La grande onda di Kanagawa

Ogni volta che mi capita di fare sesso passo tutta la durata del tempo a fissare la parete che sta di fronte al mio letto. È una parete noiosa, non proprio bianca ma nemmeno grigia, banale, scontatissima, e penso che dovrei attaccarci sopra qualcosa, un giorno di questi. A volte la testa di Josuke me ne oscura la visuale, e mi tocca muovermi sotto di lui e tirargli qualche piccolo calcio e alzare la testa dal cuscino facendomi venire il torcicollo, e lui si ferma a guardarmi e io gli rivolgo un piccolo sorriso finto e gli dico di non fermarsi, ma in realtà non me ne frega un cazzo se si ferma o se continua. Penso solo a cosa potrei attaccare sulla parete per renderla accattivante. Non ho proprio immaginazione. Una volta l'ho chiesto a lui. Gli ho detto senti, Josuke, cosa ci metto su quella parete?, e lui mi ha risposto mettici una copia della grande onda di Kanagawa, cosa cazzo è la grande onda di Kanagawa, gli ho chiesto io. Poi quando abbiamo finito di scopare l'ho cercata su internet. A lui piacciono quel tipo di cose, lui le capisce, riesce a darci un significato, mentre per me un'onda del cazzo è un'onda del cazzo. Ho provato a spiegargli che mi fa schifo e che non voglio mettere la grande onda di Kanagawa sulla mia parete ma lui non ci arriva, ne è innamorato. Non vede che fa schifo?
Adesso, appeso alla parete di fronte al mio letto, c'è un arazzo ritraente la grande onda di Kanagawa, un arazzo enorme che copre quasi tutto il muro, e ogni volta che facciamo sesso cerco di non guardarlo anche se è difficile non farlo. Me lo ha comprato Josuke e io vorrei buttarlo via. Perché ti piace così tanto?, gli ho chiesto, poi. Perché l'onda mi ricorda te e amo tutto quello che mi ricorda te. Dice che la grande onda di Kanagawa gli ricorda me perché ho sconvolto la sua vita come uno tsunami. Io non penso sia così. E non penso nemmeno che quell'onda del cazzo sia uno tsunami, ma comunque.
Josuke mi vuole bene e di questo ne sono sicura, e a volte penso a come sarebbero la mia vita e quella parete banale senza di lui. In fondo, tutte le cose prima o poi scompaiono, i fiori, le case, le nuvole, le stelle, anche le onde del mare che si creano e si distruggono sbattendo violentemente contro la spiaggia o gli scogli. Josuke dice che la grande onda di Kanagawa assomigli a me, ma penso che sia più qualcosa che assomigli a tutti. Si nasce, e si muore, e quello che sta in mezzo credo non abbia così tanta importanza. Ho provato a spiegarglielo, ma lui mi ha detto che è proprio ciò che sta in mezzo a contenere la vera importanza. Non importa se si nasce o si muore, importa se si riesce ad esistere, anche solo per un secondo, mi ha riposto lui. Non so se abbia ragione o se abbia torto, ma ho tenuto l'arazzo alla parete per dargli il beneficio del dubbio, e quando scopiamo penso spesso a quello che mi ha detto, guardando la grande onda di Kanagawa ferma immobile nel suo attimo di esistenza. Se quell'arazzo fosse stato vivo, se avessi potuto mostrare a Josuke la fine della grande onda, forse mi avrebbe dato ragione. Il problema delle cose è che le percepiamo immobili, in un attimo, come l'onda sul mio arazzo, e immobili vuol dire infinite. Vedi un sasso immobile per la strada e pensi che starà lì per sempre, vedi un albero immobile e pensi che starà lì per sempre, vedi il sole immobile e pensi che starà lì per sempre, vedi tua madre o tuo padre e pensi che staranno lì per sempre. Sai che non è così che funziona, ma li vedi fermi in quell'attimo e ti sembra tutto così meraviglioso e perfetto e infinito che non pensi all'attimo seguente, quando il sasso verrà sgretolato o l'albero verrà tagliato o il sole si spegnerà o i tuoi genitori moriranno.
Questa è una cosa che Josuke non vuole accettare, è troppo triste e definita, per lui, ma va bene così. Josuke immagina la grande onda di Kanagawa senza un inizio e senza una fine, così com'è raffigurata sul mio arazzo, la vede per quello che è, per la sua esistenza, la vede mentre si increspa e si forma la schiuma bianca e si alza imponente sopra alle barche dei pescatori con il monte Fuji in lontananza, piccolo a confronto, ma lui non ha mai immaginato la grande onda mentre si scaglia sopra di loro e va a morire addosso alla terraferma, così come non si è mai domandato come diamine si fosse formata un'onda così enorme. La vede immobile e pensa che sarà lì per sempre.
Dice che l'importante è quello.
Qualche anno più tardi, a Josuke hanno diagnosticato un cancro all'intestino, e un giorno di qualche settimana dopo, è morto. Non ha sofferto molto, né gli sono caduti i capelli, è successo tutto in così poco tempo che nemmeno lui è riuscito a metabolizzare attimo per attimo. Prima che morisse, sono andata in ospedale a trovarlo. Non ha detto nulla, non penso neanche fosse cosciente o che sapesse che ero lì, dormiva e basta, drogato di antidolorifici e medicinali vari. Sentivo che era ancora vivo perché c'era un costante bip metallico che risuonava per la stanza, e vedevo che il suo petto si alzava e si abbassava piano, mentre respirava. Mi sono seduta vicino a lui, in silenzio, e l'ho guardato.
Non gli ho mai dato ragione, neanche dopo il suo funerale, ma ci penso spesso a quello che mi diceva riguardo alla grande onda di Kanagawa. Ci ho pensato per anni, e a volte pensandoci mi incazzo ancora con lui o piango, qualche volta. L'ho studiata all'università, un giorno, ma il mio professore non ha accennato a nulla di quello che mi aveva detto Josuke, e mi sono incazzata ancora di più. Se potessi tornare indietro, penso gli avrei dato retta, penso non sarei rimasta a rimuginare troppo sulla mia parete banale, noiosa e scontatissima, né bianca né grigia, e mi sarei goduta i momenti in cui io e Josuke facevamo l'amore, senza pensare a cosa attaccare su quella parete del cazzo. Non penso sarebbe servito a non fargli venire il cancro, sarebbe morto in ogni caso, ma comunque. È quello che mi aveva sempre detto, che le cose importanti nella vita stanno in un attimo immobile e infinito di esistenza, stanno lì e aspettano che tu le colga, e a lui non fregava niente di com'erano prima, o di come sarebbero state dopo, e anche se per me la grande onda di Kanagawa era solo un'onda del cazzo, per lui era la rappresentazione di quell'attimo. Del sasso, del fiore, delle stelle, dell'albero, delle case, delle nuvole, del sole, dei suoi genitori, di noi che facevamo l'amore, e gli andava bene così.
Alla fine, l'arazzo della grande onda di Kanagawa l'ho tenuto, ed è ancora lì, appeso alla mia parete. Prima di dormire, lo guardo e qualche volta sorrido. Non faceva così schifo, dopotutto.

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