48. Matrioska

Nell'aprire gli occhi, Katsuki non si rese conto del cielo azzurro alle sue spalle. Per primo, intravide le nuvole, bianche come panna montata, lisce e morbide e quasi gli venne voglia di assaggiarle; chissà che consistenza avrebbero avuto sotto i suoi denti, se sarebbero state dolci, se al contrario, salate come un raviolo. I ravioli che gli preparava sua madre, quando aveva dieci anni e tornava da scuola più affamato di un lupo.

«Baku-bro! Ce l'abbiamo fatta!»

A distolglierlo da quei pensieri fu la voce assordante di Kirishima, il suo tono allegro, quasi tremante. Ci mise un po' a metterlo a fuoco, scrutando la sua figura alta e i suoi muscoli possenti. Quando, infine, passò alle sue iridi color fiamma, si rese conto che brillavano.

Brillavano di una luce nuova, una speranza che credeva avessero perso da tanto, ormai.

«Siamo vivi! Siamo salvi!» ripeté il rosso, un'esclamazione di gioia pura gli lasciò le labbra.

Katsuki non comprese subito.

Quelle parole continuarono a vorticargli in mente come piccole matrioske russe che non facevano che aprirsi e aprirsi sino a diventare minuscole. Così gli sembrava quel vortice di consapevolezza che si estese nel suo corpo, quando intravide Izuku.

Lì, davanti a sé, che sorrideva al suo bambino e gli accarezzava il volto con l'amore che solo e soltanto per lui mostrava.

Bastò quell'immagine a fargli tornare in mente tutto quello che c'era stato prima. La battaglia, Fukushūki, il suo maledetto ghigno beffardo, la rabbia, il dolore della sua ferita, i suoi amori in pericolo.

La resa.
Cos'era successo? Ricordava la forte luce bianca, Fukushūki che lo lasciava andare di scatto e il suo tonfo contro il terreno, le braccia di Kirishima che lo tiravano via da tutto quel bianco che gli faceva male agli occhi.

Poi, più nulla.

«Eijrou… ma dove siamo?»

Kirishima, con i suoi ciuffi rosso sangue sparsi sulla fronte e gli occhi vitrei, gli indicò qualcosa dinanzi a sé.
Seguì il movimento della sua mano, alzando un poco il busto e aspettando di sentire la solita fitta tramortirgli i sensi. Strinse i denti, pronto a sopportare quel dolore spargersi nei suoi muscoli come fosse stato un maremoto, ma non avvertì nulla.
La ferita che aveva sulla spalla pareva essere un ricordo lontano.

Istintivamente mosse il braccio avanti e indietro, quasi aspettandosi di sentire il dolore tornare all'improvviso, ma non fu così. Si portò una mano alla spalla ferita, le dita che tastavano la zona, premette forte. Nulla, se non un lieve pizzicore dato dalla pelle sottoposta a quella pressione.

«Baku-bro! Ti senti bene? Guarda che bello!»

Percependo ancora la voce squillante del suo migliore amico, sollevò il capo. Non era pronto a ciò che si ritrovò sotto gli occhi, alla meraviglia che si estendeva sotto il suo sguardo come una cornice. La distesa di fiori di albicocche, di tulipani e rose che crescevano come rampicanti infiniti sulla casa.

La bella casetta che c'era nel mezzo.

Con le tegole rosse, la pittura bianca e le persiane verdi. Verdi come gli occhi di Izuku.

Izuku.

Quel pensiero gli trafisse la mente come uno stoccafisso. Il suo omega, la battaglia. Come trascinato da una forza sconosciuta balzò a sedere, guardandosi attorno con occhi attenti.

C'erano tutti.
Li vide uno ad uno, con le loro chiome colorate, le labbra contratte, i volti stanchi ma felici.

C'era Lucien, assorto da un lato con una mano sul ventre rigonfio, lo sguardo perso nel prato. C'era Kirishima, appoggiato accanto a Denki, stava dicendo qualcosa mentre gli teneva un braccio sulle spalle. C'era Uriel, gli occhi blu come il cielo sgranati, un sorriso che andava da un orecchio all'altro ogni volta che intercettava lo sguardo di Dominic.

