5. CASUALITÀ(REV)
Acab attraversò il marciapiede a passo lento, sistemandosi il cravattino. «Acab, giusto?» azzardò Joshua e l'altro di tutta risposta batté le mani soddisfatto. «Molto bene Figlio di Dio, molto bene. Hai indovinato. Da cosa mi hai riconosciuto? Dal fascino?» ormai a un passo da lui, lo squadrò dalla testa ai piedi.
«No. Dalla puzza di inferno». Con lo sguardo accigliato e il ringhio di un cane che aspetta di essere sguinzagliato, mentre con un'ultima occhiata alla ragazza si assicurava che non fosse ferita. «Che le hai fatto?»
Acab si voltò verso la figura minuta e immobile al muro. «Cosa avrei voluto fare, vorresti dire...» fu con quelle parole che Joshua lo prese dal colletto perfettamente stirato della giacca nera per farlo andare contro il lampione. Acab alzò le mani in segno di resa, con quel ghigno che non accennava a scomparire dalla faccia. «Tranquillo, giovane dal nome impronunciabile!»
A quel punto, Ariel, temendo il peggio, indietreggiò lentamente con le mani sulle labbra e respiro spasmodico, mentre Acab continuava a giustificarsi: «L'ho solo accompagnata a casa, dopo il guasto che aveva avuto alla sua macchina». Il volto beffardo e strafottente del Lucifer provocò in Joshua un bruciore pulsante alla bocca dello stomaco.
«Sai, non mi sembra proprio che lei sia soddisfatta della tua galanteria» gli ringhiò, senza mollare la presa, avvicinando pericolosamente la sua fronte a quella dell'altro. In un istante, distolse l'attenzione dall'adepto per intimare alla ragazza di andarsene, con un cenno del capo.
Ariel lo guardò con aria perplessa per poi fuggire in quella casa che a Joshua era sembrata disabitata.
***
L'adrenalina che faceva sussultare gli arti non le permetteva di aprire la porta di casa; le mani di Ariel tremavano, mentre cercava di inserire le chiavi nella serratura con il terrore di avvertire le urla di qualcuno, da un momento all'altro. «Apriti! Apriti!» con un ultimo spasmo riuscì ad aprire e velocemente sgattaiolare all'interno. Richiuse la porta dietro di sé, attaccando le spalle al legno con il respiro che le faceva muovere lo sterno in maniera irregolare.
Salì su per le scale che portavano alla stanza da letto e spalancata la porta, gettò malamente la sua borsa in terra con il presentimento che tra i due ragazzi fosse successo l'indicibile; così, mentre le correvano in mente diversi pensieri poco edificanti, aprì la porta finestra e si affacciò al balcone, facendo ondulare i capelli oltre la ringhiera.
Per suo stupore i due non c'erano più. Non sapeva se tranquillizzarsi o cadere in preda allo sconforto. Sbarrò gli occhi e si sedette sul pavimento freddo del balcone, poggiando le mani sul viso.
Inalò a pieni polmoni l'aria umida di ottobre e rimase lì, a pensare a quel che era successo. La sua auto in fiamme, Acab che si offriva di accompagnarla e quelle strane sensazioni in sua presenza fino a quando... I suoi occhi...Gli occhi di Acab l'avevano fatta sentire diversa, volubile. Troppo volubile. Si strinse le gambe al petto e nascose il volto poggiando la fronte sulle ginocchia. All'improvviso ebbe l'impressione che Joshua e Acab avessero qualche questione in sospeso. "Figlio di Dio"...
I ragazzi, di solito, non si parlavano in quel modo.
"Puzza di inferno?" Che fantasia... considerò in una risata nervosa.
Come avrebbe potuto avere qualche informazione? Non conosceva bene i ragazzi. Si alzò in piedi, tornando a guardare la strada e quando si rese conto che Joshua abitava proprio di fronte a lei, avvertì un pungolo nel petto. Serrò il labbro tra i denti, stringendo metallo della ringhiera sotto i palmi.
