Capitolo 28: Parli come un umano

Questo capitolo è un po' particolare. E' più lungo del solito, sulle 2500 parole, ed è molto importante per la trama... ma è anche senza correzioni. Questa è la bozza. Sono stanca, ho appena finito di scriverlo, ma volevo darvi comunque qualcosa da leggere. Quindi, eccolo qua. Se troverete degli errori, mi fareste la cortesia di segnalarmeli? E' un periodo che sono piena di mal di schiena - lasciamo perdere! - e scrivere al computer mi uccide. Scusate le lamentele e buona lettura! :)

Artigern

Il fienile in cui vivevamo io, Melina e Nonna era molto grande e ci sarebbe stato posto anche per Mulkin.

Ciò che temevo era che Nonna potesse riconoscerlo.

Lei aveva visto più cose di me e, forse, non avrebbe accettato di accogliere il soldato. Era molto buona, ma riguardo certe faccende non era disposta a perdonare.

Io ero della seconda generazione degli Athi, non avevo visto lo splendore della nostra civiltà e nemmeno la sua decadenza. Avevo sempre vissuto fra gli umani e, per lungo tempo, ero stato convinto di essere uno di loro. E poi, a dirla tutta, non avevo voglia di soffrire più di quanto fosse necessario. Stavo già abbastanza male ogni volta in cui pensavo a tutti i miei fratelli trasformati in cagnolini ubbidienti da Elwyn. La sola idea di creare ulteriore conflitto mi faceva torcere le budella. Quindi, di conseguenza, istruii Mulkin sul da farsi, durante la strada.

- Non ho intenzione di nascondermi - sibilò lui, indignato. La sua voce era molto più forte, e il suo passo più vigoroso. La foresta si stava diradando, lasciando posto ai dolci rilievi delle colline, simili a dorsi di animali addormentati, col pelo pettinato dal vento dei primi giorni di primavera. Presto all'erba verde e rigogliosa si sarebbero sostituite le rocce, i muschi e i licheni, e allo stridio delle gazze il verso acuto dei rapaci che facevano il nido in quei luoghi aspri. La nebbia si era quasi del tutto diradata e l'odioso dolciastro se ne stava andando, sebbene i nostri vestiti ne fossero impregnati.

- Mulkin, per favore. Tu non capisci, Nonna è una Athi molto anziana, potrebbe non essere tollerante - cercai di convincerlo, con un profondo sospiro.

Il soldato continuò a fissare l'orizzonte, la bocca chiusa in una dura piega. Sulla sua guancia, la ferita stava cominciando a cicatrizzarsi, e un sottile strato di crosticine fragili e sottili ne ricopriva l'estremità. Doveva essere stato molto bello un tempo, specie da giovane, ma gli sarebbe rimasta una cicatrice terribile fino alla fine dei suoi giorni.

- Mulkin, devi...

- E va bene - sbottò lui, interrompendomi. - Farò come vorrai, e con questo dovrai considerare il mio debito nei tuoi confronti saldato. Non mi piace essere in debito con nessuno, specie con un Athi.

Le sue parole mi ferirono e provai l'impulso di ribattere a tono, ma mi trattenni. Mulkin voleva che io lo trattassi male. Provava una sorta di appagamento nel crocifiggersi, un alleggerimento momentaneo della coscienza. Avevo già notato questo suo comportamento la sera precedente, e inizialmente mi aveva lasciato perplesso, tuttavia, ora, non mi sarei lasciato manipolare. Non avevo idea di cos'avesse fatto in passato, ma doveva aver avuto molto tempo per pensarci, mentre era malato. Non sarei stato io a sollevarlo da quel peso. Io tolleravo la sua presenza e cercavo di non pensare ai suoi trascorsi, ma non lo avrei aiutato a fingere che non esistessero, né avrei cercato vendetta a nome del mio popolo nei suoi confronti.

Sparviero

Socchiusi gli occhi e mi guardai attorno. La solita, sottile nebbiolina rossastra si era radunata sul terreno della scuderia. Ogni tanto qualche drago di ronda la calpestava, sollevando degli sbuffi di polline che strappavano qualche colpo di tosse ai presenti.

Deglutii, cercando di non schiarirmi la gola per non attirare l'attenzione, e attesi che il senso di nausea dovuto all'odore dolciastro passasse. Osservai Reod con la coda dell'occhio. Il drago blu era sdraiato poco lontano da me e dormiva profondamente. Oggi era il suo giorno di riposo, e si stava godendo un buon sonno. Di solito era molto sensibile ai rumori e si svegliava per un nonnulla, ma oggi era tranquillo, senza preoccupazioni dovute ai continui incarichi affidatigli da Elwyn.

