Certe volte un uomo è solo un uomo
La prima cosa che Étienne Gautier vede, quando le sue palpebre solcate da piccoli capillari violastri si aprono, è il bianco accecante della luce solare che entra dalle finestre del suo appartamento. Impulsivamente richiude gli occhi, li serra forte, ficca la testa sotto alle coperte e si gira dall'altra parte, verso il muro, ignorando tutto ciò che, in quel momento, gli provoca un gran fastidio ai nervi ottici. Non riesce però a non chiedersi, con il senno di poi, che ore siano; forse le due del pomeriggio, forse le dieci della mattina: superate le otto, i raggi luminosi che si fanno strada oltre il tessuto leggero delle tende, gli sembrano tutti uguali, che sia mezzogiorno o che siano le tre, e lui non riesce a distinguerli – ergo, non ha la minima idea di che ora sia.
Sapevate che i fasci di luce solare non sono bianchi, ma sono invece tutti colorati, e che a seconda di quale di quei colori viene respinto dalle superfici degli oggetti, essi assumeranno quella stessa tonalità? Étienne non ci aveva mai pensato prima di leggerlo in una rivista scientifica: dava per scontato che le cose attorno a sé fossero pigmentate e basta, non che fosse la luce apparentemente bianca a renderli tali. È interessante, no?, che una cosa ci sembri ciò che in realtà non è. È una faccenda molto interessante.
Nonostante non sappia che ore siano e non si ricordi degli impegni che ha per la giornata, Étienne rimane lì sotto per un po', nascosto alle cattiverie del mondo dal suo lenzuolo; solo quando l'aria che sta respirando diventa calda e umidiccia, si decide ad uscire dal suo bozzolo e ad aprire gli occhi, limitandosi però a fissare il muro della sua stanza ad una spanna dal suo viso.
La domanda gli sorge spontanea: il grigio dell'intonaco che vede lui, è della stessa identica tonalità di grigio che vedrebbero gli altri, nella sua situazione? Come si fa ad esserne sicuri? E possiamo davvero esserne sicuri?
Nel senso che, va bene, si può comodamente affermare che le pareti della sua camera siano grigie (un grigio molto chiaro), ma come si fa a sapere che un'altra persona veda lo stesso grigio (molto chiaro) che vede lui? E come si fa a sapere che il cielo è veramente azzurro e non sia, per ipotesi, rosso? Come si può dire che il rosso sia il rosso e non il giallo? Perché se Étienne definisce come azzurro ciò che un altro vede rosso, miei cari, qui ci sta una lieve, lievissima interferenza di base. E nessuno potrà mai sapere con certezza che i colori che vede lui e che lui definisce con un dato nome, siano di fatto gli stessi colori ai quali un'altra persona dà lo stesso nome.
Teoricamente.
Étienne sbuffa, si alza a sedere e si strofina gli occhi con le mani. Gli si staccano un paio di ciglia, che si mette ad osservare rigirandosele fra i polpastrelli. Chissà quante ne ha in totale, attaccate alle palpebre, e chissà quante gli cadono ogni giorno: vi pensate ricevere un soldo ogni volta che cade una ciglia? Ci puliremmo tutti il culo con banconote da cinquanta, dopo la pensione, sicuro come la morte. E a nessuna donna fregherebbe più nulla del mascara, ovviamente.
Uno di quei piccoli peletti oculari gli scivola dalla pelle e si perde fra le lenzuola, l'altro invece lo soffia via dopo aver espresso un fugace desiderio – rivedere il suo fratellastro, Floyd Dubois, ma questa è una storia che deve ancora venire – e finalmente è in grado di posare i piedi nudi per terra e di incamminarsi verso la cucina.
Si trascina a passo lento, molto lento, domandandosi di tanto in tanto quanta vita ci sia nella vecchia moquette che ricopre il pavimento: tutti quei batteri e germi e insettini e microbi che giocano e mangiano e dormono e cagano nascosti fra le milioni di setole chiare del suo grande tappeto. Lui non li può vedere, quei microscopici esseri – sa solo che sono lì, celati alla sua vista – ma è troppo pigro per prendere l'aspirapolvere e dare una bella ripulita al porcile che è diventata casa sua.
