10. Venti
L'aria della notte gli riempì i polmoni, limpida e fresca. La strada era deserta: non v'era l'ombra di un passante né di un'automobile. La città dormiva immobile e sembrava che il tempo si fosse fermato, avvolto dalla cupola del suo cielo nero.
Dalla finestra, Neil scrutava l'altissima palazzina gialla davanti a casa sua. Il manifesto pubblicitario era sempre là, con la sua ragazza sorridente e i suoi slogan snervanti. L'immagine della pillola brillava più forte che mai, spiccando nella notte.
A un primo sguardo, Neil non vi badò; quando però quella luce prese a pulsare e a crescere sempre più, fino a espandersi per metri, il ragazzo spalancò la bocca, stupito. Presto dovette strizzare gli occhi per distinguere qualcosa in quel bagliore accecante.
C'erano delle persone, accanto al manifesto: anche loro emanavano una strana luce e sembravano essere uscite dal nulla. Neil si sporse dalla finestra, incredulo. Le persone si moltiplicavano a vista d'occhio: uomini, donne e bambini, tutti luminosi, tutti sorridenti.
Neil inorridì quando si accorse che lo stavano guardando e che gli parlavano, anche se non riusciva a sentirli. Tutto era avvolto da un silenzio ovattato e innaturale, come se ci fosse una spessa lastra di vetro a dividerlo da loro.
A un tratto la ragazza nel manifesto si mosse. Prese vita con movimenti lenti e sensuali, i capelli le fluttuarono morbidi sulle spalle e il suo corpo di carta acquisì forza e spessore. Con grazia felina, la giovane uscì dal cartellone e si fermò proprio sotto la finestra di Neil. Alzò lo sguardo su di lui e gli sorrise. Era davvero bellissima: brillava in quel vestito bianco dalla gonna ampia che le lasciava scoperti i piedi scalzi. Allungò le mani verso di lui, sinuosa.
«Vieni con noi, Neil.»
A quel richiamo, lo strano popolo luminoso sembrò destarsi all'improvviso e circondò la ragazza con movimenti armoniosi, i corpi leggeri come quelli dei ballerini. Neil si irrigidì.
«Vieni con noi. Tu meriti la gioia, meriti la vita. Chi non ha mai conosciuto la felicità non può capire. Sii uno di noi, e non vorrai più andartene.»
Neil fece per voltarsi, ma non ci riuscì. Sembrava paralizzato, i suoi piedi erano incollati al pavimento e le mani al davanzale della finestra. Urlò spaventato, mentre la folla sotto di lui continuava la sua cantilena inquietante.
La ragazza sorrise. «Non temere la felicità. Non temere l'amore.»
Neil si sentì trasportare verso il basso. Provò a resistere, provò a voltarsi e a tornare indietro, ma il corpo non gli rispondeva. Si ritrovò appollaiato sul davanzale della finestra, a un passo dal saltare giù, mentre lo sguardo della ragazza lo attirava come una calamita. Gridò con tutto il fiato che aveva in gola, ma non poteva scappare.
Precipitava.
«No!» urlò Neil, divincolandosi tra le coperte. Scattò a sedere, il respiro affannoso e il cuore che non voleva saperne di calmarsi.
Aguzzò lo sguardo e mise a fuoco la sua camera, le sbarre metalliche del letto a castello, i muri macchiati dalla muffa e la piccola scrivania disordinata.
Balzò in piedi e corse alla finestra. La spalancò. I lampioni gettavano una luce arancione sulle strade desolate, le auto parcheggiate e i muri della palazzina gialla, su cui il manifesto giaceva innocuo. La ragazza bionda sorrideva incorporea, nei suoi limiti dettati dalla carta, e la pillola era opaca e spenta.
Era al sicuro. Era stato un sogno.
Neil sedette alla scrivania, nella penombra della camera, in attesa che il respiro gli tornasse regolare. Non aveva mai avuto un incubo vivido come quello e si sentiva terribilmente irrequieto.
Non riusciva a star fermo. Si alzò, camminò fino alla cucina incerto sul da farsi e guardò l'orologio appeso alla parete: segnava le cinque e trentadue. Ancora tre minuti e avrebbe compiuto vent'anni.
Neil tornò in camera, rabbrividendo dal freddo. Cercò a tastoni una felpa e quando ne trovò una se la infilò e ficcò le mani gelide nelle tasche. Le sue dita si imbatterono in qualcosa di duro. Il pacchetto che gli aveva dato Arun.
Se lo rigirò tra le mani, incerto. Poi tornò in cucina e accese la luce. Sedette su una sedia sbilenca e cominciò a scartarlo. In fondo, quale momento avrebbe potuto essere migliore dell'ora esatta in cui era nato?
La carta rivelò un vecchio orologio da polso. Le lancette non sembravano dare segni di vita e il vetro del quadrante era incrinato. Neil lo avvicinò al viso per osservarlo da vicino, sperando di scoprire uno scomparto nascosto, un piccolo vano segreto o qualcosa di simile, ma nulla lasciava pensare che quell'oggetto avesse qualcosa di speciale.
