Capitolo 27: Mulkin, il soldato


Artigern

- Non voglio il tuo aiuto! - sibilò il fagotto di stracci, quando cercai di sollevare il cappuccio nero che portava calato sul volto.

Io lo ignorai, chinandomi al suo fianco, mentre mormoravo parole di conforto.

Aprii la piccola borsa di cuoio con le medicine che distribuivo ogni notte e aprii la scatola in cui tenevo il balsamo creato da Melina. Lo porsi al malato, di cui riuscivo a scorgere solo il luccichio degli occhi, neri come la pece. Erano ancora vivaci, per essere in uno stato tanto avanzato della malattia.

- Tieni - gli dissi, porgendogli il medicamento. - Mettilo attorno al naso e sulle ferite. Filtrerà l'aria, rendendoti più facile respirare, e renderà il dolore delle piaghe più sopportabile.

L'individuo mi scrutò in silenzio, soppesandomi. Poi, decise che, qualunque cosa gli avessi dato, non avrebbe potuto stare peggio di così, e accettò.

Una mano pallida, dalla pelle sottile come un velo trasparente, emerse dalla palandrana nera che indossava, ricoperta di toppe. Riuscivo a intravedere ogni singolo dettaglio di ciò che c'era sotto la pelle, specie nelle parti più esposte all'aria.

Potevo scorgere le vene che pulsavano nei punti in cui la pelle si era ridotta a uno strato infinitesimale. Non era uniforme, si trattava di chiazze della grandezza di una mela, ma alcune di esse erano sul punto di trasformarsi negli ascessi dai quali poi sarebbe emersa una delle piante fantasma.

Qua e là, con la coda dell'occhio, vidi una pila di cadaveri ammonticchiata vicino a dove, un tempo, c'erano state le bancarelle di Kurna.

Erano passati diversi anni, e il luogo aveva subito un cambiamento radicale. Non c'era più il costante chiasso nel quale ero cresciuto da bambino. Niente guardie, niente bancarelle, niente gente che corre su e giù presa dai suoi affari, reggendo dei cesti pieni di abiti da lavare, uova, pane o quant'altro, gridando da una parte all'altra del centro.

Al termine del mio giro, ogni notte andavo a controllare al castello dei bambini straccioni, ma non avevo mai trovato nessuno di loro. Una parte di me sperava ancora di poter trovare Bonnie, Jamie o chiunque altro fosse stato un volto comune, ma ormai ci credevo poco. A meno che non fossero fuggiti prima della diffusione della Nebbia, non potevano essere sopravvissuti.

Deglutii a fatica, sistemandomi meglio la sciarpa con cui mi ero coperto il viso. Kurna era zeppa di polline. Le montagne bloccavano il vento da est, causando una stagnazione della sostanza mefitica, e anche per me era difficile restare qui a lungo.

La gola cominciava a bruciarmi e gli occhi mi lacrimavano.

Il malato, con gesti lenti e cauti, stava spalmando l'unguento sulle ferite.

- Ora devo andare, o starò male - sussurrai, deglutendo di nuovo. La mia saliva era pastosa e aveva quell'odioso sapore dolciastro, come quello che resta sulla lingua dopo aver aspirato certi fiori d'ortica. - Non appena starai meglio, vattene da qui. E' il posto peggiore dove restare, se vuoi guarire. Cerca di raggiungere la costa. Là starai bene, qualcuno ti aiuterà. Ad Amaranto si dice persino che abbiano trovato una cura.

L'uomo mi osservò in silenzio. Non dava cenno di volermi rispondere e decisi di andare.

Avevo compiuto il primo passo, quando la sua voce, rauca e sottile, mi fermò.

- Sei un Athi, non è vero? - sibilò, tossendo in modo doloroso.

Il mio cuore mancò un colpo. Mi ero coperto i capelli ed ero avvolto nella stoffa dalla testa ai piedi, per impedire alla mia pelle di entrare a contatto col polline. Come faceva lui a sapere?

- Ho conosciuto degli Athi - sussurrò, alzandosi in piedi mentre si aggrappava al muro. - Avevano degli occhi come i tuoi... erano dei buoni medici. Hanno insegnato a me e ai miei soldati un sacco di cose.

Lo guardai. I suoi occhi neri, due spilli lucidi, mi fissavano, con una muta domanda.

- Ciò che sei stato in passato non ha importanza. Soldato o no, sei debole - mormorai. - Non credo che una camminata verso le montagne sia la soluzione migliore, per te.

- Non ho altro posto dove andare - disse.

**

Io, Nonna e Melina ci eravamo trasferiti in un'altra casa. Un fienile abbandonato, in una zona collinosa a circa venti chilometri da dove ci trovavamo prima.

Eravamo vicini a una delle vecchie città degli Athi, secondo Nonna, sebbene fosse stata del tutto colonizzata dagli umani.

Non ci ero mai stato, ancora. Non avevo molto tempo per fare il turista. Ero troppo impegnato a correre qua e là nel tentativo di arginare il morbo della Nebbia, portando alcune medicine sperimentali di Melina nelle città più grandi. Molti le avevano abbandonate, mentre altri, come il mio compagno di viaggio, non erano riusciti a farlo, non vedendo quali altre prospettive avessero o talmente fiaccati dalla malattia da non averne la forza.

In un giorno di cammino saremmo dovuti arrivare.

Per via della camminata lenta del mio compare, ne impiegammo ben due.

