2. I suoi fragili occhi verdi
I SUOI FRAGILI OCCHI VERDI
Le foglie giocavano fra di loro, sfiorandosi, agitandosi. Sembrava quasi che gli alberi, sotto a quel caldissimo sole, tentassero di farsi aria da soli, agitando le mani e le foglie ne godevano, socializzando fra di loro. C'era poco da ammettere, intanto l'estate era più calda del solito, sotto al sole cocente e poi le foglie erano molto più brave di me ad integrarsi. Forse perché facevano parte di una stessa chioma. Ma io facevo parte dello stesso paese degli altri bambini, perché io non andavo così bene?
Stavo seduto sotto ad un albero, vicino alla chiesa solitaria e silente dopo la festa della domenica. I bambini, tuttavia, lì erano pochi, giocare a calcio per i maschi era il rito della domenica. I ragazzini poco più grandi si mescolavano fra i bambini con la stessa popolarità delle star fra le persone normali che un po' le adorano e un po' le ammirano. Avrei giocato, ma quando si tratta di gruppi di amicizie consolidate, la faccenda si fa troppo elitaria e non mi sarei finto uno di loro per giocare un po' a pallone. Io ero diverso, non mi sarei cancellato omologandomi a loro per una palla e qualche tiro. I giochi segreti delle foglie erano comunque sani e i comportamenti bizzarri e organizzati delle formiche in terra sarebbero stati molto più interessanti delle chiacchiere inutili dei bambini. Non mi restava che studiarli, come studiavo le formiche e ammirarli, come ammiravo gli orizzonti infiniti o i confini segnati dalle cime degli alberi.
Cosa c'era da scoprire dietro alle loro abitudini, dietro ai loro movimenti? E le maschere? Quante erano già le maschere?
Poi notai qualcosa di particolare che attirò tutta la mia attenzione. Una chioma dorata si nascondeva dal sole, ad un angolo della chiesa. Lo osservai, ancor più curioso. Sembrava più piccolo di me o forse aveva la mia stessa età. Era un bambino, dal viso tondo e pallido. Era una macchia di colori adagiata alla parete come un'imperfezione o un'animale malamente mimetizzato. I suoi occhi sbirciavano da lontano i bambini giocare, ma non me... rimasi fermo a guardarlo.
Lui si alzò, andò ad un altro lato della chiesa per non farsi vedere dal gruppo, i suoi teneri passi controllavano una palla che non esisteva. Io aguzzai lo sguardo per continuare a seguirlo, da lontano. Poi una palla vera finì tra i suoi piedi, lui la inseguì goffamente nella direzione verso cui era balzata via. Raggiunta si voltò a guardare in direzione del gruppo, due bambini, inseguiti da un ragazzo, gli erano già addosso per riprendersi la palla.
«È vostra?», chiese imbarazzato, quel bambino.
«Ma spostati! Lascia la palla!», gli risposero le piccole pesti, più piccole e fastidiose di lui.
«Posso unirmi a voi?», tentò il biondo con una gentilezza che sembrava finta.
«Non sa giocare!», disse subito uno dei bambini e corse al gruppo.
Giunsi anch'io e chiesi al biondino: «Che problemi hai?».
Ma questo si voltò emozionato e andò via impaurito.
Soffiai, «Biondo! Vuoi farlo un tiro o no?».
Il bimbo mi guardò di nascosto.
«E che vuoi? Chi è questo???», si lamentò il ragazzo vicino a noi.
Io gli rubai la palla correndo rapidamente verso la porta e segnai un goal per il biondo.
«Sei forte!», esultò un bambino. «Puoi entrare nella nostra quadra! Noi siamo quelli che vincono!».
«E quello lì biondo non lo fate giocare?».
«Lui non può giocare, non sa tirare! Ci farebbe perdere!».
Guardai la chioma bionda allontanarsi dalla piazza e dissi al presuntuoso: «Siete dei perdenti... Calci come una bambina!».
«Io sono più forte! Vuoi sfidarmi?», s'intromise quello che sembrava suo gemello.
«La mia vittoria su di te non vale una pallina!», risposi.
«Non vuoi sfidarmi! Allora hai già perso!».
Alzai le spalle, indifferente e raggiunsi di corsa il piccolo biondo.
«Non volevi giocare? Perché non lo fai?», gli chiesi.
«Tu non volevi giocare?», domandò lui.
«Non con loro».
«Nemmeno io!».
Sorrisi, qualcuno iniziava a capirmi. «Perché ti nascondi?».
