Capitolo 25. Fuga

Va tutto come calcolato; fa uno strano effetto avere un pensiero simile in questi giorni, quando ad andare secondo i piani non c'è quasi nulla, quando è inutile proprio farli, i piani, perché tanto poi se ne vanno a gambe all'aria. Questa singola circostanza, però, si è svolta persino meglio di quanto mi aspettassi: l'ascensore si è aperto nel piano interrato della palazzina, e già mentre aprivo la centralizzata dell'auto, uno Strazio rapidissimo ha tirato su la porta del mio garage con le chiavi sudaticce che ha stretto nella mano per tutto il tragitto in ascensore. Mi sono infilato tra la portiera e la parete del garage, sono entrato in macchina, ho messo in moto e sono uscito, per poi frenare subito dopo: Caterina e Strazio sono saliti al volo, mi hanno fatto perdere non più di cinque secondi, lui sul sedile posteriore, lei davanti. Sono ripartito senza chiudere la basculante, aspettandomi Sicuro davanti alla rampa del garage, ma così non è stato; non ha fatto in tempo a fare il giro e raggiungerci a piedi.

Oltre il cancello automatico telecomandato c'è la libertà, così mi dico, come se stessi scappando da un nemico mortale, da un'entità che vuole e può nuocermi; in realtà sono tutti gli altri che dovrebbero nascondersi da me, visto che il mio compito sarebbe toglierli di mezzo uno ad uno. Dovrebbero essere loro a scappare da me, non il contrario.

Esco in prima dal cancello e metto la freccia a sinistra per immettermi in strada. Direzione arbitraria, non so dove andare. E lì lo vedo, parcheggiato nella sua Opel, testa china sullo schermo del telefono, a scorrere i feed di qualche social, a contare i like alle foto delle cose che mangia. È così che passa il tempo mentre aspetta che Sonia esca di casa, quando la va a prendere? Quanto lo fa aspettare? La immagino, che accelera il passo nel vialetto, lui che subito non si accorge del suo arrivo, e intanto si è inserita la chiusura automatica, lei prova ad aprire la portiera, lui si rende conto che la macchina è chiusa, goffamente fa qualche movimento inutile con le mani, schiaccia un paio di tasti a caso come se la macchina non fosse sua e non conoscesse la posizione dei pulsanti, poi finalmente sblocca le portiere. Sonia entra in auto, chiude lo sportello e si siede. Così ogni volta. Infatti, lei commenta: "Ogni volta" e gli sorride senza biasimo, mentre invade l'abitacolo di un leggero profumo di shampoo alla frutta. Lui ricambia, un po' imbarazzato, con lo sguardo grato di chi sa che la sua ragazza potrebbe meritare un uomo più attento ai dettagli, più attento in generale. «Quello che trascuri diventa di qualcun altro» gli dice sempre sua nonna. Ogni tanto lui ha paura che sia vero, che a causa del suo essere perennemente distratto ed egocentrico (così gli dicono), lei cercherà e troverà le attenzioni che merita altrove. Però non le apre comunque mai lo sportello, non le risponde «sono appena arrivato» quando lei si scusa per un ritardo di pochi minuti e a volte non le dà nemmeno un bacio prima di mettere in moto. Questo, moltiplicato per tutte le situazioni dove potrebbe fare di meglio con pochissimo sforzo. Ne è stranamente consapevole, ma finché continua a farla franca, ad avere la massima resa con la minima spesa di impegno ed energie, non fa nulla per cambiare l'andazzo: in fondo questo è il suo approccio in quasi tutti i rapporti interpersonali della sua vita. In tutte le cose della sua vita. Eppure, alla fine non sarà per questo che si lasceranno; sarà piuttosto perché lui combinerà qualcosa di imperdonabile, e lei si metterà con qualcun altro solo quando avrà voltato pagina, processo che la migliore amica di lei definirà: "guarire da te".

Così si è messa con il tizio che ora è sotto casa mia ad aspettarla. L'ha accompagnata? Per essere arrivati di mattina significa che erano insieme quando Serio l'ha chiamata? Hanno dormito insieme? Lo fanno spesso? Sono già a quel livello di intimità? Non dovrebbe importarmi, e infatti non importa. Sicuro, lo giuro.

Anche la dolce Caterina sembra averlo notato e non appena superiamo il parcheggio dove il campione è fermo a motore spento chissà da quanto, lei si rivolge a me per tranquillizzarmi: «È un bravo ragazzo».

«Non ne dubito.»

Guardo dritto davanti a me, intento a mostrarmi troppo concentrato sulla strada per sostenere una conversazione qualsiasi, anche la più frivola; figuriamoci parlare del tipo che si porta a letto la mia ex.

«Chi?» Strazio stava di sicuro rimuginando su qualcosa di spaventoso e angosciante, torna tra noi e cerca di inserirsi nel discorso.

«Sonia non è venuta qui con Caterina, l'ha accompagnata il suo nuovo ragazzo.» Non è una bugia, mi sorprendo di me stesso.

«Ha un nome» mi fa notare l'amica.

«Che non ho interesse a scoprire o imparare» borbotto mentre svolto per la tangenziale.

