Capitolo 9. Rabbia
Non so per quanto sia rimasto privo di sensi, ma presumo sia passato poco tempo: fuori è ancora buio e io sono ancora stanco. Un'altra cosa rimasta invariata rispetto al momento in cui ho chiuso gli occhi è che non sono solo. Non in senso ontologico esistenzialista, almeno.
«Sei me?»
«Sì. E no.» La sua voce è la stessa che sento nelle mie note vocali quando le riascolto per accertarmi di aver detto tutto ciò che dovevo.
Sono sicuro che nascosti nella mia memoria ci siano precisi esempi letterari o cinematografici da cui attingere per aiutarmi a dare un senso e definire cosa sta succedendo, ma non riesco a farmeli venire in mente, e comunque al momento sono incapace di formulare anche le domande più semplici, figuriamoci dei paragoni tra episodi fantastici e la realtà, per quanto bizzarra sia.
L'assurdità della situazione mi si rovescia addosso e mi investe, come se un barattolo di vernice nonsense ricoprisse completamente ogni mio spiraglio di ragionevolezza. Ci ho messo diversi giorni per accettare la stramba piega che ha preso la mia vita a partire dal primo squittio sentito in casa, ma sembra che ora le mie tempistiche per metabolizzare i nuovi livelli di follia sbloccati si siano ristrette ai minimi termini, quasi annullate. O semplicemente si è acceso qualcosa, in un meandro della mia mente, in grado di comprendere questi eventi con un po' di anticipo, un po' come quando il rumore di una penna per terra mi ha fatto chinare a raccoglierla, già consapevole di cosa fosse.
«Sei un sosia?»
«No.»
«Un clone?»
Riflette qualche secondo. Sta probabilmente considerando che in senso letterale nessuno si è assunto il compito di prendere un essere umano di partenza A (io) e da questo creare l'essere umano B (lui). In questo senso no, non è un clone. «Nessuno mi ha creato a partire da te. Io sono te. Ma anche no.» Non solo mi somiglia, ragiona come ragiono io.
Ho lo stomaco in subbuglio: malgrado il mio equilibrio psichico regga ancora e non sia ancora andato completamente in frantumi, credo che il mio corpo stia somatizzando tutta questa follia. Devo bere un bicchiere d'acqua, sciacquarmi la faccia. Guardo il pavimento e non trovo le ciabatte, solo ora mi torna in mente di averle coperte di vomito. Che schifo.
«Le ciabatte sono in bagno, a mollo nel lavandino, vuoi le mie intanto?»
Guardo ai suoi piedi e ci trovo i miei infradito, poi è nudo fino alla coscia, e lì i miei boxer. Perché non ho notato subito che era mezzo nudo? Un uomo in mutande non è una cosa che vedrei volentieri appena aperti gli occhi, a maggior regione nel dubbio che si possa trattare qualcuno che si è intrufolato in casa senza invito.
«Quelle non sono tue, sono mie. Hai addosso la mia roba» gli faccio notare.
«No,» spiega lui pacatamente, «queste sono le mie cose, sono come le tue, ma non sono le tue.»
Mi guarda in silenzio, mentre mi alzo e lascio la stanza. Non mi segue, sembra intenzionato ad aspettare che torni in camera per continuare la spiegazione.
«Vieni!» Lo chiamo quando raggiungo la cucina. Mi verso da bere dell'acqua, un bicchiere, due bicchieri, mi sembra che il blocco d'argilla che sento in gola non si sciolga mai, per quanta acqua possa mandare giù. Cerco gli alcolici, qualcosa di forte, ma trovo solo la birra. Meglio che niente. Ci sediamo al tavolo della cucina, uno di fronte all'altro. Io accendo una sigaretta, gliene offro una ma lui rifiuta.
«Ho appena smesso» mi dice.
«Quando?»
«Qualche giorno fa ho comprato un pacco di sigarette, ne ho fumata qualcuna, ma ho smesso di nuovo prima di ricaderci del tutto, di nuovo.» Indica l'accendino accanto al pacchetto e aggiunge: «L'ho comprato insieme a quell'accendino».
«Ah, quindi abbiamo comprato un pacco di sigarette, ma poi io ho continuato a fumare e tu no? Mi stai dicendo questo?»
«Sì, più o meno. Fino alla settimana scorsa io ero te, esattamente la stessa persona, un'unica entità. Io ho comprato, tu hai comprato: si può dire che entrambe queste frasi siano esatte. Ma adesso non lo sono più: tu fumi, io non fumo. Io sto parlando, tu ascoltando. Capisci?»
