Capitolo 11. Piano

«Con permesso, adesso andrei a farmi gli affari miei. Voi due continuate pure a guardarvi in faccia per decidere chi è più bello.»

Il tizio nervoso mette via il coltellino e si appresta ad uscire. Vorrei provare a fare leva sulla sua, ma in fondo anche un po' mia, vanità: vuole davvero uscire conciato in quel modo? Davanti alla sua determinazione, i miei argomenti mi sembrano da subito troppo deboli; però il suo unico obiettivo è fare del male a Sonia e anche se al momento la ricordo a malapena, non posso permettere venga coinvolta, ferita o peggio.

«Cosa pensi di fare? Dopo averle citofonato a quest'ora credi che ti farebbe entrare in casa? E anche se fosse? Cosa faresti poi?» Prova a farlo ragionare il mio secondo.

Sbuffa, sul punto di perdere quel poco di pazienza che ancora gli resta, ma stranamente non si sottrae dalla conversazione, forse più per provocare che per trovare un compromesso. Essere riuscito a trattenerlo dall'uscire di casa finora è una piccola vittoria.

«Non è nemmeno detto che ti faccia salire» incalza l'altro me.

«Certo che mi farà salire, è Sonia!» ribatte lui, e il viso del suo interlocutore si scompone per la prima volta da quando abbiamo iniziato quel discorso, come se quanto appena detto significasse chissà cosa, quando a me il senso della frase sfugge del tutto. Dovrei sapere anche io che vuol dire "è Sonia"? Significa che è una persona che non si sottrae dal tendere una mano a qualcuno in cerca di aiuto? O è così solo se si tratta di me?

«Ascolta, non hai motivo di prendertela con lei, fino a prova contraria siamo stati io, te, lui, che...» È proprio figlio di mia madre, lascia la frase così, a metà. Nel farlo, però, si gira del tutto dalla mia parte, torna silenzioso e mi guarda a lungo. Io, lui, l'altro... cosa? Allo sguardo che ho già addosso se ne aggiunge un altro in apparenza identico, anch'esso attraversato dal lampo di un'idea subitanea e spaventosa, almeno per me che assisto senza capire in modo razionale, ma presagendo guai.

«È vero, forse prima che con lei dovrei prendermela con il vero pezzo di sterco.» Guarda me, parla di me, ce l'ha con me.

«Ah, quindi io sarei un pezzo di sterco? Se lo sono io lo sei anche voi, sì, pure tu che fai tanto il superiore!» Provo a difendermi dalle offese, pur senza sapere quale sia l'accusa.

«Ma tu lo sai cos'hai fatto?» Alza la voce e, anche se finora è stato "il tizio con il coltello", da come si avvicina a me sembra intenzionato a spaccarmi la testa a mani nude. Per fortuna fisicamente sono sempre stato una mezza sega, migliore a incassare che a picchiare. Se faccio schifo io a battermi, fa schifo anche lui, logico. Quello in ciabatte non si muove di un centimetro e lascia che l'altro mi si scagli addosso. Mentre mi arriva il primo pugno riesco anche a chiedermi cosa gli stia passando per la testa. Trama qualcosa, ma cosa?

Avrei dovuto concentrarmi sul cazzotto in arrivo, invece di perdermi come mio solito in riflessioni fuori focus. Quand'è che ho imparato a colpire così? Fa un male cane e non faccio in tempo a proteggere il volto con le braccia che me ne arriva un altro; oltretutto questo mi fa anche sbilanciare all'indietro e cadere su qualche oggetto che non identifico subito, ma che penso bene di afferrare e utilizzare per contrattaccare: è così che finisco per afferrare una delle mie scarpe lasciate all'ingresso di casa e lanciargliela addosso. Come se la scena dell'ombrello non fosse già un'immagine abbastanza triste e pietosa.

Prima che il tizio in ciabatte intervenga riesco ancora a incassare un calcio in pancia da quell'altro, ammortizzato dalle mie braccia piegate sul petto. Resto a terra con la faccia che mi brucia e le orecchie che fischiano. Sicuramente perdo sangue, perché ho un orribile sapore ferroso in bocca e sento la faccia umida. Ho sempre pensato che il sangue fosse caldo, invece sulla pelle è quasi rinfrescante.

«Tu fai con comodo, eh!» Protesto contro il tizio in ciabatte, ora frapposto fra me e il mio aggressore, mentre gli si avvicina per andare a mormorargli qualcosa all'orecchio che stranamente lo fa calmare.

«Avrei voluto tanto farlo io, ma vederlo fare è stato altrettanto piacevole» si limita a rispondermi con uno sguardo che non ammette repliche, e io sono troppo stanco per ribattere ancora. Nell'alzarmi mi manca il respiro e si riaffaccia in me il bisogno di vomitare. Vorrei saper dissimulare meglio il dolore che provo, far credere di non essermi fatto poi così male, ma è evidente da come arranco per arrivare in bagno che sto soffrendo ad ogni movimento. Non credevo che il mio stesso corpo fosse in grado di picchiare così forte, chissà se si tratta solo di volontà di fare del male, di motivazione o rabbia (assenza o presenza di essa).

Dietro di me, lo sciabattare dei miei infradito. Controllo con la coda dell'occhio che sia solo e a questo punto non mi importa se l'altro andrà fuori a fare qualche danno, mi basta non essere più a portata di tiro da lui.

