5. Noi siamo qui per proteggerti
NOI SIAMO QUI PER PROTEGGERTI
Assieme al nuovo anno scolastico cominciarono anche i corsi di motocross. Io e Alberto ci eravamo iscritti al corso di base annuo, la categoria inferiore per eccellenza. A farci compagnia, bambini totalmente inesperti dai nove anni ai tredici. Questo non era totalmente una delusione, non eravamo ovviamente allo stesso livello dei bambini più piccoli, ma era quasi patetico gareggiare con loro. Ogni tanto Alberto riusciva a farsi battere e spaventarsi come loro per le cadute più insignificanti. Ma proprio perché eravamo fra i più grandi c'era da sentirsi i migliori, però anche tredicenni partecipavano e questa non era che una sfida per me. Dovevo essere più forte di loro. Era una questione di soddisfazione personale, di sfida al limite. Perché mai avrei dovuto valer meno di un tredicenne prossimo alla categoria più avanzata? Ormai, fra pochi mesi avrei compiuto dodici anni e solo un anno dopo anche noi due avremmo fatto il salto di categoria.
Guardai Alberto andare a piedi ad esaminare tutta la pista prima di cominciare, si piazzava davanti alle minuscole dune e ne misurava la pericolosità con lo sguardo. Io lo raggiunsi in minimoto e le saltai, neppure un brivido di paura ma un'immensa voglia di correre ancora e più veloce mi pervase. Mi fermai lì accanto e gli dissi: «Su! È bassa!».
«Sì, vedo», mi assicurò, impacciato.
«I bambini lì non hanno paura. Tranne due».
«Sì ma sono piccoli, non conoscono pericoli».
«Sei tu l'unico pericolo per te, in questo sport. Se la tua moto sta bene».
«Spero per entrambi, allora», ammise guardando da lontano la sua moto.
«Non ho voglia di invogliarti a battere dei bambini», gli dissi. «Ma non ho intenzione di vederti ancora perdere».
«Sì, neanche io».
Irritato dalla sua aria di sottomissione mi feci un giro e sostai ai cancelletti prima della gara improvvisata dagli allenatori.
Un bambino dal carattere forte ma insopportabile si faceva beffe di Alberto il quale non si sapeva difendere nemmeno oralmente. Percepii Alberto partire perfino in ritardo rispetto a noi. Ma cosa non andava in quel ragazzo? Corsi più forte che potevo, ridendo per la velocità e feci un giro in più, seguendo la massa di ritardatari, poi un altro e mi fermai solo quando tutti furono all'arrivo. I bambini giocavano e gridavano convinti che io fossi l'ultimo ma non mi dava un gran fastidio. Alberto invece insisteva: «Ma non lo avete visto? Quanti giri ha fatto? Non sapete neanche contare! Eh? Non sai contare! Sì, tu! Non sono arrivato ultimo! Ma no! Che dite... siete tutti pazzi qui ...».
Guardai il cielo e soffiai, «Alberto», lo richiamai.
«Sì?».
«Lasciali fare, non ci perdi niente».
«Ma dicono che sei ultimo!».
«Se non lo sanno chi è arrivato per primo è un problema loro».
«Ma non si fa così...», continuò lamentoso, sconfitto.
Soffiai ancora, «Vuoi vedere chi comanda le creature, qui?».
Mi guardò incuriosito e misi in moto girando casualmente per il campo, come mi pareva. L'istruttore non era molto preoccupato, sapeva che io facevo bene, ma i bambini incominciarono un po' alla volta a seguirmi finché Alberto non se ne rimase coi più timidi fermo là. L'istruttore assieme al suo compagno impazzì e corse subito dietro ai bambini che continuavano a girare a caso, senza regole, mentre io me ne ero già tornato ad ammirare la scena con Alberto, me la risi. «Guardarli! Sembrano delle gallinelle».
Lui rise un po', «Sì. Così sono meno fastidiosi».
«Lo sai perché anche quei tredicenni che corrono là con loro sembrano più deboli di noi, adesso?».
Mi guardò perplesso, «Deboli?».
«Se avessero voluto correre in pista avrebbero dovuto aspettare uno più intraprendente e coraggioso per poter poi buttarsi. Se invece non lo avessero voluto... sono cascati nell'imitazione o in una sfida non lanciata».
«Ma quanti giri mentali ti fai, Tom!».
Risi ancora, guardando i polli colorati correre per il campo, mi sentivo superiore, era come correre con il vento.
Alberto scosse la testa notando il delirio nel mio sguardo e guardò la scena aspettando che tutto si risistemasse. Così iniziai ad amare il caos ed il caos ad amare me, io sapevo crearlo, dominarlo e in cambio esso mi donava un certo spasso.
«Che verifica avevi oggi?», domandai un giorno ad Alberto, all'intervallo.
«Ah, mi interroga in matematica...».
«Hai studiato?».
«No! Sì... quasi!», e parve quasi iniziare a lamentarsi.
«Senti, se l'interrogazione saltasse?».
E sorrise al mio sguardo vispo, poi guardò l'accendino che gli mostrai e che nascosi nuovamente nelle mie tasche, «Vai a prendere un foglio in classe, faccio partire l'allarme».
«Adesso?».
«Ma no! Appena suona!».
«E perché devo prenderla io la carta? Cosa c'entro?».
«Hai paura? Non ci beccheranno! Non siamo mica stupidi».
«Ma lo fai per farmi saltare l'interrogazione?».
«Sarebbe il pretesto».
«E per cosa lo fai?».
«Muoverei l'intera scuola! Io da solo! Con un accendino nella mano... voglio provarlo!».
