per terra. «Lasciali perdere, quei pezzenti!»

Poi si mise a canticchiare un motivetto stonato, barcollando sulle gambe tozze.

Neil passò rapidamente in rassegna la lista delle cose da fare: pagare le bollette, comprare qualcosa per la cena, passare all'ufficio di collocamento per ricevere la solita brutta notizia. Erano quasi le sei, perciò aveva meno di due ore a disposizione prima di tornare a casa. Doveva muoversi.

«Sono incantato, signore, ma ora devo andare sul serio. È stato un piacere» si congedò. Il vecchio borbottò un assenso e riprese a cantare, con la sua voce fastidiosamente gracchiante. Senza sapere perché, mentre si allontanava da lui Neil ebbe la curiosa e sgradevole sensazione che il ruolo di Arun nella sua vita non fosse affatto terminato.

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