Sì, capisco. Stranamente capisco. «Cosa sei? La versione migliore e più intelligente di me, come in quella serie di Netflix?» Ecco l'esempio che mi serviva poco fa, emergere al momento del bisogno.
«No.»
Guardo verso la porta della cucina che dà alla sala. «Ok, vieni dal buco che ho fatto nel muro, giusto?»
«Che hai allargato, semmai. Il buco c'era già.»
«Ma davvero sono così indisponente e puntiglioso?» Il mio è quasi un borbottio tra me e me, ma com'è ovvio che sia, lui lo coglie.
«Dipende con chi hai a che fare. Questo almeno è quello che dice sempre Sonia, no?» Sonia. Ancora quel nome.
«Sonia?»
Lui fa una faccia strana, la mia faccia strana. Prima mette su un cipiglio sospettoso, ma subito dopo si fa scappare un sorrisetto. «Sì, certo, Sonia» risponde come se fosse ovvio. Riflette in silenzio qualche istante e raggiunge una conclusione: «Quindi è così. Lei dev'essere una di quelle cose».
Una di quelle cose? Quali? Mi aspetto che capisca a cosa sto pensando, ma anche se sono sicuro abbia colto la domanda che vorrei porgli non sembra intenzionato ad anticipare la sua spiegazione. «Quali cose?» mi costringe a chiedergli.
«I pezzi che ti sei perso.»
«Che mi sono perso? Io non ho perso proprio un bel niente, ma di cosa stai parlando?»
Sospira, con una supponenza che mi fa venire voglia di prendermi a pugni. «Ricordi quando tuo padre, mio padre, riparava qualche elettrodomestico e lasciava fuori dei pezzi? Ci pensavi giusto l'altro giorno.»
«Sì, e...?» incalzo con una certa impazienza, «quindi?»
«Ecco, ora anche tu hai perso dei pezzi, anche se continui a funzionare.»
«E questi pezzi me li avresti portati via tu? Mi stai dicendo questo?»
«Li ho io? Sì. Te li ho rubati? No. In fondo sono miei, lo sono sempre stati.»
«Beh, li rivoglio. Rivoglio tutti i miei pezzi, inclusa questa Sonia.»
Scuote la testa. «Non ti darei mai questa parte. Anche se sapessi come fare e ne avessi l'intenzione, ti darei tutto quello che vuoi, ma non Sonia.»
«Perché no?»
«Perché Sonia è l'amore della mia vita, la parte di me che mi piace di più, mentre tu... beh, tu non sapresti che fartene. E lo hai ampiamente dimostrato, in passato. Due volte.»
«Cos... aspetta, mi devo sedere.»
«Ehm... Sei già seduto» mi fa notare lui. Inizio a odiarlo. Non credo di essere così, di avere questo atteggiamento e questa calma serafica, ma lui è me quindi devo arrendermi al fatto di essere così fastidioso anche io, agli occhi degli altri, in determinate circostanze.
«Ma perché sei così calmo? Se tu fossi davvero me dovresti dare di matto come sto per fare io; invece, te ne stai qui, seduto davanti a me, a dirmi che ami... chi? La mia ragazza? Il mio primo amore? Lei chi è?»
«La mia ex.»
«Ok, la mia ex. Tutto quello che ti interessa ora è pensare a lei, di tutto questo casino non ti importa nulla? Come fai a essere così calmo? Perché non stai dando i numeri?»
«E tu come mai non li stai dando?»
«Beh, fidati che li sto per dare.»
«Sì, è quello che dici. Dici che stai per dare di matto, ma non lo stai facendo.»
«Che significa?»
Invece di una risposta lui riflette di nuovo, inizialmente in silenzio, poi in modo più palese. «Mhhh...» fa lui, e io giuro che vorrei chiudermi in casa e non uscire mai più, se questa è l'impressione che hanno di me le persone quando esprimo un'idea diversa dalla loro o ragiono su qualcosa. «Secondo me non sei agitato come dovresti» aggiunge con tutta calma.
«Ah, quindi dovrei incazzarmi di più? Cambierebbe qualcosa se adesso dessi davvero i numeri?»
«No. Non è quello che stavo cercando di dirti. Ti sto solo dicendo che non sei agitato come lo saresti stato fino a un paio di giorni fa. Devi aver lasciato qualcosa di là,» indica la stanza con il maledetto portale che l'ha sputato fuori, «qualcosa che però non ho preso io, ma quello con il coltello.»