Attesi che tutti i draghi di guardia fossero abbastanza lontani, quindi, silenzioso, strisciai sul pavimento. Dovetti trattenere il respiro, vicino com'ero alla nebbia, perché un colpo di tosse mi avrebbe tradito. Tuttavia, avevo studiato il percorso più breve nei minimi particolari e presto mi trovai fuori. Ero piuttosto vicino alla quercia ed era impossibile non ispirarne l'odore, ma, non appena mi fui issato in volo ed ebbi raggiunto una quota sufficiente, non fu più così fastidioso.

L'aria fresca mi schiarì le idee e riuscii a concentrarmi su quello che dovevo fare.

Dopo la distruzione di tutti gli allevamenti di draghi e la scomparsa degli umani, barricatisi nelle grandi città, fuggiti oltre le montagne o per mare con lo scopo di trovare un luogo migliore, la valle si era trasformata in un luogo deserto. Il silenzio era opprimente.

L'unico rumore che riuscivo a sentire era quello regolare delle mie ali, che si alzavano e abbassavano affinché io restassi in volo, mentre mi lasciavo trasportare dalle correnti ascensionali.

Nessun verso di gufi o civette, nessuna traccia dei piccoli occhietti gialli degli animali notturni che, un tempo, uscivano dalle loro tane col calar del sole. Lo stesso valeva per gli animali diurni. Anche loro, scomparsi.

Oberon aveva detto che il polline non sarebbe stato dannoso per qualsiasi specie, fatta eccezione per quella umana, però gli animali avevano comunque subodorato il pericolo ed erano fuggiti. Queste terre si erano trasformate in una landa fantasma. L'unica cosa rimasta era la nebbia rossa.

Il pensiero del Re delle Querce, racchiuso nel suo bozzolo di legno e linfa, mi spinse a planare verso il grande albero dalle foglie d'argento. Man mano che mi avvicinavo alla terra, riuscivo a vedere sempre più dettagli. I fiori della quercia, grandi come il capo di un uomo, sembrava stessero perdendo sangue sotto forma di vapore. La nebbia attorno all'albero era talmente fitta da formare una barriera attraverso la quale era difficile vedere.

Con quattro tonfi consecutivi, le mie zampe toccarono terra. Sollevai un po' di polvere, e spazzai l'area circostante con le ali, creando una corrente d'aria che ripulisse il luogo quanto bastava per non causarmi un attacco di nausea.

Aguzzai le orecchie, avvertendo delle voci lontane. Ormai, quasi nessuno si receva alla quercia di Oberon. In effetti, sembrava si fossero dimenticati di lui.

Ero l'unico che veniva ancora a fargli visita.

Avanzai lentamente, osservando le venature argentee che scorrevano sotto terra, emergendo in superficie come sottili filamenti che potevano essere scambiati per erba. Le nodose radici della quercia affondavano nel verde come una serie di bolle di metallo, ed erano spesse almeno il quadruplo rispetto al momento in cui l'albero aveva cominciato la sua crescita. Alcune di esse erano grandi quasi quanto me, e anche io ero notevolmente cresciuto, nel frattempo.

Mi accucciai fra due radici, grattando con una zampa il tronco dell'albero.

Seguì un sommesso rumore di legno che si ritirava. Poco dopo, dalla corteccia, emerse il volto di Oberon.

- Oh, ma guarda - mormorò, con un sorriso trasognato. - Sei venuto a trovarmi. Credevo che non saresti più arrivato.

- Sono venuto anche ieri, Oberon - sussurrai, talmente piano che lui non mi sentì. Meglio così. Ultimamente, faceva sempre più confusione con quella bizzarra cosa che noi chiamavamo "tempo". - Questa potrebbe essere l'ultima volta che vengo a trovarti, vecchio mio.

- Perché? - domandò, sempre con quel tono a metà fra il meravigliato e il comprensivo. - Facciamo delle belle chiacchierate, io e te. Sarebbe un peccato se te ne andassi...

- Lo so. Però non posso più aspettare. Non ce la faccio a restare qui. Devo trovare Artigern. O, perlomeno, voglio sapere cosa gli è successo... sono abbastanza grande per badare a me stesso, ormai, e mi muovo velocemente. Non ci vorrà molto affinché io lo trovi. E allora, potremo eliminare questa maledetta quercia.