«Io non mi nascondo».
«Non avevi il coraggio di parlare con quei bambini? Ti manca la forza? Il coraggio è anche la forza».
«Ma loro sono più di me e sono anche più bravi. Io li rallenterei».
«Credi a tutto, di solito?».
«No!».
«Ma a quelli lì ci credi».
«Hanno ragione, io non so tirare».
«Quanto giochi a calcio?».
«Non quanto loro...».
«Non mi lamenterei allora, se vuoi essere più bravo devi giocare di più...».
«Tu sei da solo? Quando arrivano i tuoi genitori?».
«Mia nonna è qui in patronato, i tuoi?», gli risposi.
«Anche loro sono in patronato».
Guardai i suoi brillanti e fragili occhi verdi, cercando di capire il suo animo sfuggente.
«Tu hai mai sentito parlare di quella famiglia che vedeva i fantasmi?», domandò camminando.
Io gli rimasi affianco, incuriosito, «Sì», risposi.
«Il figlio di quella coppia veniva alla nostra scuola, forse l'ho visto una volta! Mi hanno raccontato, quelli che stavano in classe con lui, che quando è venuto un temporale è proprio impazzito! Non capiva cosa succedesse».
«Gli era successo qualcosa», lo giustificai.
«Cosa?».
«Come tu hai paura di farti valere, lui aveva le sue paure!».
«E tu hai paure?».
«No», risposi secco. «Comunque c'ero, quel giorno...».
«E tu cosa hai fatto?».
«Niente. Non lo so perché si sia comportato così. Ma qualcosa gli è successo».
«Tu credi alle loro storie? Esistono davvero i fantasmi?».
«Se esistono sono affari loro», risposi. Dovevo portare il discorso per altre strade o lasciarlo cadere nel silenzio subito... era una strada troppo tortuosa, quella del mistero, non l'avrei ripercorsa, era troppo per me. Probabilmente non volevo nemmeno provare a capire qualcosa che poteva essere peggiore di come me l'aspettavo...
Lui rise, «I miei genitori dicono che non ci sono se vai a letto presto».
«Non ho mai sentito questa cosa». Poi tirai un calcio a un ramoscello secco facendolo rimbalzare fra i sassi e nascondere tra i fili d'erba, per noia. «E poi quel bambino mi ha detto che i misteri non vivono solo di notte. Se non sa lui, a chi dovremmo credere?».
«Ma quello era pazzo... non gli crederai davvero».
«Se qualcosa di vero c'è, sei tu pazzo e lui solo un vero esperto! Ma tu non puoi saperlo. Nemmeno io. Chi è il pazzo qua? Tutti? Nessuno? Tu?».
«E allora chi può saperlo?».
Guardai il cielo, come se vi fosse una risposta scritta e sospirai, «La verità la fanno le persone... o almeno, la nostra parte di verità. Così mi hanno detto».
«Perché? Quante verità esistono?».
«Beh... Esistono le verità che ci immaginiamo... e le verità che sono così anche senza che nessuno ci pensi».
«E quale è vera?».
«Immagino che dipenda dal tuo sistema di riferimento. Guarda che le cose sono relative già da un secolo. Non sai cos'è la fisica?».
Scosse la testa, «Le scienze...?».
«Beh. Non sarai un genio o un appassionato ma qualcosa la dovresti sapere!».
Abbassò lo sguardo, poi i suoi occhi verdi, fragili, cercarono rapidamente i miei e mi chiese: «Tu conoscevi quel bambino?».
«Sì».
«Lui com'era?».
«Era un bambino, come noi. Aveva paura di troppe cose. Tu? Come ti chiami?».
«Alberto», mi rispose.
«E tu vuoi diventare come lui? Marionetta dei tuoi timori?».
«No, no...».
Lo sottoposi ad uno sguardo indagatore, cercando il timore nei suoi movimenti e nei suoi occhi tenerelli.
«Beh. Ne sei sicuro?», indagai.
«Sì!».
«Allora affronta la tua paura. Impara a giocare a palla se è quello che ti serve. Ma sconfiggi la tua ombra prima che essa diventi te intero!!».
Si guardò l'ombra, spaventato. «Cosa?».
Soffiai, scocciato, «Sei un debole, devi solo affrontarti, adesso». Lo guardai con disprezzo: «A cosa ti serve essere diverso se non sai affermare te stesso?».
«Non lo so», mi rispose. Ma non riuscii a capire se aveva colto veramente il significato delle mie parole.