No, Ariel. No.
Si rimproverò decisa e avvertendo il freddo della notte sotto la giacca di jeans rientrò nella sua camera. Certo, era strano: trovarsi a due passi dalla porta di quel ragazzo che l'universo gli aveva messo vicino prima in segreteria, poi come collega e infine come vicino di casa pronto a difenderla.
Lucia. Il volto della dolce ragazza incontrata la mattina in un momento di difficoltà capeggiò nella sua mente insieme a un senso di colpa. Aveva fantasticato su quel giovane che, probabilmente, era il ragazzo di Lucia.
Il telefono sembrava osservarla mentre faceva quelle considerazioni.
«Ok!» esclamò prima di gettarsi sul materasso e prendere il cellulare posto sul comodino. Nel digitare il suo numero, d'un tratto la colse il dubbio che Lucia potesse ingelosirsi.
Che stupida, che sei, Ariel!
Ringhiò al materasso tutta la sua frustrazione. E se gli ha fatto del male?!
Lucia avrebbe dovuto saperlo, e anche lei.
«P.. Pronto?» la voce impastata dell'amica la sorprese. Non erano ancora nemmeno le nove di sera.
«Lucia, perdonami tanto...» una pausa per pesare le parole.
«Tutto bene, Ariel?» le domandò Lucia con una flessione di apprensione nel timbro della voce.
«Sì. Perdonami per l'orario, ma dovresti chiamare Joshua...» gli occhi serrati e una mano sulla fronte nella paura della sua reazione.
«Joshua?» il tono acuto di Lucia e la smorfia di Ariel come di chi aspetta l'esplosione di una bomba ad orologeria.
«Perché? Cos'è successo?»
«Joshua mi ha difeso, mentre Acab...»
«Acab? Quello della caffetteria?»
«Sì. Lui si è offerto di accompagnarmi. Io ho accettato, ma evidentemente aveva cattive intenzioni.»
Una lunga pausa intervallò il profondo sospiro di Lucia dalla risposta. Avrebbe voluto rimproverarla per l'incoscienza, ma sapeva che i Lucifer avevano un potere manipolatore tale da soggiogare anche i figli di Dio poco legati ai Mandati. Figuriamoci i ragazzi del mondo... pensò dall'altro capo della cornetta.
«Quindi lo chiamerai?» immersa in quelle considerazioni, Lucia non si era resa conto di dover dare delle spiegazioni alla ragazza. «Chi? Joshua? Certo, ma tu ora non preoccuparti. Sono certa che Gesù Cristo l'abbia difeso.»
«Sì?» si era dimenticata che i due frequentassero una delle Sette Chiese e che il loro credo veniva spesso definito fuorviante. «In ogni caso,» proseguì Ariel con tono sommesso «Joshua sembrava volergliene dare di santa ragione...»
«Oh mio Dio!» la voce stridula di Lucia, invece, le oltrepassò il timpano tanto che l'altra dovette allontanare il telefono dall'orecchio.
«Mi farai sapere, allora?» sollecitò.
«Assolutamente. Dormi sogni tranquilli. Il mio Joshua è nelle Sue mani.»
Il mio Joshua...
«Buonanotte, Lucia.» e una volta chiuso il telefono poggiò la fronte sulle braccia incrociate, con un nodo allo stomaco.
In attesa di sue notizie, si avviò verso la finestra e quando notò che in una delle finestre della villetta si era accesa una luce, sperò fosse Joshua che rispondeva al telefono. Uscì dalla stanza, ripromettendosi di cancellare dalla sua mente l'immagine di quel ragazzo che la difendeva. Si tolse la giacca per poggiarla malamente nella sedia del bagno. Levò via le ballerine blu e si spogliò svogliatamente dei jeans e della camicia, prima di entrare nella doccia. Sotto il getto caldo che lavava via le brutte sensazioni provate accanto ad Acab, ripensò nuovamente a Joshua.
