Capitolo 12. Nomi

«Ecco un altro che ha ripreso a fumare,» commenta il tizio calmo, «dopo tutta la fatica fatta per smettere! Complimenti!»

«Che cazzo vuoi tu? Ti sembra una situazione normale questa? Ti sembra un momento dove uno può starsene tranquillo davanti a un pacchetto di sigarette e non prenderne una?»

Li guardo qualche istante, provando la stessa impressione di quando nella mia testa mi faccio coraggio per affrontare una situazione, dicendomi: «stai calmo» e subito dopo «ma stai calmo cosa? Non ce la posso fare», e di nuovo «sì, ma stai calmo», in loop. Più o meno la scena si potrebbe rappresentare così: con queste due persone a interpretare rispettivamente me e me.

«S...» sto per pronunciare il mio nome per attirare la loro attenzione e mettere così fine a questo sciocco battibecco per poterci concentrare sulle cose importanti, ma mi fermo subito; è troppo strano chiamare me stesso in seconda persona. È roba che può veramente fare impazzire qualcuno. Questo, eh! Non vedere due persone identiche a te che litigano sul tuo balcone di casa: quello sì che è qualcosa che ti mantiene sano di mente.

«Credo che dovremmo trovare dei nomi per chiamarci, tra di noi almeno.»

Quello agitato mi guarda e mi sputa il fumo in faccia: «Io non ti voglio chiamare, né te né quell'altro con il palo nel didietro.»

L'altro ridacchia; non fa nessuno sforzo per nascondere che non è con lui che sta ridendo, ma di lui. Gli lancio un'occhiata che spero lo faccia smettere, poi riprendo da dove eravamo rimasti. Ma dove eravamo rimasti?

«Cosa stavo dicendo?» Chiedo a me stesso.

«I nomi», mi risponde lui, pronto.

«Ah già, giusto. Non possiamo chiamarci tutto nello stesso modo, e non posso riferirmi ancora voi dicendo "tizio con le ciabatte" e "tizio con il coltello", dovremmo scegliere dei nuovi nomi.»

«A me "tizio con il coltello" sta bene; così ti ricordi che non ti conviene rompermi i coglioni.»

L'altro sospira: è un sospiro di stanca rassegnazione, come se non desiderasse altro che sottrarsi da questa fastidiosa ma purtroppo necessaria conversazione.

«Io un nome già ce l'ho» risponde lui, «non voglio altri nomi, cambiatelo voi due semmai.»

«Un momento! Perché dovremmo cambiarlo noi e non tu? Com'è questa storia? Ti fai una doccia, ti dai una sistemata e diventi il padrone del mondo?» L'altro gli si avvicina con irruenza, ma oltre a essere ancora dolorante inizio a sentirmi troppo stanco per intervenire. E poi non ha tutti i torti: per quale motivo dovrebbe tenersi lui il nome originale?

Sembra leggermi nel pensiero e risponde ad entrambi: «Perché io so cosa farmene, perché ora come ora se dovessi presentarmi al lavoro o a casa dei miei genitori sarei in grado di essere presente a me stesso, così come quando parlerò con Sonia: si può dire lo stesso di...» Cerca un istante le parole giuste poi ci etichetta bruscamente: «Rambo e Dory di Alla ricerca di Nemo

Ah, quindi io sarei Dory? A Rambo la cosa sembra fare piacere, tant'è che scoppia a ridere. Io, invece, vorrei solo prendere un antidolorifico che mi stenda, andarmene a dormire. E realizzo che anche per quello ci sarà da litigare: proprio come per il nome, abbiamo un solo letto per tre persone.

«Va bene,» mi arrendo, «usiamo tutti e tre dei soprannomi per chiamarci, va bene? Niente Rambo, o Dory. E a proposito, vaffanculo.» Parlo a entrambi, ma l'ultima parte della frase è rivolta al tizio calmo, che io soprannominerei Stronzo, se avessimo tutto il tempo del mondo per punzecchiarci e cazzeggiare sul balcone.