«Thomas!», mi chiamava mia nonna, cercandomi. «Thomas, dove sei?».
Alzai un braccio, «Sono qui!», le risposi. Poi guardai Alberto, «Io devo tornare a casa».
«Come ti chiami?», chiese lui subito.
«Thomas, non hai sentito? Probabilmente mi ritroverai qui fra una settimana».
«Ma andiamo alla stessa scuola!».
«Ho capito che intendi», dissi, iniziando a camminare lentamente verso mia nonna, «Cercami pure lì, allora».
«Domani in giardino, quando faremo merenda?».
«Può darsi». Lo salutai con la mano e andai via.
«Ci vediamo domani!», insistette.
Mia nonna mi accolse con uno strano sorriso, «Chi è quel bambino?».
«Alberto».
«Quindi hai un nuovo amico? È un tuo amico, quello?», domandò emozionata.
«Uno appena conosciuto».
«Non sarà un altro un po' pazzerello».
«Non è pazzo. È un po' tonto».
«Tonto, dici?», poi tossì una risata e accompagnandomi verso il parcheggio disse: «Rispetto a te, ognuno di quei bambini dovrebbe esserlo».
«Infatti è solo uno fra i tanti».
«Rispetto a te, ho detto io».
«No, tonti e basta. Sono così».
«Thomas, sei un maleducato, chi ti insegna il rispetto?».
«Io rispetto le persone di testa!».
«Tu non sai cosa sia il rispetto! Dov'è l'umiltà?».
«A che ti serve? A esser più servizievole per i più furbi di te?».
«Tu non sei un bravo bambino! La tua mente la devi usare per il bene comune!».
«So cosa sono», risposi.
«Cosa sei?».
Un incompreso, avrei risposto. «Ciò che vedi», mi limitai a dire. Perché sì, la mia capacità di vedere col pensiero andava oltre il contenuto insoddisfacente di qualsiasi parola e oltre alla comprensione delle comuni persone che mi circondavano ... Un tono d'amarezza mi colse e nient'altro.
Nonna a casa raccontò a tutti della nuova amicizia e già fui obbligato a fare in modo di invitarlo a pranzo nelle prossime settimane. Ma se quel biondo non mi sarebbe poi piaciuto, non lo avrei invitato, sicuro. Io stavo bene con me, non con altri a rallentarmi. Ma poteva comunque succedere qualsiasi cosa! Forse mi avrebbe insegnato qualcosa di nuovo, in fondo lo era, qualcosa di nuovo per me.
Il giorno seguente sbirciai un po' per curiosità e un po' per dovere, nel cortile della scuola, ma nessuna testa bionda corrispondeva alla sua. Provai allora a cercare pigramente negli angoli più nascosti, dove un debole come lui non poteva che nascondersi da ogni minaccia maggiore. Ma niente. O forse non c'era, o forse se n'era dimenticato, o forse non era potuto uscire, semplicemente.
Un gruppo di bambine gridò e scappò assumendo espressioni buffissime, diedi un'occhiata al gruppo di bambini che circondavano qualcosa, estremamente catturati dalla situazione. Io mi avvicinai, guardai meglio, mi alzai sulle punte per vedere oltre le spalle dei bambini davanti a me. Una chioma gialla sbucava dietro di essi, ma non riuscivo a vedere chi fosse. Poteva essere il bambino che cercavo, quello? Ma così tanto popolare o interessante, lui? Forse non lo avevo capito, forse lo immaginavo diverso da com'era in realtà. Altri, spaventati, abbandonarono il gruppo e così potei infilarmi al posto loro, guardando la scena. Era un misterioso Alberto che esponeva fieramente l'insetto appena catturato. Una cavalletta gigantesca che terrorizzava le bambine e i bambini meno coraggiosi.
Io guardai l'insetto ingoiando il timore e cercai l'Alberto che non conoscevo, in quegli occhi verdi non più fragili, bensì vispi e vivi. Lui mi riconobbe subito e allungò la mano pericolosamente aperta con la cavalletta verso di me, «Eccone uno che non scapperà!».
Abbozzai un sorriso, un poco fiero, ma indietreggiai di un passo inorridendo per l'insetto e per la mia posizione centrale nello spettacolo... guardai l'insetto pronto a scattarmi addosso e mi scansai corrugando la fronte, «Eah...», commentai disgustato.
«Ma come? Questa è bellissima! Non avrai paura», e richiuse l'insetto in un proprio pugno, avvicinandoselo.
