5/2. Dove siete?
Mi risvegliai il mattino dopo, deciso di voler scoprirne di più. Decisi di andare a Calà dopo scuola. Una creatura di ferro, silente, mi seguiva tra gli alberi accompagnando i miei passi in salita, osservandomi, pacificamente. Giunto in cima alla scalinata di Calà la creatura si mostrò a me, perfettamente. Era una piccola navicella, s'adagiò a terra e un poco eccitato rimasi in attesa di vedere qualcuno smontarvi, ma nessuno scese mai, le luci della navicella incominciarono a preoccuparmi, fisse su di me, come un carceriere, non come un genitore attento.
"Dove siete?", domandò una voce, attraversando le mie orecchie.
Mi guardai attorno, non c'era nessuno. Di chi era la voce?
Tre oggetti lucenti comparvero nel mezzo del cielo e s'avvicinarono alla navicella nel tentativo forse di circondarla. Io corsi a ripararmi dietro un albero mentre un suono metallico sottile incominciava a tremare nell'aria accompagnato da luci anomale. La navicella amica rimase intrappolata come in un campo d'energia invisibile fra i due oggetti, un terzo si sganciò dalla formazione e fluttuò aggraziato verso di me. Poi suoni di elicotteri, qualcuno giungeva a salvarmi. Ma che fine avrebbe fatto? Degli aerei militari giunsero rapidissimi facendo un gran rumore. Poi un botto, alle spalle della creatura che tentava di raggiungermi. La navicella amica scosse con un'invisibile forza le navicelle vicine e crollarono tutte e due a terra, assieme ad essa. Gli aerei che giunsero sganciarono piccoli droni che rotearono intorno all'essere luminoso nemico e questo svanì. Confuso, rimasi ad osservare, poi decisi di cambiare silenziosamente postazione per non farmi ritrovare da quelli che forse erano amici ma che potevano non esserlo, strisciai sotto dei cespugli e mi nascosi fra i rami fitti e pungenti, ferito di graffi in faccia e sulle mani. Mi risvegliai in camera, era ancora giorno. Andai alla finestra: «Ma cos'è successo?».
Forse l'enigma di Calà iniziava a risolversi. Forse sapevo cosa c'era a Calà. Erano alieni. Potevano esser altro? Ero sicuro. Questo era successo.
Mi precipitai di corsa alla porta per andare a Calà ma mia mamma mi chiese subito: «Dove stai andando?».
«Nel bosco! Ho lasciato lì... delle cose!».
Raggiunse l'entrata dove io stavo e chiese preoccupata: «Cosa sono quelli che hai sulla faccia? Sono graffi?».
«Sì... sono inciampato su un cespuglio, oggi. Stavo giocando col cane», mentii.
«Ah, hai portato a passeggio Sport?».
«Sì, era da tanto che non lo facevo».
«Infatti! Come mai ti è venuta questa voglia?», domandò, colpita.
«Mamma non ho tempo... devo andare a cercare le mie cose prima che piova! Si rovineranno!».
«Vai, vai pure...».
Questa volta presi uno zaino, ci misi una fotocamera, del cibo, dell'acqua e partii. Andai di corsa per non fare tardi ma risalire Calà fu estremamente faticoso. Non potei nemmeno giungere in cima perché dei militari avevano proibito l'accesso alla zona.
«Perché non posso passare?», mi lamentai, insistentemente. «Il mio cane è lì! Devo andarlo a prendere!».
«L'accesso è vietato», insistette l'uomo in divisa, a guardia della zona con altri dei loro.
«E perché è vietato proprio oggi?».
«Sono informazioni riservate».
«Avanti! Io ho visto le luci. So benissimo che è caduto qualcosa dal cielo! Le hanno viste tutti in paese!», mentii.
«Sì», rispose l'uomo. «Hai visto bene, abbiamo già rilasciato delle interviste».
«E cosa avete detto nelle interviste?».
«Oggi pomeriggio dei nostri prototipi aerei sono atterrati. Li stiamo disattivando e raccogliendo i dati, vai a rassicurare i tuoi amici e non insistere».
L'impazienza mi arse, c'era un solo modo per saperne di più. Rischiare.
«Io c'ero», dissi. «Fatemi passare, non avete niente da nascondermi!».
L'uomo guardò confuso dei suoi compagni, parlarono fra loro e mi disse: «L'esperimento è pericoloso, potresti farti del male. Torna a casa, non inventare altro per passare!».
Allora dissi ad alta voce: «Io c'ero! Fatemi passare!».
L'uomo mi afferrò un braccio e mi spinse via minaccioso, «Vattene, ragazzino!».
Dovevo andare oltre. C'erano i miei amici lì dietro, erano alieni, loro mi avevano protetto. Avrei scoperto altro. Non ero mai stato così vicino alla verità come ora. Avrei lottato per rivederla.
Ma era evidente, quelli lì di guardia non avevano idea di cosa ci fosse alle loro spalle altrimenti si sarebbero allarmati a sapere che io conoscevo il loro segreto, erano stati ingannati.
«Sono già stato qui! Mio padre è lì dentro! Ho il permesso per venire! Fatemi parlare con qualcuno di più competente!», sbraitai.
«Non abbiamo tempo per un ragazzino così fastidioso».
«Thomas Manero», disse qualcuno.
Io guardai sbalordito un'agente giungere verso di me.
«Vedi? Mi conoscono!», dissi all'uomo e raggiunsi l'agente. «Sono io!».
Mi guardò bene e disse, «Di qua. Seguimi, ragazzino».
Guardai le armi che tutti tenevano con sé e preoccupato camminai al suo fianco.