Una volta poggiati i piedi scalzi sul tappeto, sentì la vibrazione continua del cellulare nella sua stanza e, ancora gocciolante, avvolse un telo di spugna al petto per fiondarsi sul letto e rispondere a quella che doveva essere la chiamata di Lucia.
«Allora?»
«Pronto, Ariel?» un colpo di fuoco allo stomaco. Una voce maschile. Deglutì e, allontanando il telefono dall'orecchio, guardò il display in cui compariva un numero sconosciuto. «Pronto?» ripeté quello.
Ad occhi sbarrati e con mani tremanti, Ariel avvicinò il telefono all'orecchio. «C...Chi è?»
«Sono Joshua, mi ha detto Lucia di chiamarti.» lunga pausa.
«Sì?» quel timbro era diventato improvvisamente una sorta di musica che tamburellava in direzione del cuore.
«Sì. In effetti, avrei dovuto farlo prima e forse sarebbe stato meglio venire a trovarti. Ma...»
«No, no, tranquillo, sto benissimo!» farfugliò in preda al panico. «Lucia è una mia amica, io non potrei...» la risata del ragazzo passò oltre l'altoparlante e le si conficcò dritta nello stomaco.
«Non penso di aver capito, perdonami...» le disse.
«Sì, beh...Non ti avrei mai fatto venire a casa mia, senza il suo permesso.»
«Permesso?» ripeté confuso.
Ariel poggiò una mano sul viso e chiuse gli occhi. «Scusami, ma non sei il suo ragazzo?»
La risata di Joshua sembrò risponderle prima delle parole. Inarcò un sopracciglio e attese. «Assolutamente no!» rise di gusto «No!» ripeté e, sempre più inebetita, Ariel si sentì una stupida. «Bene, allora...» le parole le si incartarono nella gola.
«Allora...» indugiò, lui «Dato che è tutto a posto, ci si vede in facoltà?»
Sarò fuori dalla tua porta, all'alba. Avrebbe voluto rispondergli lei, ma optò per un classico: «Certo» mentre il sorriso non accennava a spegnersi.
«Allora buonanotte, Joshua e... Grazie.»
«A domani, Ariel.»
La testa bagnata sul cuscino e il telefono ancora in mano, mentre lui salvava il suo numero.
All'indomani, Joshua si svegliò di buon'ora per prepararsi una colazione degna di essere chiamata tale: succo d'arancia, toast con crema al cioccolato spalmabile e l'immancabile caffè. Si era svegliato di buon umore e, mentre masticava l'ultimo pezzo di pane abbrustolito, avvertì l'istinto di scrivere ad Ariel un semplice "Buongiorno" ma poi, allungando la mano, un flashback gli pose davanti il viso di Evelyn.
Tossì tanto che dovette ingerire una grande quantità di succo per mandar giù il groppo alla gola. Batté così violentemente il bicchiere sulla superficie della cucina che piccole gocce arancioni gli sporcarono la camicia bianca che aveva indosso. Grazie tante, eh!
Le labbra serrate a reprimere un'imprecazione.
Si diresse verso la camera sbottonando l'indumento per metterlo a lavare e, quando dalla finestra notò che Ariel stava già per dirigersi verso la fermata dell'autobus, prese la prima maglia bianca che si trovò sottomano e si fiondò giù per le scale.
Ci impiegò qualche secondo prima di rendersi conto che c'era proprio lei fuori dal cancello. Era di spalle, i capelli ondulati e scuri arrivavano fino ai fianchi coperti da un maglione bianco lungo; i jeans attillati e di un blu scuro erano inseriti dentro degli stivali beige scamosciati del medesimo colore della borsa, portata in spalla. Quando si girò, illuminandolo con un sorriso ampio, Joshua avvertì un calore improvviso percorrere il torace.
Tuttavia, invece di mostrarsi lieto di vederla, deglutì e serrò la mascella proseguendo verso di lei senza incontrare i suoi occhi. «Buongiorno!» lo salutò, mostrandogli una scatola trasparente.
