Nietzsche in autobus

Ho fatto un sogno strano l'altra notte. Di solito faccio un mucchio di sogni strani, tipo veramente strani. Ho capito che sono strani perché capita che i miei amici vengano da me e mi raccontino i propri sogni, che loro ritengono strani, ma francamente a me sembrano assolutamente nella norma — confronto i miei, almeno. Nel senso che i sogni in genere sono per definizione sprazzi di vita, di parole, di qualsiasi cosa, amalgamati in modo strano fra loro. Una formula così deve per forza essere strana, deriva dall'inconscio. È normale lo sia. Strana, intendo. Se non fosse strana, beh, quello sarebbe strano. E il mio sogno era davvero strano, l'altra notte.
Una volta avevo provato a tenere un diario sui sogni, del tipo che se ne facevo uno e mi svegliavo in tempo per ricordarlo, l'avrei scritto nei minimi particolari così da trovarne poi il significato su internet o chissà dove. Non ci sono mai riuscita a scriverli. Sarà che sono troppo pigra, non so. Ne avrò buttati giù due o tre, e tutti su fogli di carta presi completamente a caso, i più vicini al letto che riuscissi a trovare. La maggior parte delle volte che facevo un sogno strano, lo raccontavo la sera dopo ad una persona. Non una qualunque, io intendo la persona – la mia persona, sì. Scommetto che anche tu hai la tua persona. A me manca tanto la mia. A volte non sognavo perché non dormivo, e non dormivo perché "facevo notte" con la mia persona. Era bello fino a quando non suonava la sveglia delle sei e dieci e mi toccava alzarmi per andare a scuola, o alzarmi e basta per andare da nessuna parte. Questo succedeva abbastanza spesso, un po' di tempo fa.
Comunque dicevo, ho fatto un sogno strano l'altra notte. Pensandoci ora credo fosse più un incubo, ma al momento non ci avevo fatto caso — non è che avessi provato paura o inquietudine o chissà quale altra emozione negativa. Semplicemente ero lì, che lo vivevo. Non ero nemmeno sicura fosse un sogno o un incubo, a dirla tutta, perché sembrava parecchio qualcosa che avevo già visto. Tipo un dejà-vu, si chiamano così, credo. Però stavo dormendo — di questo sono quasi del tutto certa, e non avevo mai avuto un dejà-vu mentre dormivo.
Ero in autobus ed era domenica. Non chiedermi come facessi a saperlo, o perché cazzo fossi in autobus di domenica, è così e basta. Non so dove stessi andando, non avevo il biglietto e neanche l'ombrello, anche se fuori dal finestrino vedevo che diluviava. Ero lì per caso.
C'era tanta gente sull'autobus, ma nonostante ciò nessun passeggero voleva sedersi accanto ad un altro, di maniera che i posti erano occupati solo per metà. Io ero seduta in fondo, appiccicata al finestrino, davanti a me stava un professore intento a leggere un libro, alla mia destra invece una ragazza cinese che ascoltava musica. Il sedile del professore era girato verso di me, e le sue gambe le teneva piegate così da non sfiorare le mie neanche per sbaglio. Doveva essere un uomo parecchio alto, a giudicare dall'angolazione delle sue ginocchia. Leggeva, ma di tanto in tanto guardava la ragazza cinese, che stava a sua volta bene attenta a non avvicinarsi troppo a me ma neanche al tizio che c'era alla sua destra. L'autobus prendeva delle curve strette che ci sballottolavano di qua e di là. Capitava che i passeggeri si sfiorassero per errore (o per le forze centrifuga e centripeta, ripensandoci ora), specie quelli in piedi, e quando succedeva subito tossivano e si scusavano. Poi tornava il silenzio. Il professore stava leggendo un libro di cucina scritto da Nietzsche. Non so perché Nietzsche, (il filosofo, armonia e caos, Zarathustra, eterno ritorno e via dicendo) avesse scritto un libro di cucina thailandese, o perché un professore lo stesse leggendo, ma comunque erano affari suoi. Magari era un altro Nietzsche che io non conoscevo, e il professore era in realtà un cuoco amatoriale. Non gliel'ho chiesto, quindi non l'ho mai saputo.
— Qual è il tuo segno zodiacale?
— Scusa, cosa?
— Il tuo segno zodiacale, — mi disse il professore, ancora. — Qual è?
— Sagittario.
— Allora la tua spezia preferita deve essere la galanga.
— Mai provata.
— È simile alla radice di zenzero.
— Lo dice il libro?
Il professore disse di sì. Nietzsche sapeva tante cose sulla cucina thailandese, apparentemente.
— Non credevo Nietzsche avesse scritto libri di cucina thailandese...
— Nietzsche?
A volte i passeggeri scendevano alle fermate, a volte salivano, come fanno normalmente. Schiacciavano i pulsanti rossi sopra cui, al posto di stop, c'era scritto libero, e alla fermata erano liberi di scendere. Ovviamente era una metafora, era così palese la sua natura di metafora che c'era arrivata pure la cinese con le auricolari seduta rigida e impassibile accanto a me. Non è che se scendevi dall'autobus eri realmente libero, insomma. Era una semplice, ironica metafora – che non ho voglia di spiegare, ci puoi arrivare da solo.
La ragazza cinese portava una minigonna stretta, in jeans, che le lasciava scoperte le gambe pallide. Riuscivo a vedere distintamente una zanzara che le ronzava attorno, che si avvicinava, poi si allontanava, si avvicinava, si allontanava, per infine posarsi definitivamente sulla sua coscia nuda. Era lì, chiara ed evidente, nero su bianco. La cinese stava ancora ascoltando musica, non ci aveva fatto caso, e la zanzara a questo punto stava già, molto probabilmente, succhiando il suo sangue. Mi sono sentita quasi in colpa a non avvertirla del pericolo – se io avessi avuto una zanzara poggiata sulle gambe o sulle braccia o una qualsiasi altra parte di me, avrei voluto che qualcuno la mandasse via, o che per lo meno me lo dicesse. Tipo ehi, guarda che hai una zanzara attaccata alla pelle, oppure zac!, scusa se ti ho schiaffeggiata ma avevi una zanzara addosso, meglio così, no?
Ecco quello che succede a non aiutare gli altri, mi sono detta, poi ti svegli coi sensi di colpa. Chissà se quella ragazza mi ha odiata, quando non le ho detto della zanzara. Io mi sarei odiata davvero, soprattutto perché le punture di zanzara mi provocano non pochi rigonfiamenti cutanei.
In fin dei conti, comunque, non ha più importanza – era un sogno parecchio normale, in realtà, questo. Stavo mentendo quando ti ho detto che era un sogno strano. Di sogni strani non ne faccio più da un po'. Non ci sei più tu a cui posso raccontarli, quindi ho smesso di sognarli. Semplice. Mi manca fare sogni strani e mi manca la tua presenza. Sempre se non sia stato tutto un sogno, anche quella. Magari sto sognando pure ora, ma non saprei affermarlo con certezza quindi meglio se non affermo niente.
Solo dopo che il professore con il suo libro di cucina thailandese scritto da Nietzsche e la ragazza cinese con le auricolari e il prurito alla coscia furono scesi, io mi sono liberata.
Ma anche questa è una metafora che non ho voglia di spiegarti.

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