Maledetta linea gialla

Il treno stava per arrivare in stazione. Sarebbe arrivato nel giro di cinque o sei minuti, non era mai puntuale. Cinque o sei. Forse sette. Intanto lui piangeva ancora, con le tre arance fra le braccia – gli piaceva avere qualcosa da tenere in mano mentre aspettava il treno.
È che quel giorno stava peggio del solito. Di solito si svegliava con il cervello impastato dall'odore di pancakes appena fatti, lui. Sbadigliava, si stropicciava gli occhi, e si massaggiava le tempie. Non c'era mai lei che preparava qualcosa da mangiare, in cucina, però lui ne sentiva il profumo. Dei pancakes. Certe volte erano ai mirtilli, altre volte col cioccolato, altre volte col limone e lo zucchero, o allo sciroppo d'acero. Lui ne sentiva l'odore e si svegliava, di solito.
Certe mattine guardava il muro, altre mattine restava ad osservare il piatto vuoto davanti a sé. Non pensava a molto, quando lo faceva. Anzi, era più corretto dire che non pensava a niente. Cosa c'era da pensare, alla fine? Era solo un piatto vuoto. Nulla di più, nulla di meno. Era così lucido che quasi si vedeva riflesso. Ma era vuoto.
Tagliava i pancakes con il coltello e li infilzava con la forchetta, e lo sciroppo d'acero che lei gli aveva messo sopra per condirli gocciolava giù, finendo sul piatto. Mangiava tutto, anche se il piatto era sempre vuoto, e non era cambiato proprio un cazzo.
Certe mattine, quelle migliori, sentiva la presenza di lei alle sue spalle. Gli si avvicinava piano, in modo quasi straziante nella sua lentezza, ma lui la lasciava fare e aspettava di sentire le sue braccia avvolgersi attorno al suo collo, e di sentire le sue labbra vicino all'orecchio. Era il momento della giornata che preferiva, anche se in un certo senso detestava quella sensazione. Gli faceva paura. Sembrava che tremasse tutto, dalla testa ai piedi, come se avesse le convulsioni – ma comunque, era solo una sua impressione. Era così immobile che a vederlo pareva in catalessi, ipnotizzato, persino morto. Solo gli occhi lo tradivano, quando li alzava dal piatto e li puntava sulla finestra. Vedeva le strade di San Francisco che iniziavano a risvegliarsi dal sonno notturno. Il sole illuminava le facciate delle case con una luce dorata, quasi rossa, e lui, per qualche attimo, sorrideva.
Poi lei spariva ed aveva di nuovo freddo, il piatto tornava vuoto, il tremore smetteva e non sentiva più niente di niente. Lo odiava.
Certe mattine si alzava da tavola con lo stomaco che gli brontolava perché aveva fame. In frigorifero c'erano avanzi avariati, di qualche settimana prima, che avevano iniziato a fare la muffa. Il problema consisteva nel fatto che lui era troppo buono, e questo suo modo di essere gli impediva di distruggere la vita di quei microorganismi batterici formatisi sul pollo al curry o sulla porzione di lasagne in frigorifero. Quindi non le buttava. Sarebbe stato un assassinio.
Quella mattina si mise le auricolari collegate al suo lettore MP4 e s'infilò la giacca. Non lanciò un ultimo sguardo al suo appartamento né sembrò avere ripensamenti di alcun genere, quando uscì dalla porta chiudendosela alle spalle con un tonfo sommesso.
San Francisco gli era sempre piaciuta. Sempre. Gli piacevano le strade e i tram e le casette e gli alberi ai lati delle vie, ma soprattutto gli piaceva perché gli ricordava lei. Tutto, in quella città, apparteneva a lei, e lui ne era drogato. Ne aveva bisogno. San Francisco era l'unica cosa a cui riusciva a dare un senso.
Il suo appartamento si trovava al terzo piano di un piccolo condominio come tanti altri condomini nel quartiere di Telegraph Hill, una delle sette colline di San Francisco. La fermata del tram si trovava a mezzo isolato da lì, che percorreva sempre a piedi.
Salì sul tram, passò il biglietto, poi si sedette in fondo. Era ancora troppo presto per vedere turisti. Quei cazzo di turisti. Spuntavano da ogni dove, come funghi velenosi, infestavano le strade e i mezzi pubblici della sua città. Erano lì solo per guardare, per divertirsi, ma chi diamine si credevano di essere? Si ricordava bene della prima volta che lui aveva messo piede a San Francisco, sette anni prima. Non gli sembrava di essere stato così turista. Lui ci si era trasferito, alla fine. Ma comunque.
