Tutto qui, Hank?

«E quindi, tu saresti uno scrittore».
Lo scetticismo che trapela dal tuo tono di voce è quasi divertente.
Guardi, alzando un sopracciglio, l'uomo mezzo ubriaco seduto accanto a te, e ti chiedi cosa cazzo ci fai ancora qua, a quest'ora, a perder tempo con gente così. Poveri diavoli, dannati, disperati, che se ne stanno a crogiolarsi dietro un paio di dadi, mazzi di carte, bicchieri di whisky, per tentare forse di evadere la loro vita. O forse hanno gettato la spugna e se la stanno solo godendo nel modo meno peggiore possibile. In ogni caso, non sono affari tuoi e non t'interessa – infatti, non indaghi oltre, ti limiti a storcere il naso.
«Un poeta,» ti corregge il signor Bukowski, facendo scattare la tua attenzione di nuovo su di lui. «Sono un poeta ubriaco alle due del mattino e ubriaco anche alle tre del pomeriggio. Problemi?»
Mio Dio, che schifo
«E sei bravo a poetare?» gli domandi. 
«Ovviamente no,» beve un sorso di birra, un sorso grande, e parte del liquido gli rimane intrappolato nei peli della barba. «Anzi sì, dai. Diciamo che sono bravo. Bravo quanto basta». Si pulisce la bocca con la manica della giacca, sudicia e puzzolente.
Mio Dio, che schifo. Sul serio.
«E quanto basta?» chiedi ancora.
«Scrivo per riviste underground quando capita. Mando racconti in giro. Certe volte tornano indietro. Certe volte neanche li leggono. Ma sono tutti quanti...» un sorso, «... dei grandi figli...» altro sorso, «... di puttana».
Ancora, preghi Dio – nonostante tu non abbia mai creduto in lui – o Allah, o Giove, o Ra, o qualsiasi altra divinità superiore, di immettersi nel locale e di trascinarti via con la forza, che essa sembra mancarti. Parlare con Bukowski è arduo, dannazione, e gestirlo ancora di più. Ma hai bisogno di chiarimenti, e in nome dell'arte, sei disposto a fare questo – perdere il tuo tempo in un locale di ubriachi, cercando di intrattenere una conversazione con un mezzo poeta scalognato – ed altro.
«Però non hai mica risposto alla mia domanda,» dici, posando ora il gomito sul bancone e la testa sul palmo della mano. Continui a guardarlo.
Bofonchia: «Ah no?»
«No».
Si acciglia, e per la prima volta, posa il boccale. «La domanda qual era, ragazzo?»
«Quanto basta per essere un bravo poeta, signor Bukowski?»
«Cazzo, chiamami Hank. Mi viene da vomitare se mi chiami signor Bukowski,» e ride. «Signor Bukowski, signor Bukowski! È licenziato, signor Bukowski-»
Lo interrompi. «Non stai rispondendo alla mia domanda, Hank...»
Si gratta la nuca, sbatte più volte le palpebre, mentre tu aspetti che parli ancora. «Allora?» insisti.
«Perché t'interessa?» fa lui, invece.
«Cosa?»
«Sapere quanto basta per essere un bravo poeta,» la frittata viene rigirata nella padella. Hank assottiglia gli occhi: mica è stupido, lui. «A cosa ti serve saperlo, hm?»
Sei stato colto in flagrante da un povero cane solo e scapestrato, col cervello e il fegato bruciati dall'alcol. Ti giochi l'ultima carta, il tuo asso nella manica, e menti: «A nulla. Sono solo curioso, tutto qui».
«Seee, che stronzata,» Hank ti fissa negli occhi qualche secondo, poi scoppia a ridere di gusto. «Scommetto dieci dollari cazzuti che vuoi diventare un poeta anche tu».
«No, davve-»
Hank ride ancora, ride e si tiene il pancione lardoso con un braccio, ride e l'altra mano è chiusa a pugno e ride mentre la batte sul bancone, come un batterista satanico. Ride e la sua faccia diventa paonazza, ride e ride e ride, poi dice: «Oh Cristo,» e ride di nuovo, quasi fino a strozzarsi con la sua stessa saliva di vecchio ubriacone lecca-passere.
Mio Dio, che schifo.
