Capitolo 7. Due
«Quando guardi a lungo nell'abisso l'abisso ti guarda dentro.»
Friedrich Nietzsche
Il ritorno in ufficio e a ciò che prima, quando i miei sogni a occhi aperti riguardavano diventare improvvisamente ricco e non dover mai più lavorare in vita mia, chiamavo "realtà", era d'obbligo. Ho anche dovuto rassicurare i colleghi sul mio stato di salute e rispondere al loro finto interesse con improvvisati e generici problemi familiari che mi hanno costretto a casa nei giorni scorsi. La mia spaventosa scoperta mi ha soltanto risparmiato una settimana uguale a tutte le altre: nulla di ciò che facciamo qui è fondamentale, per niente e nessuno a questo mondo. Zero.
Ma quello che c'è sul muro di casa mia, quello sì che può stravolgere l'intero Universo. Per tutto il fine settimana non ho fatto altro che pianificare ulteriori esperimenti e test sul portale. Ho deciso inoltre di smettere di chiamarlo breccia, fessura, squarcio, tana, in favore di un nome più preciso e vagamente scientifico, oltre che evocativo di una serie di riferimenti cinematografici e videoludici a me cari. Ma la smania di cui mi sono nutrito nei giorni scorsi e che mi ha animato febbrilmente si è spenta appena rimesso piede in ufficio.
Mi sono sempre cullato nell'idea che la mia rapida, seppure ancora acerba carriera, fosse merito del mio duro lavoro: qui porto scrupolosamente a termine ogni incarico, nessuna pratica aperta, nessun «lo farò domani», se posso finirlo oggi. Questo, unito a tanta determinazione e ambizione, mi ha garantito in poco tempo un paio di avanzamenti e un po' di soddisfazione personale. Fino a oggi. Oggi non c'è nemmeno l'ombra della mia solita concentrazione, compio ogni azione in modo quasi meccanico, senza rifletterci. È tutto uno scorrere di scritte su fogli, dentro cartelline, su post-it, su schermo, su appunti. Ma non cambia nulla: che io sia super attento o che faccia le cose in modo superficiale e con la testa altrove, non fa differenza per i risultati, la mia totale mancanza di concentrazione non pregiudica il mio rendimento.
Quindi quante ore della mia vita ho sprecato impegnandomi al massimo in un lavoro che avrei potuto svolgere come adesso, distratto dai miei pensieri? Avrei potuto ascoltare della musica in cuffia, come fanno molti colleghi. Avrei potuto persino guardare video, passare del tempo sui social, chattare, leggere articoli di scarso interesse delle serie "Le dieci cose che...", distribuito in dieci pagine, per costringerti a fare dieci click. Avrei potuto fare centinaia e migliaia di decine di click su articoli del genere per scoprire cose del tutto inutili e passare il tempo, mentre in sottofondo portavo a termine i miei stupidi e altrettanto inutili compiti giornalieri per assicurarmi lo stipendio. Ma non è troppo tardi per iniziare.
La mia mente vaga a casa, al mio portale. C'è qualcosa di spaventoso lì dentro, qualcosa di vivo. L'ho sentito chiaramente respirare, sono sicuro non fosse frutto della mia immaginazione. Magari potrei scoprire nuove razze animali, e perché no, creature fantastiche. Non sono stato ferito o attaccato quando sono entrato; quindi, potrei essere stato semplicemente osservato. Potrebbe esserci una rispettosa e pacifica reciprocità in questo, se si trattasse di un essere vivente. Umano? Antropomorfo? Alieno? Ma finché non farò luce, letteralmente, c'è ancora una possibilità che quello che ho sentito non fosse un respiro, ma ciò che sembrava all'inizio: un semplice soffio d'aria. Continuo a convincermi di un'ipotesi e subito dopo del suo contrario: c'è una creatura. No, è impossibile. Sì, sono sicuro che ci sia qualcosa lì dentro. E così via. È snervante, ho bisogno di essere certo di qualcosa.
Prima di tutto devo trovare il modo per assicurarmi la strada del ritorno da un luogo privo di qualsiasi riferimento visivo o tattile. Ho pianificato di legare una corda da arrampicata alla vita, come se partissi per una scalata, e agganciarla dentro casa a qualcosa di pesante, un termosifone. In questo modo posso avventurarmi un po' più lontano, almeno di qualche passo.
Sono ormai più che deciso a portare con me anche un'arma. Nulla di eccessivo, solo un piccolo coltello, in caso mi dovessi difendere da qualcosa o qualcuno. A dire il vero non so nemmeno usarlo, è un coltellino svizzero che un cliente ha regalato a tutto il team che ha lavorato per lui, insieme a una bottiglia e un pezzo di formaggio stagionato. Non mi ero mai soffermato troppo su come queste tre cose possano armonizzarsi in un unico regalo fino a ieri, quando ho analizzato tutte le estremità estraibili del coltello, tra cui un paio davvero perfette per aprire bottiglie di vino e per tagliare il formaggio. Mi sfugge ancora la necessità di consumare queste due cose lontano da una cucina ben fornita di tutto, però ora so che in caso di necessità, nelle mie avventure, munito di quell'attrezzo, potrei anche fare uno spuntino gourmet. Anche se credo resterà nella mia tasca per tutto il tempo, averlo con me mi farà sentire più sicuro, protetto. Per citare mio padre: non si sa mai. E scarpe da ginnastica, vestiti comodi più adeguati di boxer e infradito. Non ho una Go pro, ma spero di riuscire a documentare qualcosa anche solo con il telefono. Infine, per fare luce continua e avere le mani libere, userò la mia torcia frontale comprata all'Obi per dodici euro.