«Ehi...» il tono basso e nervoso mentre cercava di sfilare la chiave dalla serratura del cancello della sua abitazione.
Lei storse il muso. «A quanto pare non è un bel momento, vedo...» interpretò. «Volevo ringraziarti per ieri con questa specie di regalo».
Lui la guardò smarrito.
«Anche se non sembra» continuò lei, «è un pezzo di torta al cioccolato. Spero che possa piacerti.» fece spallucce. «Beh, allora a dopo!» disse, prima di voltargli le spalle e attraversare la strada per raggiungere la fermata.
Joshua rimase lì, immobile, a guardare quella scatolina trasparente, deciso di saltare la prima lezione di Diritto Romano: non ce l'avrebbe fatta a sopportare anche il famoso e affermato docente dei Lucifer.
Nonostante la pessima reazione di Joshua, lei comunque sentì che la sua assenza regnava prepotente per una come Ariel che, quantomeno, si sarebbe aspettata un grazie.
Purtroppo anche Lucia non era venuta a lezione e quindi si era dovuta sorbire il docente vestito interamente di nero, che ripeteva, come un disco incantato, quanto fosse inutile e inconcepibile continuare a credere in qualcosa quando in realtà la storia è stata scritta da uomini dalle grandi capacità razionali. Non ha tutti i torti... rifletté.
Lei, come la maggior parte delle persone che conosceva, non credeva a nulla se non alle proprie capacità. Il padre sempre lontano da casa per le sue riunioni teologiche della Chiesa di Smirne le aveva trasferito un sentimento avverso alle religioni e al credo in generale.
Finita la lezione, si sentì talmente oppressa dai brutti ricordi che dovette abbandonare l'idea di sorbirsi un'altra ora di lezione. L'immagine del padre vestito con il completo nero che prendeva le sue cose e abbandonava la casa, gli aveva fatto venire un dolore pulsante alle tempie.
Così, attese alla fermata, posta appena fuori dalla facoltà.
Una volta salita sull'autobus, si accorse di un unico gruppetto di ragazze intente a ridacchiare e fare commenti di apprezzamento a un giovane in piedi vicino al vetro.
Guardava fuori, oltre la strada percorsa dal bus, con le cuffie alle orecchie.
Oh Joshua, chissà in quali canzoni cerchi di fuggire da questo mondo...
Quando Ariel si accorse di essersi incantata, si sedette per non farsi notare.
Quella mattina aveva avuto come l'impressione che quel gesto di ringraziamento fosse stato interpretato male, tanto da farlo scappare a gambe levate.
Lui, invece, colto da un profondo stato di confusione, aveva deciso di assentarsi dalle lezioni per avere un colloquio con Simon e, in quel momento, si trovava sull'autobus di ritorno dal Centro.
***
Joshua non notò il profilo di Ariel fin quando un uomo dall'aspetto trasandato e l'odore di alcol, una volta salito sul mezzo, si era appostato in piedi, di fronte a lei. Gli occhi scavati e dai contorni violacei evidenti la fissavano voraci.
Lei, invece, stava riflettendo su quanto Joshua sembrasse un ragazzo di cui ci si può fidare al primo sguardo, ma quando questo pensiero fece capolino nella sua mente, fece per girarsi e vide la mano rugosa di un uomo insediarsi dentro una delle tasche della sua tracolla. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi marroni e circondati da occhiaie del personaggio che emanava un odore pesante di alcol e tabacco.
Ariel si impietrì e, emettendo silenziose richieste di aiuto, iniziò a sentir colare sudore gelido dalla fronte.
Poi, quasi dimenticando di essere su un mezzo in movimento, spinse l'uomo contro l'obliteratrice. A quel punto decise di allontanarsi e, dopo aver raggiunto la parte posteriore barcollando qua e là, si fermò, aggrappata a un bracciolo. Rivolto lo sguardo alle sue spalle, Ariel non seppe se rimanere immobile o urlare all'autista di fermarsi: Joshua si era -di nuovo- preoccupato per la sua incolumità.
