Brigante del Far West
È un rumore ritmico e scandito, quello dei pistoni del treno sulle rotaie, un continuo battere e un continuo movimento, ripetitivo e plumbeo: ben preso ipnotizza le mie orecchie e i miei occhi stanchi, che iniziano a chiudersi senza ricevere l'autorizzazione da me medesima.
Poggio la testa sul finestrino, la mia carrozza completamente vuota, e lascio che il mio sguardo vaghi, vacuo e indifferente, sulla campagna che sfila veloce sotto di esso. Cipressi su cipressi, campi di papaveri e di grano ormai maturo, e qualche villa rurale abbandonata a se stessa, di tanto in tanto. La mia tazza di caffè ormai vuota, se ne sta a far compagnia al libro di Isabelle Allende sul tavolino davanti a me – la caffeina non ha funzionato per niente, e sono quasi tentata di chiamare la donna che mi ha venduto la bevanda, quella bionda, e chiederle un rimborso.
Dimmi, tu, donna del carrello: perché mi sto addormentando? Ho chiesto un caffè per restare sveglia, altrimenti avrei preso una camomilla; non ho di certo speso quattro euro e trenta per viaggiare nel mondo dei sogni, vedi. Dalle mie parti, quattro euro e trenta per un caffè soporifero quasi tiepido, sono molti. E poi, tu cosa ci guadagni a farmi addormentare? Non mi pare sia compreso nel prezzo.
A riferirle ciò, però, sembrerei maleducata. Mi rassegno: presto o tardi, Morfeo verrà a prendermi, al contrario di come aveva fatto con quello scrittore che soffriva di insonnia. Poverino.
Le mie palpebre si sono ormai irreparabilmente serrate, quando la porta della carrozza si apre, spaventando il Dio del Sonno che scappa a gambe levate. Sembra quasi una lepre rincorsa da una volpe.
C'è un uomo, piuttosto in là con gli anni, che lentamente si siede di fronte a me, dall'altro lato del tavolino, e «ti dispiace?» chiede, forse riferendosi al modo in cui lo sto guardando, confondendo la mia stizza verso il caffè, per stizza nei suoi confronti.
«No, certo che no,» mormoro, soffocando uno sbadiglio che lo fa sbadigliare a sua volta.
Ridacchia: «Sono contagiosi, eh?»
Stacco la tempia dal finestrino, raddrizzandomi un poco, quel tanto da imitare la sua posa rilassata; accavalla le gambe coperte da pantaloni neri e larghi, e si toglie il cappello, respirando a pieni polmoni.
«Già,» rispondo.
Mi prendo qualche secondo per osservare il suo viso, mentre è occupato ad ammirare il panorama all'esterno, che scappa via veloce quanto Morfeo. Una folta barba, tendente al grigio, capelli dello stesso colore, e i primi segni di calvizie proprio in cima alla testa. I suoi occhi sono azzurri, stranamente caldi e gentili, pieni di vita e meraviglia, e quando s'accorge che lo sto studiando, mi sorride.
«Posso vedere?» domanda, indicando il libro sul tavolino.
Annuisco.
«La Casa degli Spiriti,» dice, fra sé e sé, sfogliandolo velocemente. «È carino?»
«È decente,» replico. «Leggi molto?»
«Una volta, sì. Poi, fortunatamente, ho perso i miei occhiali e ho dovuto smettere: non vedevo più le parole,» ridacchia ancora, scuote la testa e mi restituisce il libro.
«Fortunatamente?»
«Spendevo troppi soldi per comprare storie inventate, scritte da gente che nemmeno conosco,» fa lui. «Così ho iniziato ad usare quei soldi per cose utili, che mi servono davvero».
Alzo un sopracciglio. «Cose del tipo?»
«Cibo per gatti. Ho molti gatti, a casa: randagi, per lo più, e sfamarli costa molto».
Sgrano gli occhi, fissando quasi sgomenta lui e il suo bizzarro modo di essere. Insomma, rinunciare ai libri per comprare cibo per gatti? A me neanche piacciono, i gatti! Preferisco di gran lunga le leonesse: quelle cacciano le prede, scegliendole bene, al contrario dei primi, che s'accontentano di gelatina al gusto di pesce, in scatola.
Chi mai guarderebbe un gatto, se paragonato ad un leone?
L'anziano scoppia a ridere di gusto. «Sto scherzando, sto scherzando!» esclama. «Non spendo tutti i soldi in cibo per gatti. Una parte la uso anche per i cani, chiaro».
Non riesco ad evitare una smorfia di disappunto, che prontamente solca il mio viso, un po' come se mi avesse detto che il caffè soporifero tiepido è buono: perdita di tempo.
«Non ti piacciono i cani e i gatti?» si acciglia.
«Avevo un cane, una volta,» mormoro, spostando lo sguardo fuori dal finestrino. «Si chiamava Blues».
«Oh,» dal mio tono di voce, si rende conto che quella storia, non è una storia felice. «Capisco».
«Già,» sbuffo. «Fa schifo. Quando muoiono».
Con la fronte premuta sul vetro fresco, osservo il passaggio del treno che smuove, in un vortice d'aria, l'erba lunga vicino alle rotaie. La stessa erba in cui Blues si tuffava, gli stessi papaveri, le stesse giornate di sole. L'unica differenza? Lui non c'è.