«Quello con il coltello? E ora di che parli?» Non gli sto più dietro, non lo seguo.
Si massaggia la fronte e passa le dita sulle palpebre abbassate, come se questo discorso lo stesse stancando e allo stesso annoiando a morte: «Quando sei passato la prima volta eri vestito così: boxer e infradito. Non molto intelligente da parte tua, se posso».
«Guarda che lo stesso vale per te, non hai appena detto che eravamo la stessa persona?»
«Beh, comunque», riprende facendo un po' il vago, per nulla turbato dalla mia stoccata verbale, «tornando indietro hai lasciato un'impronta. Non ti sei sdoppiato né clonato come credi, quello che è successo è stato più simile a generare una traccia di te stesso, con ricordi, emozioni, tratti del carattere. Mi segui?»
«Sì, certo.» Ho perso il suo filo logico proprio poco fa, in effetti, ma mento, come faccio sempre quando mi spiegano cose che si aspettano io capisca al volo.
«Bene, quando ti sei staccato da questa impronta per tornare in casa, c'è stato un secondo in cui sei allo stesso tempo passato nel portale e non passato nel portale, ed è il momento in cui io ho smesso di essere te, per essere me.»
Sì, ora che ci penso ricordo qualcosa che mi tratteneva, come se mi strattonasse, era il momento in cui mi veniva strappato qualcosa? «Oook...» Lo esorto a continuare, sembro iniziare capire cosa sta cercando di spiegarmi, torna la sensazione di quando, da questo punto in poi, la mia mente già sapesse.
«Hai la sensazione di aver dimenticato delle cose, giusto?»
«Vero» confesso. «Ed è più di una sensazione. Ho scritto cose che non ricordo nemmeno di avere pensato.»
«E ti sei anche sentito un po' cambiato quando sei tornato in casa?»
«In effetti sì.» Come fa a saperlo se non era più me?
«Ecco il motivo: hai lasciato qualcosa attaccato alla tua impronta, a me.»
«Cioè sei nato dalla mia spazzatura?»
«Non hai capito un cazzo, vero?»
«Sì sì, ho capito. Di certo non è l'ironia la cosa che hai preso.»
«Di scherzare ora non ne ho voglia e non è questo il punto: la seconda volta sei entrato equipaggiato meglio e armato, se così si può dire, dato quel misero temperino.»
«Beh, sai, non sono uno sbirro, non ho il porto d'armi e non siamo negli USA. Avevo solo quello a disposizione come potenziale arma!»
Ignora di nuovo il mio commento e prosegue a spiegarmi le cose come se fossi un bambino. Inizio a sospettare che insieme a questa fantomatica Sonia abbia lasciato di là anche un po' della mia intelligenza, o forse è solamente lui che si è beccato la mia arroganza. «E ora non sei agitato, non quanto dovresti esserlo di norma, in una situazione simile. Non sei particolarmente nervoso, a dispetto degli eventi e di queste rivelazioni sei piuttosto pacifico e accomodante anche nei miei confronti...» Aspetto la fine della frase, ma lui lascia le frasi in sospeso, come mia madre, come se si aspettasse che dai suoi discorsi frammentari io possa trarre chissà quali conclusioni, giungere alla soluzione di un enigma che mi ha appena sottoposto. Ma non fa prima a dirmi dove vuole arrivare?
«Sì, beh, me la sono presa con me stesso fin troppe volte nella mia vita, anche se non in modo letterale, come potrei invece fare ora.» Io invece divago, disattendendo ogni sua previsione più ottimista in tal senso.
«Continui a perdere la concentrazione, ti succede da un po'?» Nota lui, assumendo un tono che mi ricorda il mio dottore e innesca così in me uno strano meccanismo mentale che mi fa iniziare a rispondere sinceramente, come se parlassimo di un sintomo di cui si è appena informato; i colloqui con i vari medici di turno sono state le chiacchierate più sincere della mia vita.
«Sì, anche al lavoro è da qualche giorno, da quando...» Mi blocco. Ci guardiamo, ora ho capito. «Ah.»
«Già. Ce l'ho io» ammette finalmente.
«E quindi,» cerca di fare il punto riprendendo il filo del discorso, «cos'altro senti di avere un po' perso da un paio di giorni?»
«La... rabbia?» Chiedo un po' dubbioso e spaventato. «Ce l'ha lui?»
«Sì, ce l'ha lui, quello con il coltello, il cellulare e la torcia in testa.»
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