So benissimo come si chiama, come farei altrimenti a sapere che fotografa ciò che mangia? L'ho cercato e trovato sui social, è vero, ma per pura curiosità, nient'altro!

«Dove andiamo?» Strazio si preoccupa della nostra destinazione, o forse non vuole sentire altro su Sonia e la sua nuova fiamma, così tenta un cambio di discorso maldestro, seppur provvidenziale. Ho desiderato scappare il più possibile lontano e lo sto facendo, ma una parte di me ha sempre saputo che non posso farlo davvero: devo parlare di nuovo con Manuel, capire se c'è un modo, un altro modo.

«Voglio trovare la porta sul retro. Tu hai un'idea su come ci si arriva, hai guidato tu da lì all'ospedale. È che... com'è che si chiamava? Non ricordo il nome. Era in provincia? Non mi sembra uno di quelli del centro, credo fosse un ospedale piuttosto piccolo, forse privato?» Cerco il suo aiuto per ricordare, ma non pretendo troppo da lui: è stato generato quando Serio era ancora fuori; quindi, ha più buchi nella testa di quanti ne possa avere io ora.

Lo percorre un brivido, lo so perché scuote la testa e la incassa poi tra le spalle, sperando di essersi trasformato in una tartaruga e di poter fare rientrare in questo modo la testa nel guscio. Dallo specchietto gli lancio delle occhiate di controllo, in mezzo alle quali gli do il tempo di fare mente locale.

«Niente?» provo ad incalzare dopo un po'.

«Mi ricordo la strada che abbiamo fatto al ritorno.»

«Eh, quella anche io, a grandi linee.»

«All'andata ero un po' confuso, ero appena venuto fuori» si giustifica.

Non mi sono mai fermato a pensare a cosa abbiano provato loro, nel momento in cui si sono divisi da me. Serio era convinto di poter prendere il mio posto, da nessun punto di vista si sentiva una copia, ma gli altri sembrano intrisi di incompiutezza, è difficile metterli del tutto a fuoco, immaginarli come persone reali fatte e finite, complete. Condividono l'estremizzazione di una loro eccentricità, ma l'aspetto prominente della mia personalità che ognuno di loro rappresenta, esclude di fatto tutti gli altri. Sono il mio negativo, ma mentre loro possiedono ciò che a me manca, sono manchevoli di tutto il resto che io e gli altri possediamo. Non deve essere facile sentirsi così, ammesso che ne abbiano coscienza. Forse l'unico ad averne è proprio Strazio, è stato il solo a raccontare di come si sia sentito alla sua genesi, a spiegare quanto fosse spaventato e quanto male fisico provasse.

Lo guardo ancora dallo specchietto, addolcendo il mio tono: «All'andata io ero privo di sensi; ancora non so molto di quello che mi sono perso». Ha guidato Sclero, questo me l'hanno raccontato. Ricordo poi l'uscita dell'ospedale, in modo vago, e dettagli sempre più nitidi sul paesaggio man mano che ci avvicinavamo al secondo portale.

«Cosa vi ricordate di aver visto mentre eravate in macchina?» Caterina ci viene in aiuto.

«Precollina, luce innaturale, strade e case mai viste prima.»

Tace qualche secondo, mentre guido a vuoto nelle vie di un quartiere industriale, tra piccole fabbriche, grandi cancelli e capannoni.

«Nessun modulo di dimissioni dall'ospedale?»

«Siamo scappati» risponde Strazio, «abbiamo raccontato di aver avuto un incidente, o meglio: che loro due hanno avuto un incidente e io sono andato a recuperarli.»

«Quindi essendo un fatto mai accaduto davvero la cronaca locale non può averlo riportato, nemmeno online» riflette lei, ad alta voce.

Seguo questo piccolo brainstorming (più storm che brain) mentre cerco un posto in cui parcheggiare senza dare nell'occhio. Mi sono stufato di girare a vuoto e non so quanta benzina ci servirà da qui alla nostra destinazione, ancora geograficamente ignota.

«Ma siete sicuri che fosse qui? Cioè,» è pur sempre Caterina in fondo, più dolce, ma con il suo solito modo fastidioso di esprimersi, «non dico solo la città, che non è affatto detto che sia questa, o che sia questo il tempo o che ne so... la dimensione, la realtà.» Un'osservazione che l'altra Caterina avrebbe definito "roba da nerd", ma che purtroppo non fa una piega, con o senza i suoi "che ne so".

In macchina cala il silenzio. Come abbiamo fatto a dare per scontato che alla fettina di universo abitata da Manuel corrispondesse una porzione esatta della nostra realtà e dello spaziotempo in cui viviamo? Per prima cosa lì dentro lo scorrere del tempo è diverso, e questo già avrebbe dovuto rendermi meno ingenuo sulla faccenda; in secondo luogo, se ci fosse una corrispondenza geografica esatta e in scala uno a uno, l'uscita dovrebbe essere nei paraggi di casa mia, comunque all'interno del mio quartiere, non in un capanno per gli attrezzi di una casa abbandonata chissà dove. E chissà quando, a questo punto. Spengo il motore, anche se, per quel che ne so adesso, la benzina di tutto il mondo potrebbe non bastare.


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