Dominic.

Con i suoi occhi verdi, i riccioli che cadevano sulla sua fronte come tanti piccoli arbusti, le mani strette alle guance pallide del beta. Avrebbe dovuto esserne geloso, ma nel constatare il modo nel quale Dominic sorrideva, non ci riuscì. Aveva sempre voluto solo il meglio per lui e di certo, non lo avrebbe privato della sua felicità.

Infine, mentre i suoi occhi si spostavano, lo vide.

Fu come sentire una miriade di palloncini esplodergli nel petto e cospargerlo tutto di un calore che gli fece sussultare il cuore. Se ne sentì investito come dalla raffica di un ciclone, senza vie di fuga.
Ma non voleva scappare.
Lui voleva essere sommerso da quell'amore, da quel modo di amare.

Voleva perdersi nei tratti di Izuku e sentire il cuore morire ogni volta che l'altro lo guardava. Voleva chiudere gli occhi sapendo di averlo vicino per sempre, voleva perdersi nel suono della sua risata, nei suoi occhi profondi come laghi vulcanici, voleva fare l'amore con lui fino a perdere il conto dei giorni che passavano.

Perché, lo amava.

Lo amava da impazzire e il solo pensiero di perderlo era per lui simile a ingerire veleno. Catastrofico, perché il suo corpo non era abituato ad appartenere a qualcuno, ad avere paura per qualcuno, ma ogni volta che Izuku era in pericolo, lui smetteva di ragionare. Esisteva solo lui, esisteva solo il suo dolce omega, il ragazzo che amava più di ogni altra cosa.

In ogni linea temporale.

Non avrebbe mai smesso di farlo.
Gli sembrava impossibile esistere se non aveva Izuku al suo fianco. E lo capì in quel momento, mentre Izuku si voltava a guardarlo e i loro occhi si intercettavano a mezz'aria, fermi gli uni negli altri, intenti a mischiarsi i colori come due secchi di vernice traboccanti.

, in quell'esatto istante, avrebbe voluto corrergli incontro e baciarlo sino a restare senza respiro, fino a farlo cadere a terra. Poi, avrebbero riso insieme e Katsuki si sarebbe beato della sua bellezza, del suono cristallino della sua risata. Lo avrebbe custodito nel cuore, per sempre.

Ma non potevano.

Non potevano e Izuku lo sapeva.
Per questo, gli sorrise, con quelle labbra che avrebbero fatto inchinare Dio stesso. Gli sorrise e Katsuki smise di respirare; avrebbe vissuto per sempre nelle iridi di Izuku, nel suo sorriso dolce.
Lo amava e lo capì in quel momento. Nella tredicesima nuova linea temporale, con un vuoto nel cuore e nell'anima il verde delle iridi di Izuku Midoriya.



🥀



Imboccò il corridoio, la valigietta stretta nel pugno le cui nocche, ancora ferite, stridevano in protesta.

Il piccolo Shura avvolto dal lenzuolo che aveva usato come fascia, dormiva stretto al suo petto, al sicuro sotto un lembo del suo cappotto. Lo aveva preso in prestito, - o così continuava a ripetersi, mentre, sbirciava nell'armadio di Katsuki - promettendo che lo avrebbe restituito appena possibile; mai, se tutto fosse andato bene.

Attraversò il corridoio con le ginocchia pesanti, il corpo stanco; aveva assunto a malapena qualche cucchiaiata di brodo prima di precipitarsi in camera per fare la valigia. Si era dovuto adattare e aveva preso i primi vestiti che gli erano capitati sotto mano, per lo più cose di Shura perché con un neonato non era facile viaggiare.

L'adrenalina della vittoria rendeva l'aria febbricitante, non a caso Izuku aveva scelto proprio quel momento per andarsene per sempre, quando tutto nella casa, era felice. Tutti festeggiavano allegramente nella sala da pranzo, una musica leggera infestava l'aria con la sua melodia fina, i ragazzi giocavano tra di loro.

Non avrebbe dovuto fermarsi.