Ruoti la testa a sinistra, a destra, e poi alle tue spalle, e noti con sollievo che nessuno di quei disgraziati sta prestando attenzione a voi due. «Scusa, Hank, ma io non ci trovo nulla di divertente-»
«Su, fammi leggere qualcosa che hai scritto,» Bukowski finalmente, smette di sghignazzare, si asciuga gli occhi con la stessa manica con la quale s'era pulito la bocca, poco prima, e tira su col naso. «Su, dai».
Preso in contropiede, lo fissi e basta, e interdetto, boccheggi come un pesce fuor d'acqua. «Eh?»
«Porca puttana,» Hank scuote la testa. «Fammi leggere un tuo racconto. Una poesia. Quel cazzo che vuoi. Voglio vedere se sai scrivere bene o se sai scrivere male».
«Uhm...» frughi nella tasca interna della giacca enorme che ti porti addosso, e ne estrai un piccolo taccuino. «Le ho scritte tempo fa, e molte non sono neanche finite-»
Hank te lo strappa dalle mani. «Da' qua,» taglia corto, e incomincia a sfogliarlo. Riprende il boccale, lo sorseggia mentre legge. State in silenzio un po', mentre lui è concentrato: non osi parlare. Pure il frastuono infernale del resto dei dannati, passa in secondo piano – non lo odi più. L'unica cosa che percepisci, è il respiro del poeta che hai davanti, che si infrange sul vetro del bicchiere che tiene a pochi centimetri dalle labbra, tramutandosi in condensa, e poi senti le pagine del taccuino che vengono girate, e ogni tanto un borbottio sconnesso da parte sua. «"Sai, piccola, il tuo profumo di orchidea me lo sento ancora intorno, addosso e pure dentro"». Hank alza gli occhi dalle parole. «Ma scusa... a volte scrivi come se fossi un uomo, a volte come una donna».
«Già».
Riabbassa lo sguardo. «E dove diamine sta la grinta? Molto carino il profumo dell'orchidea, sempre ammesso che l'orchidea profumi, eppure non sento la grinta. Merda, non hai qualcosa di meglio? Più da duri?»
Fai spallucce. «Ecchecazzoneso. Hai tu il mio taccuino».
Hank sfoglia ancora. «Schifo. Schifo. Ugh, che schifo. Già dal titolo capisco che fa schifo. Che schifo. Cos'è, francese, questo? Fa schifo. Schifo, schifo, schif... ah!» esclama. «Una cazzutissima lista della spesa. Cazzo, sì, cazzo! Hai elencato i tipi di persone che non sopporti?»
«Sono tante, in effetti...»
«Questa mi piace,» e continua a leggere. «"E i nostri ti amo finti e i nostri ti voglio bene veri, amore mio, ficcateli, ti prego, ficcateli tutti nel culo."... ecco la cazzutaggine che ti serve,» dice, prendendo poi un grande sorso dal suo boccale. «Per diventare un poeta grintoso. A meno che non vuoi essere uno di quelle mezzeseghe romantiche e stucchevoli, chiaro».
«Quindi mi basta metterci grinta?»
«Il segreto,» Hank ti fa cenno, con la mano, di avvicinarti. Si guarda attorno, circospetto, come se si aspettasse d'essere origliato o spiato, poi bisbiglia: «Il segreto è la semplicità. La gente, che è stupida, crede che la poesia debba essere qualcosa di meraviglioso. Qualcosa di così emozionante da lasciarti senza fiato. E la riempiono di figure retoriche, di metafore, di significati nascosti, ma non sanno che in realtà, la poesia non è diversa dalla prosa,» fa una piccola pausa. Trangugia il poco che resta della sua birra. «Il segreto per fare tutte le cose, come bere poesia e scrivere vino, sta nel rendere magnifico ciò che non lo è,» farfuglia. «Ergo, nella profonda semplicità».
Oh. Questa non te l'aspettavi proprio.
Batti più volte le palpebre, attonito e incredulo, e ti allontani dal raggio d'azione del fetido alito dell'uomo ubriaco che hai davanti.
«Tutto qui, Hank?» domandi.
Volevi un segreto più grande, una formula per diventare un celebre poeta; hai sprecato una bellissima serata, passandola invece in questo locale gremito di gente disperata, per sentirti dire una cosa che già sapevi: la poesia – come tutta l'arte, del resto – serve a rendere magnifico ciò che non lo è. Grazie al cazzo, santo Dio.
«Tutto qui,» annuisce Bukowski.
Ti riprendi il taccuino, poi «beh, che schifo,» dici, ti alzi e te ne vai.

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