Ripeto le fasi della mia preparazione fino alle diciassette, timbro, e per tutto il tragitto verso casa continuo a ripassare il mio piano d'azione, fase per fase, anche mentre lo sto già mettendo in atto: «vestiti comodi» mentre indosso la tuta, «scarpe da ginnastica» mentre mi allaccio le scarpe, «telefono, coltellino» nel mettere gli oggetti in tasca, «torcia frontale» nel posizionarmi la torcia sulla testa, «corda legata in vita» nell'agganciarmi al termosifone. Tempo scaduto per la teoria, dopo una giornata consumata dall'inutilità, inizio finalmente la mia avventura.
Salto dentro, stavolta con più decisione, senza far passare prima la mano, senza ricorrere all'imitazione di chi sta sfondando una porta. Faccio un altro passo in avanti, nel buio. Accendo la mia torcia sulla testa, pronto a godere di chissà quali meraviglie finora precluse alla mia vita, cosa che avverrà quando la lucetta che ho sulla fronte le rivelerà per me. Peccato non funzioni. Emette solo un rapido bagliore, un tenue sfarfallio elettrico, poi muore. Niente panico: piano B, il telefono. Lo prendo dalla tasca, sblocco lo schermo pronto ad attivare la torcia. Anche lui illumina qualche istante le mie speranze, poi si oscura senza più dare segni di vita, nonostante non senta la vibrazione dello spegnimento.
«Ok, questa cosa va fatta alla vecchia maniera», borbotto, come se pensare ad alta voce potesse trasferire automaticamente le mie osservazioni sulla mia agenda o su un file di testo. «Partirò con un accendino domani. Anzi, non domani, torno indietro e ne prendo subito uno.»
Sono del tutto a mio agio nel camminare nel nulla dimensionale in cui mi trovo, come se non facessi altro da anni e questo spazio oltre il portale fosse parte di casa mia e quindi mio di diritto. È strano che io abbia smesso di avere paura di stare qui, che non tema minimamente di trovarmi in un luogo fuori dalla realtà, a me estraneo fino a poco fa? Questo senso di familiarità con l'ambiente e l'assoluta assenza del mio solito disagio nell'affrontare nuove esperienze inizia a turbarmi: ciò che sto vivendo mi sta davvero cambiando così tanto? Considerando che ho appena iniziato mi chiedo come sarò quando arriverò in fondo a tutta la questione.
Ora però devo tornare in casa per procurarmi un accendino, altrimenti oggi non farò progressi, scoperte o incontri straordinari. Indietreggio seguendo la corda; preferisco così, piuttosto che dare le spalle all'ignoto. Proprio come l'altro ieri: un passo, due... Un rumore plastico, contro la scarpa. Uno di quei rumori che conosco bene, che sento da anni, non un suono in grado di mettermi in allarme. E anche il mio corpo sembra riconoscerlo, tant'è che istintivamente mi fa agire in automatico, a memoria: mi chino, tastando un paio di volte nel nulla, quindi afferro con sicurezza qualsiasi cosa io abbia urtato con la scarpa.
Sì, la mia mente era stranamente preparata a ciò che gli occhi hanno scoperto solo una volta tornato alla luce della sala di casa mia, guardandomi nel palmo della mano: sto stringendo una penna, la stessa bic blu che ho infilato nel portale quando era soltanto una tana per topi, la stessa bic blu che ho recuperato nella mia prima ispezione l'altro ieri, che adesso è sulla mia agenda, sul tavolo davanti a me. Due penne. Tre Topo-Sonia e due penne.
Ho tra le mani qualcosa che trascende la comprensione logica e la scienza, di impatto così grande che non riesco a quantificarlo. Devo prendere al più presto un accendino, ne devo sapere di più, devo cercare il tramezzino, i soldi, i soldi, i soldi! Posso seriamente sdoppiare dei contanti? Ho scoperto un glitch della vita vera!
Mi devo calmare, sto sudando, devo bere. Sarà possibile sdoppiare ogni cosa, ogni oggetto? Le mie idee non erano del tutto campate in aria, ho le prove empiriche dalla mia parte. Però il topolino era un essere vivente, cosa significa, che anche gli esseri... blackout. L'adrenalina evapora, lasciando il posto all'argilla ormai familiare che inizia a scorrermi di nuovo nelle vene, come giorni fa. La devo smettere di pietrificarmi quando ho paura, di diventare la dannata statua di Condillac, solo più meditabondo dell'originale.
Ma come faccio a non pensarci? Tre Topo-Sonia e due penne. E io? Tre Topo-Sonia e due penne, ma per quel che riguarda me?
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