«Io propongo Stanco per me, e per voi due Serio e Sclero.» Fanno ridere, lo so, sembrano i nomi che sceglierebbero dei ragazzini. Eppure, con mia grande sorpresa, sembrano entrambi soddisfatti: Serio resta serio e Sclero non sclera. E io, quello Stanco, ho addosso le botte da smaltire e il disastro che sono i miei pensieri al momento. «Adesso ho bisogno di dormire», quasi li imploro, «voi non uscite, vi prego. Domani mattina a mente lucida facciamo cosa volete e troviamo una soluzione a tutto questo casino.»

Sclero mi guarda perplesso, sta per dirmi qualcosa, ma l'altro gli fa un cenno di diniego con la testa e lo placa sul nascere. Sono troppo esausto persino per questo, per chiedermi cosa voglia dire quel gesto di intesa, e cosa succederà appena prenderò sonno; magari mi faranno davvero fuori, forse è la volta buona, penso mentre mi trascino verso la mia stanza.

«Per favore non uscite di casa», ribadisco la mia raccomandazione mentre mi infilo a letto. È confortante, accogliente, ed è tutto mio: ne avevo davvero bisogno. Ma a loro servirà dormire? E mangiare? Se oltre il portale il tempo è passato in modo diverso, come hanno fatto a sopravvivere? E Serio che ha fatto tutto questo tempo? C'erano o no degli animali? Altri esseri umani? Se non mangiano e non dormono allora non sono poi così simili a me, quindi sono meno umani di me? Ma la barba di Serio è cresciuta! Di certo la forza che Sclero ha usato nel picchiarmi non ha nulla di umano. O forse era già dentro di me? Posso davvero spaccare il labbro a qualcuno con un pugno? Sclero, ripeto a mente il suo soprannome, che parola buffa ho trovato per lui! Però gli sta bene, sclerare è ciò che fa meglio. Sclero...

«Sclero?» È la prima cosa che vedo quando riapro gli occhi; è sopra di me, a cavalcioni, e mi punta un coltello alla gola. Non il ridicolo temperino da boy-scout che aveva in tasca, ma uno da carne, recuperato dalla cucina.

«Ho cambiato idea, sfigato; credo che per te il nome più indicato sia Sfregio!»

Lancinante. Si usa questa parola per spiegare l'intensità un certo tipo di dolore: ora capisco perché. Non riesco nemmeno a descrivere il male che provo, è come se una mano metallica mi attraversasse il fianco per afferrare il primo organo a portata e strapparmelo via. Dev'essere un polmone perché mi si spezza il fiato, spalanco la bocca ma non entra e non esce aria: non respiro più, al massimo boccheggio, proprio come un pesciolino, proprio come Nemo e Dory.

Non ho mai dovuto tagliare un pezzo di carne né l'ho mai visto farlo. Le fettine a casa mia venivano al massimo battute prima di essere adagiate in padella o sulla bistecchiera, a cosa dovrebbe servire un coltello così grande? Alla mia, di carne. Ecco a cosa. È stata mia madre a regalarmelo: un bel set di coltelli dentro un ceppo di legno da lasciare in bella vista sul piano tra il lavandino e i fornelli. Ma in bella vista per cosa? Per i ladri, scassinatori, cloni psicopatici arrivati da un buco nel muro, che nel cuore della notte vengono ad aggredirti mentre te ne stai bello tranquillo nel tuo letto? O era da lasciare in bella vista per far colpo su qualche ragazza? La si invita a cena, con l'aiuto di un video tutorial si prepara qualcosa di buono da mangiare, si apre una bottiglia di buon vino rosso e poi... E poi cosa? Non ricordo di avere mai cucinato della carne per una ragazza. E poi Sonia è anche vegetariana. Aspetta, chi?

«Sonia?» Credo di delirare ora. A cos'è che stavo pensando?

«Tranquillo, sarà in buone mani.» Prontamente mi arriva la sua risposta, mentre ci stiamo muovendo dalla mia stanza. Ma dove stiamo andando? Ancora quella sensazione di un liquido addosso, è ancora sangue? No, forse mi sono pisciato nei pantaloni.