«Che quell'orrore non mi si attacchi addosso!!», risposi, guardando ancora un po' per poi allontanarmi sazio di quella stramba visione. «Vienimi a cercare senza quel sudicio... insetto».
«Dai, amici, è finita per oggi», e lanciò via l'insetto per poter seguirmi. «Pensavo ti piacesse!».
«Ma no!», risposi. «Perché mai?».
«Oh, ma... è molto più di quel che sembra!».
M'incuriosì, «Tipo?».
«Beh in Italia abbiamo quasi 300 specie di cavallette, sono state in grado di colonizzare moltissimi ambienti. Hanno anche la capacità di mimetizzarsi nell'ambiente in cui vivono! È un po' difficile trovarle, bisogna aguzzare la vista!».
«Oh, ti piacciono altri insetti?».
«Sì! Ho una collezione di insetti a casa!».
«Vivi?».
«Quelli facili da trovare sì, pensavo di fare una teca per le formiche!».
«E a cosa ti serve?».
«Beh! Per osservare la mia piccola colonia crescere...».
«Forte», ammisi, un po' sconvolto.
«Perché quella brutta faccia?».
«Non sono abituato ad apprezzare gli insetti...».
«Sono molti molti di più degli esseri umani, qui».
«Forte! Sì, doveva essere scontato...».
«Vuoi vedere quelli che ho in casa?».
Non mi trattenni una smorfia di disgusto ma risposi con interesse: «Vedremo...».
«Significa no?».
«Significa: Vedremo. O meglio: vedrò».
«E tu cosa fai nel tempo libero?».
«Ah, tu fai questo nel tempo libero?», guardai le sue sporche mani e socchiusi gli occhi, «Quante bestie hai toccato con quelle dita, oggi?».
S'imbronciò, «Cosa?».
«E comunque a volte studio... a volte vado a caccia di misteri... a volte costruisco cose».
S'accese d'interesse subito: «Misteri? Che genere di misteri?».
«Oh, quelli che mi capitano...», ammisi sprofondando in una nebbia di disagio ed imbarazzo. Non volevo mostrarmi un sognatore... io ero pratico, cosa avrebbe pensato di me, scoprendo il mio lato paranormale? Non mi avrebbe compreso.
«Fammi un esempio!», continuò con grande entusiasmo.
"Dove siete?", s'insinuò insistentemente un ricordo ...
«In realtà è da tanto che non lo faccio sul serio...», ammisi. «Ultimamente studio e costruisco».
Lui mi guardò incuriosito e dopo del soffice, spazioso silenzio, aggiunse: «Ma tu sembri spaventato».
«Tu...», ed alzai un dito, cercando d'impormi, di difendermi: «... non sai io cosa sono!».
«Magari non so cosa sei... ma so bene cosa sembri!», tentò allora, titubante. «Successo qualcosa?».
«No, niente».
Venne a chiamarci, fin in cortile, il suono della campanella e lui, ancora perplesso, mi disse: «Domani? Qui?».
«Fai come vuoi».
«Sì. Ma tu?».
«Anche io farò come voglio», gli diedi le spalle ma sbirciai in sua direzione con lo sguardo, aspettandomi un'imposizione del suo volere che non ottenni mai...
«Okay...», si arrese, deluso, solamente.
Non mi rimase che restarne perplesso io stesso! Ma quale mistero, quegli occhi verdi, fragili e vispi! Si trattava dunque di un duro o di un curioso vile addomesticato?
Ed il suo volere? Cosa voleva? Cosa cercava? Come lo otteneva? Ma c'era?
Tornato a casa, dopo aver fatto i miei compiti, m'immersi nel tempo libero con un nuovo mistero per la testa e delle nuove curiosità. Sbirciai, per esempio, nel web, in cerca dell'oggetto del desiderio di quel piccolo biondino. Che aspetto aveva questa teca per insetti? Cosa poteva accadervi, di tanto interessante, al suo interno? Dei titoli di video attirarono la mia attenzione, "La mia colonia pianifica di evadere", "Io e la mia colonia di formiche", diverse persone, online, raccontavano la nascita e lo sviluppo delle loro colonie personali e ciò mi incuriosì a dismisura. Non guardai il prezzo di alcuna teca, bensì come farla. Sì, l'avrei fatta. Ma poi? L'avrei anche curata? Forse no... Forse Alberto era l'ideale per far vivere una colonia in scatola.