Il ragazzo stava tenendo per il polso l'uomo, articolando qualche parola che lei non riuscì a comprendere; bastò quello sguardo accigliato e autorevole per far sì che il malintenzionato scendesse dal mezzo alla prima fermata utile. Almeno, era quello che Ariel aveva intuito.
Era la seconda volta che la difendeva nel giro di poche ore. Viviamo di Casualità... Coincidenze... come ha detto il professore... Si sforzò di convincersi.
Poi, gli occhi verdi di Joshua la fissarono con un sorriso.
«Tutto ok?» domandò lui, una volta arrivato di fronte ad Ariel che lo guardava con occhi sbarrati. Il gruppetto di ragazze, intanto, dopo aver visto la scena, si preoccupò di zittirsi per ascoltare la loro conversazione, così come erano solite fare le abitanti della piccola città di Filadelfia.
La ragazza deglutì e drizzò la schiena, ma quando l'autobus prese una fossa profonda, si ritrovò a stringere il cappotto di jeans del giovane che la tenne da un braccio per non farla cadere.
«Perché tu mi salvi sempre?» sibilò lì per lì senza pensarci.
Si ritrovò, suo malgrado, sbaragliata dagli occhi verdi e da un sorriso timido che aveva formato una lieve fossetta sulla guancia destra.
«Forse perché hai bisogno di essere salvata» affermò prima di premere il pulsante rosso accanto al viso di Ariel.
Era come se si fosse immersa in una nuvola dove il cielo era una sostanza palpabile, tanto che non si era accorta della fermata.
«Signorina?»
L'autista la stava chiamando per attirare la sua attenzione, ma lei sembrava ancora in uno stato confusionale.
«Signorina, deve scendere dal mezzo. C'è stato un guasto.» Le intimò l'uomo, cercando i suoi occhi.
«Sì, sì. Mi scusi...»
Si ritrovò sul marciapiede, davanti alla villa in cui alloggiava Joshua.
Osservò a lungo il cancello con ringhiere grigie, lavorato con foglie e fiori di ferro. La cassetta delle lettere mostrava un pezzo di ferro battuto che indicava il numero civico di quell'abitazione: il sette.
Lo guardò per qualche secondo prima di incamminarsi verso la sua villetta. I passi lenti e quasi trascinati di Ariel, erano accompagnati dall'eco di suole dietro di lei.
Ma cosa succede, oggi?! Pensò, velocizzando il passo fin quando non sentì una mano calda e pesante sulla sua spalla sinistra. Bloccandosi di colpo con un grugnito, si voltò per dare uno schiaffo al personaggio che la stava seguendo. Una volta sferrato l'attacco, si ritrovò troppo tardi a dover fare i conti con le cinque dita rossastre sulla guancia di Joshua che stava massaggiando la mascella con aria fortemente stupita.
Il ragazzo, sceso dal mezzo prima di lei, l'aveva aspettata per accompagnarla, ma lei era scesa dall'autobus quasi stesse fantasticando su qualcosa. Dopo aver oltrepassato la porta scorrevole vicina all'autista, nel mettere i piedi sull'asfalto aveva incespicato, facendo cadere un ciondolo dalla borsa.
Avvampò di imbarazzo e dopo aver congiunto le mani sulle labbra, Ariel disse: «Oh Dio, mi devi perdonare...»
«Per così poco?» rise, Joshua. «Sapessi quante ne ho combinate io e il Creatore mi ha sempre perdonato...» tossì, schiarendosi la voce prima di continuare: «Questo ti è caduto mentre scendevi dall'autobus». Ariel allungò la mano per prendere il pendente che raffigurava un leone con le fauci aperte.
«Leone di Dio...» sussurrò lui, osservando la ragazza mentre lo sistemava nella cerniera principale della tracolla e lei, al sentire quella frase, alzò gli occhi aggrottando la fronte.
«Potresti ripetere?»
Joshua che pensava di non essere stato ascoltato si ritrovò a spiegare cosa avesse voluto dire la sua silenziosa esclamazione.