- Eliminare la... ma perché? E' così bella. E io sto così bene, qui.

- Lo immagino, Oberon. Però cerca di restare lucido. Ricordi cosa sta facendo il polline della tua quercia?

- Il polline?

- Sì, Oberon, il polline. Quand'è stata l'ultima volta in cui hai sentito un merlo appollaiarsi su uno dei tuoi rami o uno scoiattolo fare la tana nel tuo tronco?

Un'espressione confusa e addolorata si dipinse sul suo volto di legno, mentre gli occhi, verdi come la linfa che scorreva al loro interno, si guardarono attorno spaesati.

- Non... non ricordo - farfugliò. - Che cos'è successo?

- Il polline è velenoso. Sta uccidendo gli umani, e ha causato la fuga di tutti gli animali. Gli unici rimasti siamo noi draghi. Nessun fringuello verrà più a farti compagnia, nessuna lepre si rifugerà di nuovo fra le tue radici, a meno che tu non mi aiuti ad eliminare questa quercia.

- Ma se la quercia venisse distrutta, io ne morirei.

- Me l'avevi detto - sospirai, poggiando il muso fra le zampe. - Però tu sei l'ultimo dio della foresta. Non puoi morire. Se accadesse... beh, è meglio non pensarci. Ci dev'essere un modo in cui possiamo...

- L'importante non sono io - mormorò Oberon, come se l'avesse colto un pensiero improvviso. - L'importante è il mio ruolo.

- Come?

Il Re delle Querce mi fissò in silenzio per un lungo istante e temetti che si fosse di nuovo immerso nel suo letargo di pianta, quando parlò.

- Hai ragione, sono l'ultimo. L'ultimo non può essere distrutto. In me vive l'eco dei miei compagni, e parte dell'energia di chi ha abbandonato queste terre alla ricerca di posti migliori. La mia essenza deve sopravvivere. E' questo l'importante, non io. E' questo...

Oberon si perse di nuovo, contemplando una fogliolina d'argento caduta dal suo ramo, piroettando leggiadra, per poi posarsi su una mia zampa.

- Oberon! - sibilai, cercando di scuoterlo dal suo torpore.

Lui sussultò e batté le palpebre.

- Cosa stavo dicendo?

- Che c'è un modo per far sopravvivere la tua essenza, e la foresta stessa - gli rammentai, guardandomi alle spalle.

Forse ero paranoico, ma mi sembrava che le voci si stessero facendo più vicine.

- Gli Athi sapevano come fare. Polonius lo sapeva... Polonius sapeva tutto. A Folis, nella biblioteca. Lì c'è scritto cosa sapere.

- Oberon... - farfugliai, sconsolato. - Ti prego, dimmelo tu. So che lo sai, Oberon. Per favore!

- Vai... a... Folis... - sussurrò il Re delle Querce, mentre il suo volto scompariva, tornando a far parte della quercia.

Osservai il punto in cui era scomparso, avvilito. Maledizione. Ogni volta andava così. Il tempo che ci mettevo a svegliarlo e ricordargli l'urgenza di trovare una soluzione era sempre troppo. Oberon finiva per riaddormentarsi prima della fine del discorso. A nulla valevano le mie parole seguenti, né i colpi che, a volte, avevo inferto alla quercia per via della frustrazione.

Oberon si stava trasformando del tutto in un albero. Presto ci sarebbe stato poco da fare.

Mi voltai di scatto, col cuore in gola, e restai in silenzio, senza muovere un muscolo. Trattenni il respiro. Mi era sembrato di sentire un rumore vicino, molto vicino.

Restai in quella posizione per un po', finché non mi convinsi di essermelo immaginato di nuovo.

Cauto, tornai sui miei passi.

Attesi che non ci fosse nessuno e mi issai in volo.

Avevo ripetuto quel percorso centinaia di volte, ormai, e, più in alto mi trovavo, più mi sentivo al sicuro, ma questa volta c'era qualcosa di diverso.

Forse, non era solo paranoia.

Forse, era qualcosa di più concreto.

Avvertii un ruggito, seguito da una luce prepotente, accecante, e una vampata di calore. Una fiammata.

Compii un giro su me stesso per schivarla e, nel mentre, riuscii a guardarmi alle spalle. Un lampo blu mi stava seguendo.

- Zharr! - ululò Reod, furibondo. - Non ti permetterò di andartene! O con noi, o con nessuno!