Si era ripetuto che non doveva fermarsi a guardare, i ricordi lo avrebbero divorato in seguito, ma lo sguardo sfuggì al suo controllo. Sorvolò con quegli occhi chiari tutta la sala, il divano al centro, le fiamme scoppiettanti nel caminetto, gli occhi color miele di Denki.

C'erano tutti, - a parte Kirishima che dopo la perdita della moglie si era chiuso in stanza - festeggiavano la vittoria con i bicchieri di spumante e caffè, con le patatine sparse su tutto il tavolino e gli sguardi sorridenti.

Ognuno di quel viso gli sarebbe mancato. Quel pensiero lo colpì come una tempesta, un dardo che si attaccò al centro del suo cuore come un ago che tira e tira. Tutti quei volti, tutti quei sorrisi. Uno ad uno lo avevano fatto crescere, lo avevano aiutato a resistere e sopportare, ad essere felice.

Era stato felice, in qualche occasione, lì era stato davvero felice. Quella non era una prigione, era il posto che avrebbe voluto chiamare casa, ma non gli era concesso.

Gli sarebbe mancato Uriel, appena rimesso dalla ferita che gli aveva procurato il proiettile sparato dal Mononoke, seduto sulla poltrona che diceva di odiare ma sulla quale, stava sempre. Gli sarebbe mancato Denki, con quei suoi occhioni grandi e quell'allegria intrinseca al suo dna, che ora sorrideva appena, ancora segnato dalla scomparsa della sua rivale-amica, colpevole solo di essersi fatto colpire da Cupido.

Gli sarebbe mancato il suo nipotino, Millie che con i suoi riccioli color foglia che giocava assieme ai bambini di Mina e Kirishima, ignari della prematura scomparsa della madre.
Gli sarebbe mancato Lucien, il fratello e l'amico che aveva ritrovato dopo anni, il ragazzo che aveva lottato fianco a fianco con lui e che continuava a guardare la porta come se improvvisamente Aizawa sarebbe potuto tornare da un mondo immaginario.

Aizawa che si era sacrificato anche per lui.

Mi dispiace, aveva detto mentre il portale lo inghiottiva come un boccone succulento. Aveva sorriso, ma Izuku era certo che fosse più per Lucien che per lui. Gli era comunque stato grato, lui gli aveva permesso di sopravvivere, aveva concesso a Shura almeno qualcuno.

Gli sarebbe mancato Dominic, a malincuore. Il Dominic che aveva conosciuto negli ultimi mesi, il Dominic che aveva salvato suo figlio, il Dominic che gli aveva sorriso e asciugato le lacrime.

Quell'amico a cui aveva promesso la felicità.

Lo stava facendo per loro, per la felicità di Dominic, quella felicità che lui stesso gli aveva giurato. Si disse che non importava cosa avrebbe dovuto affrontare, almeno qualcun altro sarebbe stato felice, almeno qualcun altro avrebbe potuto fare felice lui.

Lui.

Lui che non si era accorto di nulla, non si era accorto dell'ultima occhiata che gli aveva gettato, che non si era accorto di quel sorriso intrinseco alle lacrime e al sapore del dolore. Non si era accorto che gli diceva addio con quel sorriso, con quella carezza smorzata dal singhiozzo che aveva abortito.

Lui che nonostante si fosse imposto di non guardare, era esattamente .

sotto il suo sguardo, in direzione del suo cuore e del suo amore. Lo avrebbe lasciato lì il cuore, lì su quel tavolino dove poggiavano le sue dita affusolate, dove il legno incontrava la sua pelle dura.

Vene e carne, in un intreccio di ossa e sentimenti.

Izuku avrebbe lasciato lì il suo cuore.

Ai piedi di quel tavolino frastagliato, su quel pavimento sporco di fango. Avrebbe lasciato a Katsuki Bakugo la necessità di prendersi cura di quello che avevano avuto. Gli avrebbe lasciato il cuore e il resto; sentimenti, amore, passione.

