(R) Capitolo 1: Un vecchio rimbambito e un liuto
Un vecchio pizzicava le corde del liuto che reggeva fra le robuste braccia, sovrappensiero. Lo strumento ormai cadeva a pezzi, proprio come lui: il primo aveva la vernice scrostata e le corde scordate, mentre il secondo il volto ricoperto di rughe e il corpo curvo sotto il peso degli anni, sebbene i suoi muscoli nascondessero ancora una certa forza.
Nonostante tutto il tempo che era passato, c'era ancora una scintilla di vitalità nei suoi occhi, di un colore molto particolare, quasi argenteo; le sue labbra, sebbene fossero secche e sottili, si aprivano spesso in un caldo sorriso, spingendo le persone e, specialmente, i bambini, ad avvicinarsi attorno a lui.
Tutti i piccoli sapevano cosa significava quando Artigern faceva visita al loro villaggio: fiabe vecchie, talmente vecchie che nessuno si ricordava più il tempo in cui erano state inventate.
Artigern era il miglior cantastorie che avesse mai camminato lungo i sentieri di Lenodia, la grande vallata ai piedi delle montagne, che si diceva fosse stata calpestata dalle zampe possenti dei draghi.
Un capannello di bambini si era già radunato attorno al vecchio, che li osservava, intenerito dai loro volti morbidi, dallo sguardo ricco di aspettativa che gli rivolgevano, le guance rosse per la contentezza.
- Artigern, quand'è che ci racconti quella storia? - chiese uno di loro, un ragazzino paffutello dai capelli castani e arruffati, tirando un lembo delle logore brache indossate dal vecchio.
- Quale delle tante? - domandò l'uomo, inarcando le sopracciglia canute, nelle quali sopravvivevano ancora dei riflessi ramati.
Aveva lunghi e ispidi capelli, raccolti in una treccia, che gli ricadeva sulla spalla destra. Come le sopracciglia e la corta barba che gli ricopriva le guance, dovevano essere stati di un rosso vivo, ma ora erano simili a fili di ferro arrugginito.
Artigern poggiò il liuto a terra e, facendo leva sul ginocchio destro, si alzò in piedi grugnendo per lo sforzo, ergendosi in tutta l'imponenza del suo metro e trentacinque.
Sembrava un bambino incartapecorito, per via della sua altezza ridotta.
I bambini, che non avevano peli sulla lingua, gli chiedevano spesso perché fosse tanto basso.
C'era sempre qualche nuovo arrivato che non sapeva chi fosse Artigern, e gli ripeteva quella domanda.
Quel giorno non fece eccezione.
- Artigern, ma perché sei così basso? - domandò una bambina che non dimostrava più di cinque anni, sorpresa dalla sua altezza.
Il fratello, di qualche anno più vecchio, la guardò male. Lei si fece piccola piccola, senza capire il motivo di tanta ostilità.
- Oh, ma io non sono basso - mormorò il vecchio.
La bambina aggrottò le sopracciglia, ricordandosi di ciò che aveva detto sua madre a lei e Jill, quel pomeriggio, prima che uscissero di casa:
"Non porterai tua sorella da quel vecchio rimbambito, non è vero? Le riempirà la testa di sciocchezze!"
"Non sono sciocchezze, mamma! Gli sono successe davvero, tutte quelle cose", aveva protestato Jill, ma loro madre si era già rimessa a stendere i panni, segno che non voleva sentire un'altra parola.
Marion si ritrovò a chiedersi se non avesse avuto ragione a definire Artigern "vecchio rimbambito".
Il cantastorie parve intuire ciò che le passava per la testa e scoppiò a ridere.
- Lascia che mi spieghi - si corresse, mentre si accarezzava la barba. - Sono basso secondo i canoni umani, ma la mia altezza è perfettamente normale, per quelli della mia specie.
- Quale specie? - chiese la bambina, sempre più incuriosita.
Artigern fece una pausa, inarcando le sopracciglia.
- Se te lo dico, manterrai il segreto? - chiese, sussurrando.
- Certo - farfugliò lei, facendosi una croce sul cuore.
Artigern si guardò attorno con fare circospetto, quindi si avvicinò a lei e bisbigliò:
- Sono in incognito.
Decisamente, era un vecchio rimbambito.
- Sono in incognito, e la gente non deve capire chi sono veramente - ripeté Artigern, con fare teatrale. - Mi spaccio per un nano, ma in realtà sono quello che voi, tanto tempo fa, chiamavate "Athi".
Marion ricordava ciò che loro padre aveva raccontato a lei e Jill riguardo gli Athi: un popolo schiavo, estintosi circa quattrocento anni addietro, quando i draghi ancora abbrustolivano quelle terre col loro respiro infuocato. Gli Athi erano famosi per essere molto miti e inclini all'ubbidienza, e per il fatto che il loro unico scopo nella vita fosse quello di servire un padrone, cui si affezionavano oltremodo. Qualora egli li abbandonasse, il dolore per un Athi poteva essere tale da ucciderlo.
Marion non sapeva altro su quelle piccole creature, ma Artigern non combaciava con quella descrizione.
Lo scintillio ironico nel suo sguardo, la battuta pronta e l'interloquire provocatorio gli avevano dato fama di ottimo compagno di bevute, e il fatto che viaggiasse in continuazione contrastava con gli esseri abitudinari e fragili che le erano stati descritti dal padre.
- Credevo che fossero scomparsi tutti - confessò Marion.
- Tutti... - fece Artigern, indicando se stesso con un sorriso. - ... tranne uno. Il migliore.