«Molto più schifo dello schifo,» replica l'uomo. «Qualche anno fa c'era un gatto strano che girava, per il mio quartiere, sai. Un randagio, uno orgoglioso: così orgoglioso da non accettare mai il cibo che gli davo. Era uno furbo, però, perché non appena mi giravo, subito scattava e se lo prendeva. Che fosse una coscia di pollo, un pesce, o un passero appena cacciato, se li portava via tutti. L'avevo soprannominato Brigante del Far West, per il color sabbia del suo pelo».
Torno a guardare il vecchio, trovandolo perso nel passato. Le sue iridi nascoste da un mesto velo di ricordi, che paiono pesargli sulle spalle abbastanza da incurvarle verso terra.
«Che è successo?» lo invito ad andare avanti.
«Dico che Brigante era uno strano gatto perché non mangiava mai il suo cibo. Lo rubacchiava qui e là, e il suo comportamento schivo degno di una volpe mi stava incuriosendo parecchio. Così l'ho pedinato, una sera, al chiaro di luna, senza farmi vedere,» fa una pausa, sorride lievemente, poi continua: «Molto probabilmente s'era accorto di me, perché a tratti si fermava e mi aspettava, con quell'aletta di pollo in bocca, come se avesse voluto che lo seguissi, di maniera che arrivavo ad una decina di metri da lui; poi riprendeva a camminare velocemente, quasi seminandomi, si fermava, mi aspettava e via così, fino alla discarica della città».
Lo fisso e basta. Muta e attenta, solo il treno fa rumore.
«La prima cosa che ho notato, era il tanfo di carne morta e putrefatta che aleggiava nell'aria. Non si respirava,» abbassò la voce. «Brigante si avvicinava sempre di più a quell'odore tremendo, senza mai arrestare la sua andatura rapida per attendermi: sono stato tentato di girarmi ed andarmene, ma col buio che c'era, e senza una guida, sicuramente mi sarei perso,» un'altra pausa, poi «credevo che l'odore nauseabondo provenisse dalla spazzatura, ma mi sbagliavo».
Viene interrotto bruscamente dalla fermata del treno nella cittadina vicina alla mia fermata. Per qualche attimo osserva le figure salire e scendere dai vagoni, si liscia la barba, e solo dopo aver sorriso ad un bambino in piedi con i suoi genitori, vicino alla linea gialla, riprende il racconto.
«Brigante stava portando il cibo alla sua famiglia morta. Una gatta che doveva aver appena partorito era accasciata al suolo, riparata da una macchina arrugginita e un materasso pidocchioso, col ventre gonfio pieno di gas di scarto prodotti dalla decomposizione; lo stesso valeva per i suoi tre cuccioli che aveva dato alla luce. Tutti e quattro morti. E Brigante era solo, con un mucchio di cibo anch'esso andato a male, ormai».
«Che ne è stato di lui?» oso domandare.
«L'ho portato a casa,» annuisce. «L'ho fatto mangiare, l'ho coccolato e ci siamo fatti compagnia. È rimasto con me per un po', anche se ogni tanto spariva e non tornava per giorni, e presumo andasse dove stavano le ossa della sua gatta. L'ultima volta che l'ho visto è stato due anni fa, all'imbrunire: mi ha guardato, fermo nella strada che porta alla discarica, come a scusarsi, e poi è partito. Non mi ha aspettato, non si è mai voltato indietro... voleva stare solo. Non è più ricomparso».
Mi asciugo gli occhi leggermente umidicci con la manica della maglia, mordendomi l'interno della guancia. «È per questo che non leggi».
«Aiutare animali come Brigante mi piace molto di più,» mi fa un sorriso malinconico. «Lascia che ti dica una cosa. Un piccolo gesto, anche se ti sembra inutile, è comunque un piccolo gesto. Esiste, capisci? Brigante portava cibo alla sua famiglia, nonostante sapeva non l'avrebbero mangiato: quante altre persone farebbero una cosa simile? Non molte».
Il treno inizia a rallentare, e una voce dall'auto parlante mi annuncia che siamo arrivati alla mia fermata.
È ora di scendere.
Pian piano mi alzo, riprendo la borsa, il libro e la tazza di caffè soporifero. «Grazie mille, signore,» gli dico.
«Chiamami Claude,» sorride ancora. «Mi ha fatto piacere parlare con te».
«Anche a me, Claude».
Chi mai guarderebbe un gatto, se paragonato ad un leone? Beh, Claude.
Apro la porta della carrozza, e mi faccio strada fino all'uscita del compartimento, tirando su col naso di tanto in tanto.
Incrocio la donna del carrello, quella bionda, che mi ha rubato quattro euro e trenta per quel caffè, e le do una mano a passare all'altro vagone, tenendole aperto l'uscio.
«Grazie mille,» sospira, e pare molto stanca.
«Si figuri,» le dico, e le regalo un sorriso sincero. «Buona continuazione, arrivederci».
Scendo dal treno, girandomi per vederla sorridere a sua volta, fra sé e sé, forse non aspettandosi quelle parole da parte mia. Chissà, magari sono le prime che ha ricevuto da quando è salita sul treno.
Il sole splende, l'aria di casa mi soffia i capelli lontani dal viso, quando mi avvio per la banchina del binario due.
Penso a Claude, a Brigante del Far West, e sospiro.
Un piccolo gesto, anche se ti sembra inutile, è comunque un piccolo gesto.
Questa sarà una bella giornata.
[a/n: una cosa che avevo scritto qualche tempo fa, non sapevo dove ficcarla – fa schifo, lo so, è troppo carina e sdolcinata, ma chicazzosenefrega].
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