«Perquisitelo», disse ad altri che mi controllarono tutto, aprirono lo zaino e lo svuotarono, controllando ogni cosa. Mentre controllavano le mie cose, l'agente mi portò per un'altra direzione dentro delle tende bagnate dalla pioggia che incominciava a cadere su di noi.
«Dove mi sta portando?», domandai, preoccupato.
«Siedi», disse, aprendo la tenda.
Guardai la sedia libera posta con le altre occupate attorno ad un tavolo pieghevole. Mi sedetti timidamente ma mantenni lo sguardo duro e sicuro, non avrei mostrato debolezza, non sarebbe servito a niente mostrarla, forse sarebbe stato addirittura sconveniente.
«Cos'è questo bambino?», domandò con riluttanza uno degli uomini che stavano seduti al tavolo. Una donna anch'ella in divisa disse: «Questo è uno scherzo, agente?».
«Ho ricevuto istruzioni da Prometeo stesso».
Prometeo? Mitologia greca? Cosa c'entrava con la mia situazione?
«Prometeo?», fece eco la donna, sorpresa.
Nella tenda eravamo in cinque, l'agente, tre uomini e una donna. Io ero solo.
«Controllate voi stessi. Thomas Manero, Terra-Noàn 147».
La donna assieme ad uno degli uomini guardò dei dati sul proprio tablet e mi guardò dritto negli occhi.
Rimasi zitto, ripetendo solo in me stesso le domande che mi assalivano.
«Nòan 147», concordò lei. «Sì... è uno di loro».
Uno di loro. Ma di chi? La voglia di sapere divampò. Bruciò come rabbia un immenso desiderio. Io dovevo sapere altro.
«Mh! Tu verrai con noi fra un bel po', ancora», commentò un uomo che fin ora non aveva ancora parlato, fumandosi una sigaretta lontano dal gruppo. «Cosa ordina Prometeo?».
Con noi? Fra quanto? Perché? Era minaccioso? Era una minaccia, quella? Cosa volevano da me?
Chi ero?
«Vogliono che lo lasciamo abituarsi», rispose l'agente che mi aveva portato lì.
Quindi Prometeo non era una persona. Era come minimo un gruppo. Era un'organizzazione, forse.
«Che sia libero di vedere ciò di cui ha bisogno», continuò.
«Cosa potrà mai fare un ragazzino così piccolo?», concordò l'altro uomo. «Senza telecamere, senza microfoni. Nessuno mai ti crederebbe. Tutto ciò che vedi qui, per questo mondo, Thomas, non esiste».
Annuii, muto.
Appena mi fu possibile andai a cercare le creature di metallo e luce cadute, in mezzo alle strutture e alle tende. Ma non trovai niente. Avevo fatto tardi, ripresi lo zaino e degli uomini mi accompagnarono fuori senza dire una parola. Ritornai verso casa, silenzioso.
Confuso.
Nòan 147. Poteva essere un nome in codice? Il mio nome? Io facevo parte di qualcosa, ma di che cosa? I segreti si infittivano ma chiarivano sempre di più. Ero pronto a capire altro. Continuai le ricerche, su di me, sul mondo, dentro i libri, attraverso la natura, la fisica, la filosofia. Provai poi a fissare gli eventi non solo nella memoria, ma anche nel mondo fisico, non fatto di ricordi ma di cose, di fatti. Avrei fotografato qualcosa di anomalo, avrei provato l'esistenza di tutto questo. Avrei documentato ogni cosa.
Mi capitò addirittura di conoscere decine di persone convinte di essere adotti ma si perdevano palesemente in sciocchezze comuni di disinformati e disagiati tipi di individui. Forse le loro magiche credenze li univano, permettendo loro di stringere amicizie profonde e sopportare la durezza del mondo. Ma io non mi limitavo ai sogni vividi, alle paralisi notturne, alle forti sensazioni, agli avvistamenti di fenomeni astronomici poco comuni ma normali, io li avevo visti... avevo visto coi miei occhi le loro navicelle e da troppo vicino.
Anche in questo caso io ero superiore ad un'altra categoria umana.
Anche in questo caso ero diverso.
Forse...
... ero anche solo.
Guardai Sport che si grattava noncurante all'angolo di una stanza. Ripensai a Mattia, cacciato dal potere incontrastabile delle verità troppo grandi e inaccessibili, troppo forti, sconvolgenti, destabilizzanti.
Ripensai ad Alberto e non saper cosa pensare di lui, paradossalmente, mi diede sicurezza, o per lo meno, speranza. Non sapevo se avrei mai raccontato tutto questo ad Alberto ma incominciai a pensare che se gli eventi si sarebbero incastrati perfettamente fra di loro, come ingranaggi dell'esistenza, allora sarebbero diventati reali, non potevano che andare avanti. Non era la storia del fato o del caso, quella in cui credevo, ma dell'armonia fisica delle cose, persino degli eventi.
E tutto ciò che mi ricordava
Sarebbe andato come avrebbe dovuto.
Mi colmò d'un indescrivibile sicurezza,
io ero col mondo
intero
e sarei diventato solo ciò
che io sarei dovuto diventare.
Niente sbagli, solo ritardi, manovre immense verso fatti non programmati nemmeno dall'armonia delle cose. Sbagli che mi avrebbero permesso di provare strade diverse, per arrivare sempre a ciò per cui io ero portato.
Ed ero portato per la scoperta.
Per l'unicità.
Ma in che cosa io ero diverso? Perché difendere con forza la mia salute e la mia unicità?
Perché proprio io
Ero unico?
~~~~~spazio autrice~~~~~~
Se vi è piaciuto ditemelo con una stellina! Se avete delle teorie scrivetemele :)
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