I bambini scoppiarono a ridere, mentre il cantastorie si metteva le mani sui fianchi.
- Beh, che avete da ridere, marmocchi? - li redarguì con fare bonario, le sopracciglia inarcate.
Le risate dei bambini cessarono di colpo, mentre tutti sgranavano gli occhi. Marion si lasciò sfuggire un gridolino di paura, stringendosi a Jill, che era pallido come un cencio.
Artigern si chiese come potesse averli spaventati tanto.
- Bambini, stavo solo scherzando - disse loro, sorridendo per rassicurarli.
- Un mo-mostro! - farfugliò Marion, indicando Artigern.
Un tonfo alle spalle del cantastorie gli fece quasi perdere l'equilibrio, mentre un'enorme zampa si abbatteva sul terreno, sollevando un nugolo di polvere.
Artigern, col cuore in gola, si voltò.
Davanti a lui e ai bambini si stagliava una creatura alta quattro metri, simile a una lucertola troppo cresciuta. Aveva un corpo muscoloso e nervino, la pelle ricoperta da una solida armatura di squame di un bianco opaco. La sua lunga coda flessuosa spazzava il terreno e, con un movimento fluido, si strinse attorno alla vita di Artigern, sollevandolo da terra.
- Artigern! - gridarono Jill e altri bambini.
Il mostro dagli occhi rossi piegò la testa, come un cane che aguzza l'udito per sentire un rumore interessante, gli occhi color rosso sangue fissi sul cantastorie. Sembrava che per lui non ci fosse nessun altro.
Pareva sul punto di morderlo alla gola, quando Artigern scoppiò a ridere, allargando le braccia con un grido di gioia.
- Sparviero! - urlò, ringiovanito di cent'anni.
Il mostro emise un basso rumore di gola, mostrando una chiostra di zanne bianchissime ed affilate, che fece svenire un paio di bambini per lo spavento.
Avvicinò Artigern al proprio muso, in modo da guardarlo bene in viso.
Adesso lo mangia, pensò Marion, coprendosi gli occhi con le mani per non vedere.
Tuttavia non ci fu nessun grido di dolore da parte di Artigern, né alcun rumore di ossa frantumate. La bambina ritrovò il coraggio di sollevare lo sguardo, e restò basita.
Artigern si era aggrappato al lungo collo del mostro e lo stava grattando energicamente sotto la mandibola. La creatura emetteva dei gorgoglii di apprezzamento, gli occhi socchiusi per il piacere, come un vecchio gatto coccolone.
I bambini erano talmente stupiti che ci misero qualche attimo a capire di non essere in pericolo.
- Oh, questo è il mio cucciolone - disse Artigern, mentre il mostro lo depositava a terra.
Una volta che il vecchio fu di nuovo seduto, la creatura gli si acciambellò attorno, fissando i bambini con fare guardingo, come per sfidarli a infastidire Artigern.
- Cosa... ma lui è... - balbettò Jill, il primo a ritrovare la parola.
- E' il mio cucciolo - disse il cantastorie, e da tutta la sua persona emanò una luce calda, tanto era evidente l'affetto che nutriva per quel mostro.
Questi emise un ringhio basso e minaccioso, e Artigern scoppiò a ridere.
- Sì, sì, lo so che non sei di nessuno, tu - mormorò. - E' una metafora, per dire che ti voglio bene. Dovresti saperlo, ormai. Sei tanto vecchio, eppure ancora non capisci niente.
La creatura cominciò a inalberarsi, agitando la coda. I bambini tossirono per la polvere, gli occhi che lacrimavano.
- E va bene, scusa, hai ragione tu! - continuò Artigern, alzando gli occhi al cielo. - Sei sempre permaloso, però. Questo me lo devi concedere.
- Ma tu capisci cosa dice? - farfugliò uno dei ragazzini, sconvolto.
- Certo che lo capisco. Sono un Athi. Noi e i draghi siamo sempre andati d'amore e d'accordo... insomma, quasi sempre - spiegò il cantastorie, accarezzando il fianco della bestia. Era curioso vedere lui, tanto piccolo, tenere a bada quell'essere gargantuesco. - Ho chiesto a Sparviero se poteva venire qui, oggi, per raccontarvi la storia che vi ho promesso. Di solito non si abbassa a simili richieste, ma per voi ha deciso di fare un'eccezione, dato che siete dei bambini così simpatici. E poi Sparviero dice che io sono un vecchio rimbambito e non mi ricordo tutto quello che ci è successo, così lui supplirà alle mie mancanze. Che ne dite?
Il drago emise una specie di gorgoglio, che andava su e giù, e i bambini capirono che si trattava di una risata. Una risata di scherno, per giunta.
- Smettila di prendermi in giro! - sibilò Artigern. - Sarò vecchio, ma non ho ancora cominciato ad avere le traveggole. Sei un drago molto, molto maleducato.
Il cantastorie afferrò il liuto e, dopo esserselo posato sulle ginocchia, cominciò a comporre un piacevole accompagnamento di sottofondo, che creava un'atmosfera di altri tempi.
- Quando io e Sparviero ci siamo incontrati per la prima volta, è stato quando io avevo all'incirca la vostra età - sospirò, lo sguardo che si perdeva all'orizzonte, un mezzo sorriso stampato sulle labbra. - Ricordo che stavo camminando per le vie di un piccolo villaggio di nome Kurna, poco lontano da qui. Stavo rubacchiando, come mio solito, quando, alla fiera di paese, incontrai una donna piuttosto strana di nome Delia...
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