Il cuore mi batteva talmente forte che riuscivo a stento a mantenere la rotta. Per fortuna, nonostante fossi della taglia di un drago adulto, ormai, era piuttosto piccolo e veloce, se paragonato a Reod, e riuscivo a sfuggirgli senza troppa difficoltà. Però le sue fiammate avevano una gittata talmente ampia che arrivavano sempre a un millimetro dal toccarmi.

Questa danza nel cielo proseguì a lungo. Era tremendamente sfiancante. Speravo che Reod si sarebbe stancato, vista anche la sua età, e sarebbe andato a chiamare dei rinforzi invece di seguirmi da solo, dandomi il tempo di fuggire... ma non sembrava averne la minima intenzione.

Decisi che avrei cercato di seminarlo dove la nebbia rossa era più fitta, dove i giganti della foresta, alberi talmente alti e spessi da svettare di una buona decina di metri rispetto agli altri, sarebbero stati un ostacolo sufficiente da costringerlo a rallentare.

Come una freccia, piombai nella nebbia, sollevando un'ondata di polline rosso.

Poco dopo, avvertii il volo sgraziato ma potente di Zharr avvicinarsi alle mie spalle, con falcate poderose.

- Vieni qui! - ruggì, facendo seguire alla minaccia un'altra fiammata. - Codardo, affrontami!

Così da permetterti di bruciarmi vivo?, pensai, col cuore in gola. Il mio orgoglio, che avevo finora ritenuto grande come il Monte Zanna, si rivelò sorprendentemente immune all'accusa di codardia, in tale frangente.

Inoltre, ero talmente impegnato a schivare i tronchi dei giganti, che diventavano visibili appena in tempo affinché li evitassi, da non potermi nemmeno sentirmi offeso per le sue parole.

Poi, mentre Reod era impegnato nel suo ennesimo grido, ci fu un tonfo terribile, seguito da un grugnito di dolore, e un altro tonfo, più attutito.

Ancora col cuore che batteva come quello di un passerotto, proseguii e proseguii, finché l'evidenza non riuscì a scalfire il panico che mi avvolgeva.

Reod aveva colpito un albero.

Reod era caduto.

Rallentai.

Mi fermai.

E poi, per chissà quale stupido motivo, tornai indietro.

Provavo un bizzarro miscuglio di sensazioni, annidiate nella pancia come un gomitolo. Da un lato, Reod mi aveva allevato e insegnato tutto il necessario per essere un buon drago, il che voleva dire un drago feroce. Si era preso cura di me. Non come Artigern, che mi aveva dato il suo affetto, ma si era preso comunque cura di me, per quanto Reod tendesse spesso a confondere l'amore col possesso. Mi riteneva suo, e pensava fosse un oltraggio che io lo abbandonassi.

Quando lo raggiunsi, vidi che era ridotto piuttosto male.

Aveva un'ala piegata in una strana angolatura e il muso insanguinato. Erano ferite gravi, abbastanza gravi da impedirgli di attaccarmi qualora mi fossi avvicinato, ma non tali da ucciderlo.

Percependo il mio odore, aprì gli occhi.

Emise uno sbuffo doloroso, che formò una nuvoletta opaca nell'aria zeppa di polline.

- Zharr, vieni qui - mormorò, con le poche forze che aveva. - Vieni.

Io non mossi un passo.

- Dopo tutto quello che ho fatto per te. Il mio cucciolo - gorgogliò.

Mio.

Sempre mio.

- Ti sei preso cura di me e ti ringrazio per questo - sussurrai, con voce tremula. - Mi... mi dispiace per quello che ti è successo. Qualcuno ti troverà. Ti cureranno. Però io non sono il tuo cucciolo. "Mio"... parli come un umano, Reod. O come quegli Athi che tanto disprezzi. E che, forse, sono meglio di te.

- Piccolo ingrato... - sibilò lui.

Mi abbassai, evitando a stento la fiammata, che incendiò alcuni tronchi alle mie spalle, e fuggii, spiccando il volo non appena ebbi abbastanza spazio. Mentre mi allontanavo, mi sembrò di sentire Reod lamentarsi, ripetendo "torna da me".


Dite che Reod vi fa un po' di tenerezza. A me sì. Mi fa compassione. Comunque, forse non è così cattivone. Ma non è neanche buono, eh. E' strano... già, già. Siamo più o meno a metà storia, comunque. Forse un po' di più. Scusate se questa è lunga, ma non scrivo filler, penso che ogni cosa serva e si incastri nel puzzle.

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