Nonostante fosse un rottame, Neil non ne restò deluso. Non aveva alcuna aspettativa su quel regalo: sapeva che sarebbe stato qualcosa di strano almeno quanto Arun.
Un rumore attutito di passi. Assonnata e con gli occhi strizzati per la luce, Leda fece capolino dalla porta della cucina.
«Che ci fai già in piedi?» chiese a Neil, la voce impastata dal sonno.
«Ho avuto un incubo.»
«Ah, mi dispiace.»
Sua madre gli si avvicinò, sorridendo. «Buon compleanno, tesoro!» gli disse in un abbraccio che Neil ricambiò.
«Grazie, mamma.»
Lei si avviò ai fornelli per fare un caffè. «Quello cos'è?» chiese, indicando l'orologio che giaceva sul tavolo. Neil lo raccolse e se lo appoggiò sul palmo.
«Un regalo di Arun. È rotto, credo.»
La madre ridacchiò. «Quel vecchio è matto, ma almeno è gentile.»
La mattinata trascorse in fretta. Leda uscì alle sette per andare al lavoro e Neil si godette un po' di solitudine. Preparò il pranzo, stese il bucato e riuscì finalmente a sistemare la sua camera, che da giorni era sommersa da vestiti, cartacce e pile di biancheria da mettere a posto.
Sul materasso inferiore del letto a castello, quello con la rete sfondata, v'era uno strato di felpe, magliette, jeans e calzini mescolati tra loro. Sembrava il banco di un mercato. Neil cominciò a pescare indumenti dal mucchio per piegarli e metterli a posto, e a un tratto si ritrovò tra le mani la vestaglia viola di sua madre.
Gli venne da ridere. Solo un paio di sere prima, Leda aveva vagato per casa come un'anima in pena alla ricerca della vestaglia perduta, e lui le aveva detto più volte che no, non l'aveva proprio vista e di certo non c'entrava nulla con quella strana sparizione.
Chissà come aveva fatto a finire là in mezzo.
Entrò in camera di sua madre e la appoggiò sul letto. Quando la vestaglia cadde sulle lenzuola, Neil udì uno strano suono di carta. Scostò il lenzuolo di sopra, curioso; ancora nascosto per metà dal cuscino, un foglio sgualcito giaceva di traverso sul letto. Poche righe scritte a penna. La calligrafia di sua madre.
Neil lo sfilò con delicatezza per non strapparlo.
Mi sembra impossibile che tu abbia già vent'anni. Forse non sono riuscita a darti la felicità che meriti, ma sappi, figlio mio, che ho fatto tutto ciò che potevo per te.
Ho sempre paura che non sia abbastanza. Ho paura di non essere stata una buona madre. Ho sempre anteposto le mie convinzioni davanti a tutto, e questo ha reso la vita difficile a entrambi. A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se non fossi stata così testarda, se avessi scelto un'altra strada, ma in fin dei conti forse è meglio così.
Mi spiace solo non essere mai riuscita a dirti che tuo padre
Neil sobbalzò, il cuore in gola.
Voltò il foglio, ma era vuoto. Cercò tra le lenzuola, per terra, sul comodino, ma niente, non c'era più niente.
«No... no!»
Una penna rotolò sul pavimento quando Neil spostò i cuscini, ma nessun altro foglio sbucò fuori.
«Mio padre... mio padre cosa?»
Una frase sospesa. Sua madre doveva essersi addormentata prima di finirla.
Neil trattenne l'impulso di prendere a pugni il muro. Per tutta la vita aveva aspettato di saperne qualcosa di più, su suo padre, e ora che ne aveva avuto la possibilità gli sembrava d'esser vittima di uno scherzo crudele.
Neanche sapeva che sua madre scrivesse. Chissà se c'erano altri fogli come quello, in giro per casa.
Animato da una strana foga, Neil rimise tutto a posto e trascorse l'ora successiva a setacciare tutti i taccuini e i vecchi quaderni che trovò nell'appartamento, ma senza risultati.
Sospirò. Gli sarebbe piaciuto, nel giorno del suo compleanno, sciogliere quel mistero che lo accompagnava da una vita. Sua madre non aveva mai voluto dirgli nulla su suo padre, nonostante negli anni Neil l'avesse tartassata di domande. Le risposte, però, erano sempre le stesse, e non gli bastavano. Neil non conosceva neanche il suo nome: per lui, suo padre non era altro che una figura sfocata, senza volto e senza identità. Un vuoto che non poteva colmarsi.
Dato che non poteva accontentarsi delle poche informazioni che aveva, Neil a volte passava ore a fare congetture con Anandria, immaginando suo padre, il suo carattere, la sua voce, il suo viso. Di una cosa i due erano certi: Neil doveva aver preso da lui quel suo naso così inopportuno. Quello di Leda era praticamente perfetto.