«Leone di Dio è il significato del tuo nome e l'ho associato al ciondolo che porti in borsa.» tossì nuovamente, grattandosi la nuca. «Tutto qui.» concluse, facendo spallucce.
«Davvero? Perché anche il tizio che ieri ha cercato di farmi del male aveva detto una cosa simile al bar della facoltà. Sarà il mio nome ad attirare la sfortuna di questo periodo...»
«Non credo proprio.» rispose lui, con tono caldo.
La ragazza fece un lungo sospiro prima ruotare il busto nell'atto di tornare a casa.
«Allora, ci vediamo in facoltà?»
Lo osservò, in attesa di una risposta affermativa prima di cominciare a camminare, rivolgendogli le spalle.
Lui mosse gli occhi in ogni dove - forse temendo l'arrivo di qualche adepto dei Lucifer - e dopo aver inspirato profondamente, azzardò: «Il mio nome significa 'Gesù'!» la voce alta di Joshua le risuonò all'orecchio come il tentativo di creare un contatto che era stato spezzato sul nascere. Tuttavia, quello che la spaventò maggiormente fu il fatto che lui fosse riuscito a leggerle dentro. Ariel aveva solo abbozzato l'idea di chiedergli cosa significasse il suo nome, ma quella lunga pausa presupponeva lo scarso interesse nel rivederla o meno all'Università e, con la sensazione di essersi esposta troppo, aveva ricominciato a camminare.
«... Che a sua volta significa 'io sono colui che salva'». Aveva concluso, Joshua.
Ariel sbarrò gli occhi ma, in un primo momento, si rifiutò di voltarsi.
Sua madre le aveva sempre detto di non fidarsi di uomini di fede, che apparivano dolci e educati, perché, alla fine, le avrebbero spezzato il cuore. Certo, era strano detto da chi, dopo una prima relazione andata male, aveva scelto di vivere con un uomo che sfruttava la sua intelligenza per aumentare il conto in banca dei Lucifer, ma non poté fare a meno di riflettere su quelle parole.
«Quindi...» si voltò, mostrando un sorriso di scherno «se dovessi raccontare questa storia, dovrei dire che sono stata salvata due volte da un tizio che si chiama Gesù?»
La risata di Ariel fu come una spada di umiliazione. Nessuno gli aveva chiesto di spiegare il significato di quel nome così pesante da portare, ma l'aveva fatto e adesso la sua anima ne pagava le conseguenze. Così serrò la mascella e girò i tacchi per andarsene, facendo cigolare il cancello che dava sul cortile.
«Sono stata io a chiedergli aiuto!» la voce di Ariel, questa volta, era rotta da un nodo alla gola. Quindi, Johsua si bloccò poco prima di entrare nel cortile. Le rivolse uno sguardo inespressivo e chiese atono: «Come dici, scusa?» Il sopracciglio inarcato. «Stai parlando con me?»
All'apparenza era come guardare una foglia tremula e insicura, bloccata al centro della strada con lo sguardo basso; era come se, anche lei, avesse sentito il bisogno di confidargli qualcosa, nonostante i due non si conoscessero. «Ieri, mentre uscivo dalla facoltà, mi sono diretta verso la mia auto...»
Joshua negò col capo quella volontà che lo spingeva sempre davanti a quell'esame da superare; si morse il labbro, e, alla fine, alzò gli occhi al cielo terso, assecondando quell'istinto. Si avvicinò a passo lento verso Ariel, che incrociò le braccia al petto, senza alzare gli occhi verso di lui.
«La mia auto era in fiamme...» gli confidò, lasciando che le lacrime le appannassero la vista in maniera del tutto incontrollata. Lui corrugò la fronte, diminuendo la distanza che li separava.
«Non so perché sto avendo tutta questa sfortuna in questo periodo, eppure io sono una persona molto, molto, razionale...» Il mento iniziò a tremare e, senza riuscire a contenersi, si lasciò sfuggire una lacrima.