Ho sempre avuto paura di morire da solo, suicida o no. Ma in questo caso cosa si potrebbe dire? Conta se c'è qualcuno con me, se sono sempre io? Sclero mi guarda con i miei occhi, e ora vedo la differenza. Non so perché, ma la vedo. Prima il suo sguardo era pieno di rabbia, è stato quello a ingannarmi: mi sono sbagliato.

«Sclero? No», chiedo conferma, mentre mi trascina lungo il pavimento. Sento un suono vischioso, è sicuramente la striscia di sangue che sto lasciando per terra e su cui mi sta facendo scivolare. Chissà se alla fine l'ho schizzato, il muro appena imbiancato. Fa così male che non riesco a pronunciare altro, voglio solo morire in fretta. È un dolore che non riesco nemmeno a mettere a fuoco, di gran lunga superiore alla mia capacità di concepirlo, a fatica mi concede di restare sveglio. Ti prego, fai che finisca in fretta.

Lui si china sul mio volto, mi sorride con quella sua calma inquietante: «Sclero era il porcellino che ha costruito la casetta di paglia,» inizia a spiegare, se così si può dire, mentre impugna il manico del coltello conficcato nel mio fianco. Sembra che la lama sia di fuoco per quanto mi brucia la carne che attraversa. Cosa sta facendo? Perché non lo lascia lì? Provo a prendergli il braccio per fermarlo, ma sono troppo debole, lui scansa la mia mano e continua a trafficare con la mia ferita e la sua storia da pazzo schizzato: «Tu, Stanco, il porcellino che ha costruito la casetta di legno. E io, si capisce...» Ora tira più forte, a lui scappa un verso che somiglia a un grugnito, a me un urlo che lui soffoca prontamente mettendomi qualcosa sulla bocca, non so cosa, ma sa di sporco, forse uno straccio raccolto da terra. «Si capisce che io sono il porcellino che ha costruito la casetta di mattoni.»

Davvero? Davvero mi deve venire in mente la canzoncina dei Tre piccoli porcellini? Niente cori di angeli per me? Niente Hallelujah cantata da Jeff Buckley? Sembra che alla fine morirò dissanguato in questo angolo della mia sala con in testa una stupida canzone per bambini. Sono pronto a scommettere che Stronzo (avrei dovuto seguire il mio istinto e chiamarlo così sin dall'inizio) prenderà il mio posto. Nessuno piangerà la mia morte perché per chiunque io sarò ancora vivo, non noteranno la differenza: come potrebbero, senza saperlo? Magari sarà anceh una versione migliore di me. Mamma, tu capirai che non sono io? Ironia della sorte, il "tizio con il coltello" alla fine era lui, non l'altro.

Dunque, morire qui, così. Aspetta, ma perché qui? Perché non mi ha lasciato morire nel letto? Perché trascinarmi fino a questo punto della casa? E cosa sta facendo con quel coltello nel mio stomaco? Lo spinge più a fondo? No, sta cercando di sfilarlo: il suo tentativo non solo fallisce, ma fa un male cane, un male extra che forse non era necessario ai fini della mia morte. E allora perché insiste? Puro sadismo?

«Mezza sega», riesco a dire a mala pena nel tentativo di andarmene senza nascondergli cosa provo per lui, o forse di provocarlo per spingerlo a finirmi in fretta; ma non sono sicuro di aver pronunciato qualcosa di diverso che suoni e gorgoglii e un sapore ferroso mi invade la bocca, la vista mi si appanna. Con l'ultimo briciolo di coscienza lo sento tirare ancora e ora, per puro orgoglio, farei qualsiasi cosa per non lasciargliela vinta, dovrei spingere sul manico ancora più a fondo, farla finita; ci provo, ma non so dire se le mie mani riescono a raggiungere l'arma, perché sento che sto perdendo di nuovo i sensi.

Ti prego smettila, finiscimi. Voglio morire in fretta, qui, vicino al nascondiglio per topi. Ah, ecco! Allora è per questo che mi ha trascinato fino qui... perché... un attimo... che cosa stavo facendo? Ah, sì: morire.

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