Avrebbe lasciato tutto a Katsuki, a quegli occhi rossi come il sangue che quell'amore gli aveva fatto versare, a quelle mani che più e più volte lo avevano sollevato dall'abisso nero di cui si era circondato, a quel suo petto che gli aveva sempre fatto da scudo.
Avrebbe lasciato l'amore perché portarselo appresso avrebbe significato solo aggrapparsi a qualcosa che era morto. Morto e sepolto.

Era Dominic che doveva stare con Katsuki, non lui.

Era Dominic che aveva il diritto di stringerlo a sé. Era Dominic che aveva il diritto di baciarlo fino a sciupargli il sapore dalle labbra. Era Dominic che aveva il diritto di chiamarlo “tesoro”. Era Dominic che aveva il diritto di mostrargli loro figlio e pretendere che lui lo amasse.

Non lui.
Non Izuku.

Lascialo andare, Izuku, lo aveva scongiurato Dominic mentre Katsuki era steso a terra, con tutto quel rosso attorno che pareva colore acrilico. Per favore, lascialo a me. Me ne prenderò cura, gli aveva promesso.

Ora, in piedi alle porte del corridoio sarebbe voluto andare verso Dominic e pregarlo di amarlo, supplicarlo in ginocchio se necessario.

Amalo, avrebbe voluto chiedergli, amalo anche per me, ti prego.

Era certo che Dominic ci sarebbe riuscito, avrebbe solo voluto che anche per lui fosse così semplice. Chiudere tutto come un libro che era stanco di sfogliare. Disfarsi di quell'amore come di una biglia colorata.

Poi, Katsuki sollevò lo sguardo.

Per un attimo Izuku smise di respirare. Trattenne il respiro, ingoiò il cuore e prese a scrutare il viso perfetto di Bakugo. Il modo in cui le sue ciglia catturavano l'aria e la smuovevano.

Poi finì tutto.

Katsuki incontrò gli occhi verdi come il mare di Dominic, gli sorrise. Uno di quei sorrisi che facevano morire il fiato, che ti facevano collassare i polmoni, il battito e le attività cerebrali. Con quelle fossette che gli arricciavano gli angoli delle guance come piccoli dolcetti. Sembrava chiamarlo con gli occhi, chiedergli di andare lì e amarlo come anche lui faceva.

Amalo e basta, allora.

Non osservò oltre.
Col cuore che si apriva ogni secondo di più, imboccò l'uscio della porta, la valigia di cuoio stretta tra le dita sottili, la nausea a fargli da compagna.

L'unica compagna che gli restava.

Un minuto prima mentre scendeva le scale, Lucien gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero stati forti. Per Shura, gli aveva detto. , si ripeté mentre si puliva la lacrima che gli macchiava l'angolo dell'occhio e gli rendeva la vista come fatta d'olio, lo farò per Shura, sarò forte per Shura.

E aprì la porta.


🥀



Katsuki lo aveva cercato dappertutto.

Aveva salito le scale, cercato nella stanza che lui stesso aveva accettato di prendere, aveva guardato in bagno, in cucina, in corridoio. I muscoli che fremevano e gli occhi sbarrati.

Dominic non era riuscito a dire nulla, gli aveva passato una mano sulla spalla, massaggiando piano, ma Katsuki aveva reagito malissimo. Lo aveva spinto via, gli aveva detto che era tutta colpa sua se Izuku non c'era più, se era andato via.

Gli aveva sputato addosso la sua frustazione, il suo odio, il suo dolore e Dominic aveva chinato la testa e l'aveva incassato senza protestare. Solo dopo, quando erano intervenuti Lucien ed Uriel, era stato in grado di smettere. Avevano portato via Dominic, che nonostante tutto, non aveva aperto bocca.

Katsuki, incapace di contenersi aveva preso Lucien dal polso e lo aveva stretto al muro. L'omega non si era impaurito. Anzi, pareva non mostrare più nulla di quello che provava da quando Shota non c'era più. Come se, la scomparsa di Aizawa si fosse portata via anche il suo cuore. Gettato in chissà quale nulla eterno.

«Dove cazzo è Izuku?» gli aveva chiesto, fumantino.

Lucien non aveva risposto subito. Guardava altrove, distante e con lo sguardo di uno che uno che non sapeva neppure cosa ci facesse lì.