Ma sì, lo faccio domani...
In cucina, Étienne si prende una tazza e si mette a fare il caffè, poi trova delle fragole in frigorifero e decide di mangiarsi quelle, assieme ai cereali.
Si siede al tavolo, e mentre aspetta che la sua bevanda sia pronta, inizia ad osservare il frutto rosso che tiene in mano. Frutto, per così dire: lo sapevate che le fragole non sono affatto un frutto? La parte commestibile non è altro che il ricettacolo (il punto dal quale si innestano i petali) ingrossato di un'infiorescenza (un raggruppamento di rami che portano fiori) mentre il frutto vero e proprio sono i semini gialli che Étienne sta studiando proprio ora.
E chissà quanti sono, quei semini...
Inizia a contarli, togliendoli uno ad uno con uno stuzzicadenti: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue, ventitré – il caffè è pronto, ma Étienne non se ne accorge – ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto, ventinove, trenta, trentuno, trentadue, trentatré, trentaquattro, trentacinque, trentasei, trentasette, trentotto, trentanove, quaranta, quarantuno-
Il telefono di casa squilla improvvisamente, e l'uomo prende quasi paura. Tiene a mente il numero al quale è arrivato e va a rispondere, quasi del tutto certo di dover sbattere la cornetta in faccia a qualche venditore di allarmi o a qualche pigro testimone di Geova che non se l'è sentita di uscire per le strade, quella mattina.
«Sì?»
«Sono Alex, c'è Roxanne?»
«Non abita nessuna Roxanne qui, mi spiace».
«Oh... devo aver sbagliato numero, mi scusi. Buona giornata».
E il tizio di nome Alex riattacca.
«Buona giornata...» mormora Étienne, un po' in ritardo, con una leggera nota di delusione nella voce. Voleva essere lui a riattaccare.
Rimane qualche attimo a contemplare le cifre del telefono attaccato al muro bianco: chi è stato a scrivere i numeri in quel modo? Il 2 che sembra un cigno, il 3 che sembra un paio di tette viste dall'alto, il 7 che sembra una clessidra a metà... forse li ha inventati un bambino?
Sbuffa e riattacca anche lui, appendendo la cornetta al suo posto, poi torna in cucina e riprende a contare i semi di fragola: arriva a duecentocinque.
Duecentocinque semi piccoli e gialli.
Sembrano quasi briciole di pane sparse sulla tavola, oppure sembrano stelle incandescenti sparse nel cielo notturno, o ancora sembrano tanti infidi brufoletti schifosi sparsi sulla pelle di qualcuno con problemi d'acne. Assomigliano a semi di fragola solo quando sono attaccati alla fragola.
Che strano, non vi pare?
Tutti noi sembriamo uomini solo quando siamo con altri uomini, proprio come quei semi di fragole. Tutti quanti noi ci inventiamo storie su storie, racconti, poesie, dipingiamo quadri, giriamo film, leggiamo libri, ci arricchiamo, a volte ci perdiamo, ci convinciamo di essere importanti come se fossimo lì al centro della galassia. Se siamo coscienti della nostra vita e della nostra morte, allora siamo certi di valere almeno il tempo che l'Universo ha impiegato per dotarci di quella consapevolezza, o il tempo che ci abbiamo messo noi a scoprirla da soli: milioni di anni di evoluzione.
Ma non vi pare strano che per l'Universo, non siamo nulla, in realtà? Milioni di anni di evoluzione, eppure siamo un unico seme di fragola buttato lì in mezzo a venti campi da football attaccati. Siamo un numero ad una cifra inventato da un bambino, i microbi che vivono nella moquette che copre i pavimenti delle dimore dei grandi capi. Siamo un mero battito di ciglia soffiato via dal respiro di un re, un minuscolo raggio di luce che si infrange su una montagna nera come la pece ma che non è in grado di darle colore.
Noi siamo perché non siamo proprio nulla: certe volte un uomo è solo un uomo, nient'altro.
Ma non è importante farsi tutte queste domande.
Giusto?
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