Joshua fece un lungo sospiro e incrociando le braccia al petto, quasi a proteggere quel muscolo involontario, quando capì di esserci caduto, di nuovo.
Ariel non riuscì a interpretare quel bisogno improvviso di confidarsi con lui e esternare le sue emozioni; non le era mai successo, con nessuno. Di una cosa era certa: tutte le persone vagavano silenziose verso le loro mete, senza mai notare il malessere altrui, ma lui e Lucia erano stati lo strappo alla regola.
Loro sembrano diversi da tutti gli altri. Prima, Lucia, una ragazza bionda, con le iridi splendenti di una luce diversa, e letteralmente opposta a lei nei modi e nell'aspetto, l'aveva colpita al cuore, sciogliendo quel muro di cemento che la separava dal mondo. Poi, lui, una sorta di angelo custode inaspettato per una come lei che voleva essere forte con tutti e mostrare al mondo intero che nessuno avrebbe potuto farla soffrire. Però, il cuore si stanca, prima o poi.
Lucia l'aveva vista lì, all'ingresso, poggiata a un muro a leggere il messaggio della madre che le diceva di non aspettarla per il fine settimana e nemmeno per i prossimi giorni; avrebbe viaggiato con il super manager bancario, la donna. Come faceva, Ariel, a fidarsi delle persone, se pure sua madre la lasciava da sola?
Non aveva più fiducia in nessuno, se non in se stessa.
Ma Joshua e Lucia sembravano essere arrivati nel momento in cui la sua anima urlava aiuto.
«I miei occhi guardavano l'auto in fiamme e in lacrime mi lasciai sfuggire una bestemmia, come se un certo Dio volesse il mio male...»
Joshua sorrise «Dipende quale Dio. Quello che conosco io non vuole il male di nessuno».
Le aveva riservato un sorriso così dolce che Ariel indietreggiò di un paio di passi, quasi intimorita dalla sua infinita ed inspiegabile gentilezza.
E senza dare peso a quella frase, continuò «... Poi è spuntato lui, Acab, come dal fuoco, cioè... » si grattò la nuca «come se lui avesse visto tutto. Così gli ho chiesto chi fosse stato e...» «E cosa hai avvertito?»
Dal tocco non desiderato di Acab, tutto sembrava essere andato di male in peggio; quel giovane dagli occhi blu si era mostrato disponibile e affabile, ma nell'entrare nella sua auto, da sola, lei si era accorta di aver subito una sorta di strano condizionamento. Joshua, il Figlio di Dio... Pensò Ariel alla sua domanda. Acab, l'Inferno...?
Si disse, al ricordo dei due a muso duro l'uno contro l'altro. Ma, dai!
Di sicuro, qualunque ragazza con un minimo di prudenza avrebbe chiamato un esperto per capire cosa fosse successo alla macchina in fiamme; invece lei se n'era andata con un perfetto sconosciuto che per tutto il tragitto non aveva fatto altro che tentare di sedurla. Però, in un momento di lucidità, fermi sotto la villa di Joshua, lei aveva detto "No!"
Ariel, però, senza fare riferimento a quello che aveva provato in presenza di Acab, rispose ad occhi bassi: «Lui mi ha risposto che sicuramente erano stati quelli del gruppo studentesco Lucifer, quel gruppo che aspira a grandi posizioni all'interno dell'università e della società...»
Joshua la interruppe «Sì, li conosco,» sospirò, con le mani dentro le tasche «purtroppo anche fuori dal campo universitario.»
Ariel, a quel punto, fissò un punto vuoto.
«E cosa vogliono da me?»
Benché Joshua lo sospettasse, non le rispose, ma si limitò a voltarsi per tornare dentro casa dicendo: «Penso che lo scoprirai molto presto. Buona notte, Ariel.»
Lei non aprì bocca iniziando ad avvertire l'aria fredda della sera alle gambe e alle mani. Non sapeva da quanto tempo stessero parlando, ma sembrava che il tempo intorno a loro si fosse fermato.
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