«Mi sembri quasi esaltato. Ma se la cosa ti dovesse sfuggire di mano? Se la scuola prendesse fuoco veramente?».
«Ma no! Voglio provare a comandare io adesso, una sola volta. Il fumo farà tutto il lavoro. Non ci sarà nessuna fiamma reale».
«Io non c'entro...», disse preoccupato. «Non sono d'accordo».
«Come?».
«Non... mi va», e andò via. «Gioca da solo».
«Lo farò», risposi, al corridoio ormai vuoto e mi arrangiai da solo.
In questo modo Alberto saltò l'interrogazione e io mi sentii un mago delle folle. Dopo qualche altro giorno di falsi incedi, nei mesi successivi, cominciai a non provare più la stessa attrazione per il movimento delle masse provocato dal mio volere, ormai sapevo di poterlo fare, ma senza alcun senso non mi restituiva più alcun gran piacere. Nel frattempo Alberto incominciò a diventare più ambizioso, sognava già di vincere dei campionati di motocross ma non aveva mai vinto una gara normale. Io invece stavo in testa alle classifiche, in cerca di un senso a quel gioco e a quelle sue regole. Il motocross era ormai una distrazione minore, ritornai sul sentiero dello spirituale e del paranormale. Una sera fui di ritorno vincente dall'ennesima gara, sapevo che il giorno dopo mi avrebbero acclamato a scuola e mi chiedevo già se Alberto si sarebbe eclissato alle mie spalle, come al solito. Quando sarebbe diventato forte, quel ragazzo? Tutti i ragazzi avevano qualcosa di eroico nell'aspetto quando si apprestavano a salire sulla loro moto, persino i tratti di Alberto sembravano più forti, affascinanti e decisi quando stava per montare alla carica sulla sua moto, ma il solo fatto che dietro quel casco ci fosse lui declassava quasi totalmente la sua posizione e tutto il fascino si concentrava attorno a me. Non mi dispiaceva il fascino, ma non mi appassionavano le attenzioni, iniziavo ad essere una figura di spicco, limitato nelle regole di un gioco, iniziavo a confondere la passione con le regole del gioco stesso. La mia passione era la velocità, non rispettare quattro punti che altri avevano dettato. Così incominciai a pensare di lasciare l'ambiente delle gare e allenarmi da solo, dove io e la mia passione avremmo potuto vivere senza compromessi.
Tornando a casa con Alberto, dopo aver giocato intorno casa una sera, s'accorse di qualcosa di strano, nel cielo. Puntò il dito su una stella che si faceva sempre più grande come avvicinandosi a noi. Rimase a fissarla, affascinato, confuso. Alle nostre spalle s'espanse un lampo di luce che però lui non notò e un forte vento ci invase all'improvviso, guardai nuovamente in direzione della stella misteriosa ma era scomparsa.
Lui mi guardò confuso e io non aggiunsi niente, non avevo niente da aggiungere, ne sapevo meno di lui. L'evento non mi spaventò, decisi di tornare in quel punto, quella stessa sera, prima di andare a letto e una sfera arancione si piazzò in cielo a vorticare intorno alla mia posizione. Nonostante l'immensa quiete che l'atmosfera mi concedeva, iniziavo a lasciarmi spaventare dalla luce anomala, poi emersero dal bosco come delle ombre che si lanciarono in direzione di essa e a quel punto indietreggiai tornando in casa. La scena era talmente anomala che non capivo nemmeno se fosse vera, valeva la pena di spaventarsi per una luce qualsiasi e qualche effetto ottico casuale scatenatosi nel buio?
Forse sì. Non mi era dato sapere. Chiusi la porta a chiave per sicurezza e andai a rifugiarmi sotto alle coperte, però del tempo dopo mi scivolarono giù e mi paralizzai dai brividi, dal terrore.
«Sono tornato», disse Mattia e mi guardò, incuriosito. «Da cosa ti nascondi?».
«Cos'erano quelle luci?».
Rimase un po' zitto ma poi mi spiegò: «Loro ti stanno cercando. Noi siamo qui per proteggerti».
«Non mi hanno attaccato», risposi, tremante.
«Non lo faranno. Siamo qui per proteggerti. Ti stiamo proteggendo».
«Con chi sei? Chi siete?».
«Ti diremo tutto, Thomas».
«Chi erano loro? Cos'erano le luci di oggi?».
«Loro vogliono rapirti», mi disse. «Portarti via da qui. Ti mentiranno, ti useranno».
«E voi? Chi siete? Perché devo crederti? Chi sei?».
Scosse la testa, «Sei un bambino cattivo, così tante domande».
Mi spaventai. Potevo averlo irritato? Era mio nemico? Chi poteva essere nemico della verità se non qualcuno con qualcosa da nascondere?
«Io servo ad aiutarti», rispose, come se avesse udito i miei pensieri. «Noi siamo amici, ti riveleremo tutto quanto».
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SPAZIO AUTRICE
FUORI LE TEORIE, dai, lo so che le avete ... chi è Mattia? Un alieno? Un sogno? Un fantasma? Un ologramma? Un angelo? è buono? è cattivo? Qualcuno sta realmente proteggendo Thomas? Perché nessuno rivela niente a Thomas?
Vi lascio il link del mio sito così potrete vedere tutte le immagini della storia
http://alessialorenzi.wixsite.com/alelartist/il-pianeta-dell-inganno
Aggiornamento del 5/10/2017 : Sto dividendo alcuni capitoli per facilitarvi la lettura, i commenti precedenti probabilmente risulteranno sballati :P
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