«Credevo fossimo d'accordo! Non avevi detto di voler fermare quell'altro e proteggere la tua preziosa Sonia? In che modo farmi pestare è servito a qualcosa? E poi cosa gli hai detto per farlo smettere?»

Come suo solito non risponde subito, riprende a rasarsi da dove era stato interrotto, mentre io mi sciacquo la faccia nel bidet, accartocciato come sono sul pavimento. Mi tampono la tempia e il labbro con un asciugamano pulito sperando che smetta di macchiarsi di rosso a breve, poi appoggio la schiena al muro, stendo le gambe sul pavimento e aspetto una spiegazione che possa giustificare tutto il dolore in faccia e all'addome che sto provando. Il primo profondo respiro che prendo sembra spezzarmi in due, ma dal secondo le cose sembrano migliorare.

«È un tipo primitivo, un violento, è quasi impossibile calmarlo, vero?» Non solo non risponde alla mia domanda, ma fa nulla per nascondere la sua soddisfazione nel vedermi ridotto così.

«Si può sapere perché mi odi?»

Posa il rasoio sul lavandino, si sciacqua la faccia con calma e mi viene vicino. La sua è una bella faccia, pulita, senza lividi e tagli, sangue e bozzi. Non mi è mai piaciuto particolarmente il mio viso, ma in questo momento non mi dispiacerebbe riaverlo indietro così come ce l'ha lui.

«Come sarebbe a dire "perché"? Per tutto quello che hai fatto. Tu le hai spezzato il cuore, è per questo che lui» fa un cenno con la testa verso l'altra stanza, riferendosi al mio aggressore «ti odia. Ed è per questo che io dovrò rimediare ai tuoi casini con lei.»

Non ho la forza di chiedere cosa potrei aver mai fatto di così grave, né di protestare. Mi accontento di non essere più preso a botte. «Quindi la mia incolumità non ti interessa? Siamo stati la stessa persona per quasi trent'anni e non te ne frega niente?»

«No,» ammette senza difficoltà, «anzi voi due mi fareste solo un favore nel togliervi di mezzo a vicenda».

Ma che gentile! «E allora perché l'hai fermato?»

«Non l'ho proprio fermato, ho solo aspettato che rabbia scemasse, che la scaricasse un po'. Sì, l'ha scaricata su di te, ma visto che il suo obiettivo principale era Sonia, ho ritenuto fosse conveniente che le cose andassero così. Meglio su di te che su di lei, non sei d'accordo?»

No, non sono d'accordo, ma non è una cosa che potrei ammettere a voce alta. «E allora cosa gli hai detto nell'orecchio?»

«Di portare pazienza, perché domani faremo venire lei qui.»

«Non capisco, ti giuro.»

«Lo so.» Sbuffa ancora, infastidito dalle mie continue, seppure legittime, richieste di spiegazioni. Se parlasse chiaro non dovrei fargli tutte queste domande, basterebbe dire più di cinque parole alla volta e io non sarei costretto a sollecitare le sue risposte, muovendo il mio povero labbro mezzo spaccato che brucia da matti. Chissà cosa sta combinando ora l'altro, vestito come un cretino, con una torcia in testa e il mio cellulare in mano: come minimo sta inviando messaggi di morte e minacce a tutta la mia rubrica.

«Scusa, ma io davvero non riesco a capire,» riprendo nonostante il dolore, «credevo che volessi proteggerla. È questo quindi il tuo grande piano? Portarla qui così lui potrà fare a lei quello che ha fatto a me, se non peggio? Va bene, io non mi ricordo di lei, ma non potrei mai permettere una cosa del genere, per di più in casa mia!»

«Pensi che io potrei mai permettergli una cosa del genere? Ti ho detto forse che Sonia verrà qui davvero? Questo è solo ciò che io gli ho promesso: gli ho detto che andare da lei sarebbe stato uno spreco, visto che anche io voglio la mia Sonia e che qui c'è un portale grazie al quale possiamo averne quante ne vogliamo. Ma non è nemmeno questo il mio piano, è solo ciò che gli ho fatto credere.» Non sono sicuro che mi stia dicendo tutta la verità, ma non vedo altra scelta che fidarsi, né tanto meno ho un piano migliore del suo. «Adesso l'unica cosa che dobbiamo fare è ucciderlo prima che capisca il bluff.» E così chiude il discorso, o almeno crede di farlo.

Che cosa? Come hanno fatto le cose a prendere questa piega? Quindi sarebbe questo il piano? Dovrei fidarmi di una versione più inquietante e irritante di me stesso, e insieme a lui uccidere la nostra versione picchiaduro? Dopodiché dovrei sperare che il primo dei due non voglia far fuori anche me, per riconquistare quello che sembra essere l'amore della mia vita, di cui però io non ho memoria. Sì, è quasi certo che a quel punto vorrà la mia morte, ma io non riesco in alcun modo ad anticipare le sue mosse, perché non ho la sua lucidità mentale. Perché lui ha la mia.

Mentre realizzo quanto sia diventata folle la mia vita in meno di un'ora, il tizio con le ciabatte finisce di rasarsi, si lava, indossa la mia maglietta preferita, pantaloni e scarpe. Ora che non è più scalzo dovrò trovargli un altro nome. Quando raggiungiamo l'altro lo troviamo in balcone, a fumare e camminare avanti e indietro, come un animale in gabbia. E Dio, quanto vorrei che liberarsi di lui fosse facile come lo è stato lasciare andare i tre topolini dopo averli catturati! 

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