Scese dal tram davanti al Ferry Building Marketplace e andò a comprarsi tre arance. Poi uscì e riprese il tram, diretto alla stazione dei treni.
Ci andava ogni mattina, con quelle tre stupide, maledette arance. Ogni mattina. Alle otto meno un quarto lui era lì in stazione, ad aspettare. Niente valigia, niente biglietto, solo tre arance. La gente neanche lo guardava più. Era come se si fosse messo d'accordo con il treno, in silenzio, come se andasse a salutare quello stesso treno ogni giorno alla stessa ora.
Ci vediamo domani, otto meno un quarto.
Ci sarò.
Io spero di non ritardare.
Lo spero anche io.
Tu aspettami lì, okay?
Okay.
Il trucco per stare vivo era non fissare troppo quella maledetta linea gialla. Era troppo gialla per i suoi gusti. Gli veniva da oltrepassarla con un balzo e aspettare il treno stando seduto sui binari, ogni mattina. Quindi preferiva non guardarla per non esserne tentato.
In ogni caso, non era al treno che parlava, né era il treno in sé che aspettava. Era lei, come ogni mattina. Eppure, lei non scendeva mai dal treno (francamente, non ci era mai salita) e ogni mattina quel vuoto al non vederla lo investiva come migliaia di treni allo stesso tempo. Lei amava le arance, lui un po' meno. Le prendeva sempre per lei, ma finiva per mangiarsele da solo al parco, ogni giorno. Guardò in basso, verso i tre agrumi, e si accorse di lacrimare. Ne rimase sorpreso: non gli succedeva spesso di piangere. Di solito sentiva solo tanto, tanto dolore, e angoscia, e nausea, e voglia di oltrepassare la maledetta linea gialla. Ma non aveva mai pianto. Piangere era una cosa nuova per lui.
Otto meno un quarto. Il treno stava per arrivare in stazione. Sarebbe arrivato nel giro di cinque o sei minuti, non era mai puntuale. Cinque o sei. Forse sette. Intanto lui piangeva ancora, con le tre arance fra le braccia – gli piaceva avere qualcosa da tenere in mano mentre aspettava il treno. In ritardo come al solito, per prolungare la sua agonia.
Sei minuti più tardi, eccolo. E quando il treno si fermò e i passeggeri presero a scendere, lui la cercò con lo sguardo, restando fermo immobile, senza muovere un muscolo. La gente capitava che gli venisse addosso e lo spintonasse o gli imprecasse contro perché se ne stava lì in mezzo alla banchina, con lo sguardo assente perso chissà dove. Non gli importava un gran ché dei loro insulti, in ogni caso.
La cercò con gli occhi, ma lei non c'era.
Rimase lì in piedi perché quel giorno stava peggio del solito. Aspettò ancora. Smise di lacrimare, nel frattempo, quando capì che lei non sarebbe mai tornata.
Ci vediamo domani, otto meno un quarto.
Ci sarò.
Io spero di non ritardare.
Lo spero anche io.
Tu aspettami lì, okay?
Okay.
La mattina dopo, in stazione, solita ora, lasciò le tre arance sulla banchina, le appoggiò a terra, che se lei fosse scesa dal treno e le avesse viste, avrebbe saputo che lui la amava ancora. Poi oltrepassò la maledetta linea gialla, e ripensò ai suoi pancakes, quelli ai mirtilli, e quelli col cioccolato, e quelli con il limone e lo zucchero, e quelli con lo sciroppo d'acero, ripensò ai suoi abbracci, ai suoi occhi, a San Francisco in ogni ora del giorno, ai batteri sul suo pollo al curry, al sole che alla mattina entrava dalla finestra, alla voce di lei, al sapore delle sue labbra, ai turisti che non sapevano proprio un cazzo, a lei che non lo aveva mai visto piangere, al suo amore per le arance, al primo bacio e il suo primo ti amo. Non udiva più nulla, se non un lieve fischio meccanico in lontananza. Sorrise, chiuse le palpebre e si sedette; quella mattina, il treno arrivò puntuale e inesorabile, sui binari oltre la linea gialla.
Maledetta linea gialla.

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