Capitolo 5. Follia
«Il mio metodo di indagine è di scartare tutte le ipotesi possibili. [...] Ciò che resta è molto più divertente, e guarda caso è il mio mestiere: l'incubo.»
Dylan Dog - Tiziano Sclavi
È passata una settimana, credo di aver perso un chilo. Forse perché ho mangiato e dormito poco e male. In compenso, ho bevuto tutta la vodka liscia comprata per preparare i Bloody Mary in previsione di una visita di Monica, che ho rimandato per ovvi motivi.
Ogni sera ho appuntato le conclusioni tratte dalle osservazioni e dai deliri della giornata; a sfogliare ora queste paginette di agenda mi sembra passato una vita da quando tutto questo aveva ancora dell'impossibile, solo pochi giorni fa. In linea di massima ho attraversato le fasi che ho riassunto con sorprendente lucidità e freddezza, date le circostanze:
- Secondo giorno: Pronto soccorso. Giornata infinita in sala d'aspetto, sguardi curiosi degli infermieri. Crisi di nervi, rischiato TSO, prescritta visita psichiatrica. Mi sento comunque di escludere problemi mentali o di salute e procedo cauto verso l'accettazione di ciò a cui ho assistito come fenomeno appartenente a una realtà tangibile, seppure inspiegabile. Tavor.
- Terzo giorno: Ho liberato i topolini. Sonia 1, Sonia 2 e Sonia guarita (così ho chiamato il terzo topo). Li ho messi in gabbia e portati in cortile uno alla volta, senza guardare la direzione in cui sono andati una volta fuori. Ho sperato di dimenticare, ma così non è stato.
- Quarto giorno: Ho ripulito tutto e ho stuccato la piccola breccia sul muro. Ho consumato tre giorni di ferie maturate, me ne restano ancora due. Non posso darmi malato perché ho paura di far venire chiunque in casa mia, persino il medico della mutua. Ai miei genitori, curiosi di vedere come ho ultimato i lavori, ho detto di essere in compagnia femminile. All'unica compagnia femminile che potrebbe proporsi di venire a trovarmi ho detto di essere in montagna. Tanto non sarebbe di nessun aiuto: non è Sonia.
- Quinto giorno: Ricerche sui vecchi proprietari da cui ho comprato la casa, articoli di giornale inquietanti, allego. Non so se riuscirò mai più a dormire come prima. Non posso continuare a vivere in questo delirio. Frigo vuoto, paura di assentarmi da casa più di mezzora, vodka finita. Ipotesi una più strana dell'altra continuano a martellarmi il cervello e ragiono per assurdo. Ho voglia di parlarne con qualcuno, ma ho paura di essere considerato matto: vaneggiamenti di un ipocondriaco con precedenti episodi di depressione, ecco come verrebbe etichettata la mia storia.
- Sesto giorno: Rimetto insieme gli appunti di questi giorni e traccio una bizzarra conclusione, che accetto tuttavia come l'unica possibile, per esclusione. Questo è quanto: in un angolo della mia casa, in un punto preciso del muro, c'è una specie di breccia. Il topolino che l'ha attraversato, dopo essersi ferito, si è moltiplicato. Sì, moltiplicato, è l'unica ipotesi valida.
Inizio con le prove a sostegno o smentita della mia teoria. Se attraversare quella spaccatura ha duplicato Sonia allora potrebbe riuscirci con qualsiasi altra cosa, bisogna provare con piccoli oggetti. Questa mattina ho tentato con delle monetine, una banconota da cinque euro, un tramezzino al tonno, una penna bic. Tutte queste cose sono sparite oltre la fessura; con il senno di poi ora mi preoccupa un po' la fine che potrebbe fare il tramezzino e il suo naturale deterioramento. Non avrei dovuto infilarlo nel muro, invece dei topi avrò una colonia di formiche. Verso sera decido infine che non voglio più pensare a qualsiasi cosa sia successa in questa casa prima o dopo il mio arrivo: forse così dimenticherò. Passo un altro spesso strato di stucco sulla fessura, poi mi faccio una lunga doccia e do un'altra passata. Ceno, un'ulteriore passata, a rinforzare il divario tra me e qualsiasi-cosa-ci-sia-di-là. Forse così dormirò bene per la prima volta da una settimana a questa parte.
E così speri di appisolarti serenamente, e invece no, nemmeno questa notte dormi come si deve. Non appena chiudi gli occhi dalla tana provengono strani rumori, come se qualcosa stesse grattando all'interno del muro. È un suono che non hai mai sentito prima d'ora, e provi a identificarlo fissando il vuoto nella direzione da cui proviene: i topolini se ne sono andati (anche se non li hai seguiti con lo sguardo, li hai visti lasciare la gabbietta sotto casa!) e il buco è stato stuccato, non possono esserne usciti altri! Ti alzi, spazientito. Ora non hai più paura, solo voglia di mettere fine a questo strano scherzo del destino. Cammini fino a quel maledetto angolo e vedi lo stucco che avevi spalmato, ora secco, in parte sbriciolato, in parte caduto in blocco, sul pavimento. È una specie di raptus, non sai che ore siano e se i nuovi vicini si lamenteranno, non vedi altro che quella spaccatura nel muro. La metti a fuoco e i suoi contorni sembrano sfumare nel nulla, da quanto poco sei interessato a tutto il resto del mondo. Ora il martello è nella cassetta degli attrezzi poco più in là, un attimo dopo lo stringi con entrambe le mani e ti ritrovi a spaccare tutto, a picchiare sui bordi della crepa, sempre più grande, sempre più larga, più alta. Dapprima sono pochi centimetri, poi cominci a grattare via l'intonaco con le dita. Ti viene in mente il pianista di Profondo Rosso mentre scopre il disegno murato nella Villa del bambino urlante; ti viene anche un ghigno diabolico che il tuo stesso viso stenta a riconoscersi addosso. Gratti e spacchi, spacchi e gratti. Alla fine, non sai quanto tempo ci hai messo o il rumore che hai provocato, sai solo di trovarti davanti a uno squarcio alto un metro e mezzo, largo mezzo metro. Guardandoci dentro non vedi nessun tubo, niente cavi, ma anche niente muro: ti sembra di scrutare dentro una viscosa macchia nera, come se stessi fissando una cascata di petrolio congelata nel tempo. È buio, ma non un buio fatto d'aria. È un buio denso profondo e oscuro, consistente. È un buio che senti di poter toccare. La stanchezza e la singolarità della circostanza ti danno l'illusione di trovarti in una dimensione onirica dove sei più coraggioso, più determinato, più forte e sicuro di te.
Così come ti trovi, in boxer e infradito, sporco di calce e polvere, decidi di fare un passo verso l'ignoto. E letteralmente, non come quando ti sei iscritto alla facoltà di Economia anche se tutti, te compreso, nutrivano dubbi a riguardo. Ora sì che sembri un folle, dovrebbe vederti adesso, l'infermiera che l'altro giorno ti voleva fare rinchiudere: non c'è più niente in te del ragazzo che non sapeva nemmeno trovare le parole per descrivere la moltiplicazione delle Sonie topesche.
«Male che vada», penso riacquistando per un secondo la lucidità mentale e quell'ironia che dovrebbe mantenermi vagamente sano di mente, «ci troverò dentro qualche spicciolo e un tramezzino.»
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