Quando qualcuno bussò alla porta, Neil sobbalzò. Corse ad aprire, confuso, e si ritrovò davanti sua madre, sorridente, tra le mani una scatola con il logo della pasticceria.
«Sorpresa!»
«Mamma! Ma che ci fai qui? Sono appena le due!»
Leda sgattaiolò dentro. «Ho chiesto il pomeriggio libero. Volevo stare con te, oggi.»
Neil la seguì in cucina. «Non dovevi» le disse, accennando alla torta.
«Oh, taci! Oggi sarà l'unica volta che compirai vent'anni!»
Mangiarono la torta dopo pranzo, nei piattini di vetro che si usavano solo nelle occasioni speciali. Sua madre non faceva altro che sorridere, radiosa come Neil l'aveva vista poche altre volte. Presto finì a rievocare vecchi episodi che avevano vissuto insieme, come quando Neil, da bambino, aveva costruito per lei una borsa di scotch e fogli di giornale ed era rimasto molto male quando lei non l'aveva indossata per uscire; o quella volta che Leda era inciampata in strada e le si era gonfiata una caviglia, e lui aveva dovuto litigare con il proprietario di un ristorante vicino per farsi dare un po' di ghiaccio.
Neil rise di cuore con lei. Avrebbe voluto chiederle qualcosa sul foglio che aveva trovato, avrebbe voluto avere una risposta, ma decise che non voleva rovinare quel momento. Non gli sembrava neanche più così importante. Era felice, in fondo: non gli mancava nulla. Loro due erano una famiglia in tutto e per tutto, e lui non aveva bisogno di nient'altro. Se sua madre non gli aveva mai parlato di suo padre, doveva esserci un motivo valido e lui avrebbe atteso fino a che gli sarebbe stato possibile.
Alle quattro arrivò la telefonata di Anandria, dispiaciuta per non essere riuscita a fargli gli auguri di persona, e Neil fu lieto che l'amica fosse riuscita a trovare due minuti per lui.
Mentre ripuliva il suo piattino dalle briciole, Neil adocchiò i titoli delle notizie sul giornale che sua madre aveva sfilato dalla borsa e che ora giaceva abbandonato su una sedia. In prima pagina spiccava la grossa foto di un incidente stradale.
«Hai visto, mamma? "Grave incidente coinvolge sei Pazienti, un Insano colpevole. Il governo si muove per la revoca del diritto alla guida degli Insani"» lesse ad alta voce.
«Sì, ho visto. Poco male, tanto io e te la patente non ce l'abbiamo.»
«No, non si tratta di questo... non possono togliere i diritti agli Insani!»
Leda si avvicinò al figlio e scorse brevemente l'articolo. «Mmh, dunque» ricapitolò, «quattro Pazienti ricoverati d'urgenza, altri due morti sul colpo. La colpa è di un Insano che ha perso il controllo del mezzo a causa di un colpo di sonno. I familiari dei Pazienti coinvolti nell'incidente protestano contro gli Insani, eccetera eccetera. Ah, eccolo qui: "Siamo stanchi di essere vittime dell'egoismo degli Insani. Chi ha scelto di soffrire non dovrebbe nuocere a coloro che invece hanno fatto la scelta giusta. È inaccettabile che oggi questo avvenga ancora, e non è una questione di poco conto: ci sono in mezzo delle vite. Ci auguriamo di risolvere al più presto questa spiacevole situazione o almeno di limitare i danni, escludendo gli Insani da alcuni diritti come quello alla guida". L'ha detto un magistrato. La cosa non è per niente rassicurante.»
«No che non lo è! Se cominciano a toglierci i diritti, arriveranno a perseguitarci!» sbottò Neil.
«Sta' tranquillo, tesoro. Parlano, parlano a vanvera, ma alla fine non fanno mai nulla. Da quando ero bambina sento i discorsi dei Pazienti e le loro lamentele su di noi, ma non è mai cambiato niente, te lo assicuro» fece Leda pensierosa.
Neil si morse un labbro. Non aveva mai vissuto un momento davvero sereno in vita sua, sempre impegnato a ignorare il disprezzo che i Pazienti nutrivano per quelli come lui, sempre inquieto e stretto nella feroce morsa della sua diversità. Ma per tenersela stretta, quella diversità, lui e sua madre avevano lottato: non era giusto che i loro diritti venissero minacciati così. Insomma, i Pazienti non potevano fare sul serio!
Sua madre si accorse che qualcosa non andava. Prese il volto di Neil tra le mani, sorridendogli stancamente. «Rilassati. Vedrai che andrà tutto bene e saremo al sicuro, finché staremo insieme. Per me nulla è più importante che vederti felice.»
Poi l'abbracciò con forza e Neil ricambiò, tuffando la faccia tra i capelli corvini della madre. Qualcosa dentro di lui si sciolse: non era solo, non lo era mai stato.
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