Temevo che sarebbe morto di stanchezza durante il tragitto, ma la sua tempra era straordinariamente forte. Dovevamo fermarci spesso, ma, quando ripartivamo, il suo passo manteneva un ritmo accettabile, sebbene fosse incerto.

La nebbia era assai più rada man mano che ci allontanavamo dalla zona di Kurna. Dopo aver attraversato il Grande Fiume, oltrepassandolo in uno dei tanti ponti che lo collegavano all'altra estremità della valle, l'aria diventò respirabile e il fastidio tollerabile.

Anche il mio amico sembrò star meglio.

La sera, però, era talmente esausto che ci mancò poco si accasciasse al suolo. Io cercai di aiutarlo e accesi un fuocherello per la notte, mentre estraevo del cibo dallo zaino più grande, che portavo sulla schiena.

Prima di farlo mangiare, cercai di togliergli il cappuccio, e una delle sue mani ossute si strinse attorno al mio polso destro, con una presa più salda di quanto avrei mai immaginato. Le sue unghie erano lunghe e giallastre, sfrangiate sulla punta, molto sporche. Chissà da quanto non si lavava.

- No - sibilò, furioso.

- Devi pulirti - mormorai, senza desistere, stringendo il panno che avevo imbevuto nell'acqua bollente per disinfettarlo. - Avrai un'infezione se...

- Faccio da solo - ringhiò, pretendendo che gli dessi lo straccio.

- Ho visto molti malati - gli feci notare. Il suo atteggiamento era comprensibile ma stupido in una tale situazione.

Lui emise un sibilo, poi sospirò, rassegnato, e mi lasciò.

Si voltò dall'altra parte, mentre io, con delicatezza, abbassavo il suo cappuccio.

L'uomo mi scoccò un'occhiata di astio, come se volesse sfidarmi e sperasse fossi inorridito dallo spettacolo grottesco che era la sua faccia.

- Ho visto di peggio - sospirai, senza fare una piega, mentre pulivo con delicatezza l'ascesso sulla parte destra del suo volto.

In realtà era una bugia. Quella piaga era terrificante, nera all'interno, giallastra e rossa alle estremità. Potevo vedere il principio di un fiore che cominciava a scavare nella pelle per emergere, e dovetti estrarlo a mani nude, perché non avevo pinze con me.

L'uomo non disse nulla. Ormai era completamente desensibilizzato in quei punti, ed era una buona cosa, durante un'operazione tanto spiacevole.

Una goccia di sangue nerastro colò lungo la guancia. Premetti finché tutto il veleno non fu uscito e il sangue tornò ad essere rosso, come avrebbe dovuto essere.

Quindi disinfettai ancora la ferita, pulendola da ogni traccia di pus o piccole radici, e vi spalmai sopra l'unguento.

- Ecco - mormorai. - Dovresti stare molto meglio, domani.

Lui tirò su il cappuccio.

Quando gli offrii la zuppa, la sorbì senza fare un rumore.

Era talmente silenzioso da preoccuparmi.

Dopo che avemmo mangiato, misi via la ciotola che avevo usato per entrambi, dopo averla lavata nell'acqua bollente, e preparai due giacigli.

- Cerchiamo di dormire - gli dissi. - Domani sarà una lunga giornata.

Ci fu qualche minuto di silenzio. Stavo per addormentarmi, quando lui parlò.

- Mi chiamo Mulkin - sibilò, in tono sprezzante, come se mi avesse appena rivolto un insulto.

- E io Artigern. Piacere di conoscerti - risposi, mezzo addormentato, senza badare troppo al suo modo di fare.

- Non conosci il mio nome? - domandò, con una nota di stupore.

- Dovrei?

- Lavoravo per l'allevamento Minston.

- Tutti lavoravano per l'allevamento Minston - gli feci notare, con un sospiro. - Dormi.

- Davvero non mi hai mai sentito nominare?

- No. Sono molto stanco, adesso, e penso che anche tu lo sia. Buonanotte.

Mulkin, che era rimasto in silenzio per la maggior parte del nostro viaggio, aveva un'improvvisa quanto aggressiva voglia di chiacchierare.

Riuscì a resistere solo per due minuti, prima di sbottare:

- Ero a capo della squadra che catturava quelli come te. Per questo conosco tante cose sulla tua specie.

Nel buio, mentre le ultime braci del fuoco sfrigolavano di piccoli vermicelli rossi, aprii gli occhi.

Riflettei sulle sue parole.

- Buon per te - conclusi infine.

- Non ti rendi conto di chi hai salvato?

- Per essere un soldato fai davvero il difficile. Volevi che ti lasciassi a morire sulla strada?

Lui rifletté a sua volta.

- No. Per questo non te l'ho detto, prima. Ma tu mi hai aiutato, quindi ho pensato di doverlo fare, ora.

- Potevi anche tenerlo per te. Non sei più un soldato, e io non sono più un Athi. Siamo uguali, quando c'è la morte nell'aria. Quindi, dormi e smettila di blaterare.


Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Per via di impegni non ho potuto mettere il capitolo ieri, ma eccolo qua. Spero di riuscire a finire il seguente per giovedì, visto che ho alcuni esami i primi di novembre. In caso contrario, non preoccupatevi, sono sempre qui, anche se non mi faccio sentire :) Se avete voglia di chiacchierare, potete mandarmi qualche messaggio privato o in bacheca, a me fa sempre piacere!

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