Avrei dovuto avvisarlo subito e pianificare il tutto con lui ma come avrei potuto sprecare un'occasione, inseguendolo per questa faccenda degli insetti? L'occasione per capire il mistero dei suoi occhi fragili e vispi era già pronta per aspettarmi il giorno seguente. Alberto mi avrebbe aspettato e non mi avrebbe trovato. Così, io, avrei potuto testare le sue reazioni deboli o ardenti, ma qualcosa mi suggeriva già che l'esperimento non sarebbe riuscito così facilmente. La sua fragilità forse era solo mutevole, cambiava forma, ma sicuramente doveva dominarlo, altrimenti come mi sarei mai spiegato il suo debole apparire? C'era qualcosa di poco chiaro in lui e lui questo lo sapeva?
Così, il giorno dopo, non andai a trovarlo al posto prestabilito ma, rubato silenziosamente il secondo telefono di mio padre, quel mattino, cercai un luogo inosservato dove continuare con le ricerche in merito ai formicai. L'impazienza popolava le mie vene e non riusciva a stare nelle ore dell'orologio, non poteva aspettare e se anche avessi cercato di incastrare l'impazienza dentro a quelle ore, quelle si sarebbero ingrossate a dismisura e non sarebbero mai più passate. Mi sedetti dietro ad una scala per le evacuazioni, circondata da piante non potate, ma non mi sentii molto solo. Mi guardai attorno e notai subito delle ciocche gialle sbucare fra i rami della pianta alle mie spalle. Soffiai, sicuramente quel biondo mi spiava. Un altro impaziente che non sapeva stare al suo posto? M'alzai, zitto zitto e sbirciai oltre le foglie intricate coi rami. Una macchia di colori singhiozzante si voltò a rivolgermi gli occhi verdi e rossi addosso e mi disse piano piano di andarmene. Così, costretto a provar imbarazzo per quella voce penosa, feci il giro della pianta per stare un po' a sentire, «Alberto?».
Si nascondeva?
«Non oggi, facciamo domani».
Beh, e a questo punto, che dire? Avrei dovuto essere io a respingerlo, quel giorno, ma ero stato respinto prima che lui se ne potesse accorgere! Che sorpresa, che disdetta e che... succedeva? Piangeva? Si nascondeva? Ma che accadeva? «Convinto?», domandai, perplesso.
«Domani».
Rimasi ancora un po' lì fermo, a chiedermi di lui ma poi andai via a cercare un altro posto. L'intervallo volò, consumato dai miei pensieri, prima che potessi ricominciare la mia ricerca via internet.
«Tu ami Ranocchio!», scherzavano, pungenti, i miei compagni di banco facendo imbarazzare una bambina biondina dagli occhi azzurri ed il faccino tondo.
Uscimmo dall'aula che ancora quei bambini giocavano ad infastidire la bambina, Angela. Ogni giorno avevano un motivo diverso, una persona diversa ed un gioco tutto nuovo. Solo mi chiedevo di quale Ranocchio stessero parlando, quel giorno.
«E diventerà un principe azzurro quando lo bacerai?», insistette il coro. «Angela e l'Azzurro, Angela e il Ranocchio».
«Non è vero!», s'ostinò lei. «Bugia!».
«Andrai a vivere nei fossi?», le chiese un bambino più minaccioso, più sicuro.
Ammirai la sua forza, ma dovetti ragionare della superficialità delle sue parole. A meno che... non ci fosse stata effettivamente una storia bizzarra sulle rane, ma questa faccenda sapeva troppo di bizzarro per finire nella lista dei misteri... Angela ed un ranocchio? Dove stava il collegamento? Forse Angela aveva solo trovato un vero ranocchio. Qui mi incuriosii, una femmina alle prese con piccole bestie viscide? Piccolo, biondo, angelo selvaggio? Quella lì gentile e composta? La guardai e quando il suo sguardo, verso l'uscita, incrociò il mio, le lanciai un sorriso che la fece arrossire e scappare. Non era una presa in giro la mia! Ma dove correva, adesso? Le femmine!
«Scappa la bambola! Scappa!», ridevano i fastidiosi bambini.
«Che ne dite?», propose uno di loro, «La togliamo al Ranocchio?».
Mi fermai, fingendo di sistemare dei libri nello zaino ed origliai il resto delle parole, colpito.
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SPAZIO AUTRICE:
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http://alessialorenzi.wixsite.com/alelartist/il-pianeta-dell-inganno
Aggiornamento del 5/10/1017 : Ho diviso il capitolo in due per facilitarvi la lettura. Siamo ancora all'intro dei personaggi, portate pazienza :P
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