Infine, Katsuki lo aveva scrollato e aveva ripetuto la domanda più forte, più arrabbiato.

L'omega aveva sollevato i suoi occhi verdi, spaventosamente simili a quelli di suo fratello, e con un tono così gelido che l'aria circostante si era fatta di ghiaccio, aveva detto:

«Non ne ho la minima idea.»

Katsuki non era riuscito a muovere un dito. Quelle parole gli avevano dato la conferma definitiva che Izuku doveva essere andato via. Perché, Lucien non lo guardava in viso, come se spezzare il cuore anche a lui non fosse contemplabile. Non lo guardava in viso e con quel gesto sembrava dirgli “mi dispiace tanto, davvero tanto."

Lui se n'era andato.

Izuku, il suo piccolo Izuku. Il suo omega, il suo amore e aveva portato con sé anche il suo bambino.

Ma fu quando Lucien uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle che si rese conto di quello che quella nuova scoperta avrebbe significato sul suo essere. Izuku lo aveva lasciato. Izuku aveva smesso di lottare per loro.

Forse, l'amore che gli aveva promesso non era stato abbastanza per lui.

Izuku aveva preferito scappare.

Quella consapevolezza lo costrinse in ginocchio, il cuore che gli finiva in gola e sembrava voler risalire sino alle labbra. Avrebbe voluto poterlo sputare fuori come il conato di nausea che gli stava risalendo in gola. Avrebbe voluto soffocare tutto, ucciderlo, bloccarlo.
Rivedere tutto quando sarebbe stato meglio, in grado di affrontare quelle conseguenze e quell'amore che lo stava logorando. Perché, se mai aveva amato qualcuno più della sua stessa vita, quello era stato Izuku.

Era cambiato per Izuku, era diventato l'uomo che il primo Izuku avrebbe voluto fosse, lo aveva aiutato a sopravvivere, a diventare qualcuno. Con un'identità, con una nuova fiamma nel cuore.

Lo aveva amato.

E Katsuki era diventato dipendente dal modo che Izuku aveva di pensare a lui, di lottare per lui.

In preda al dolore cadde sul parquet, le ginocchia che si scontravano contro il pavimento gelido, la delusione che si abbatteva sul suo cuore come la peggiore delle condanne. Una catena che gli si strinse al collo e gli sembrò di soffocare. Affogare nei rimorsi che stava provando, nelle cose che gli bucavano lo stomaco come una spilla da balia. Strillò il suo dolore, battendo il pugno contro il parquet. Percepì a stento la fitta che gli attraversò le ossa della mano, intravide il sangue zampillare a fiotti, come una cascata di acqua. Lo ignorò.

Barcollò sulle gambe, si alzò e attraversò la stanza. Rovesciò tutto a terra; i comodini, le piccole cornici che raffiguravano brevi sprazzi di vita, i portagioia, gli abiti sul letto.

Ruppe lo specchio con lo stesso pugno che aveva tirato a terra.

Poi, un pensiero lo colpì.

La foto.

La foto che teneva sul comò, quella che aveva scattato nel dodicesimo universo, quando Izuku aveva le lentiggini così chiare da sembrare le macchioline di una fragola. Il suo cuore prese a battere più forte, diviso a metà come un pezzo di carne macinata.

Si alzò di scatto, incurante della mano ormai distrutta dalle schegge e dagli impatti. Il sangue gli macchiò la divisa da Hero che ancora indossava. Se la strattonò verso il basso, liberandosi di quella prima parte che pareva esserglisi appiccicata addosso come un guanto di lattice. Respirò velocemente, arrancando in direzione del comò che aveva rovesciato.

A carponi, sul pavimento, frugò tra le macerie delle cose che aveva distrutto.

Sparpagliò tutto qua e là, finché non si tagliò. Un bruciore lampante gli si diffuse lungo il polpastrello, la reazione non si fece attendere. Lanciò lontano quella cornice vuota, la stessa che avrebbe dovuto contenere la foto sua e di Izuku e si portò la mano alle labbra.

Succhiò via il sangue, maledicendo la sua rabbia.

La foto sul comò che rappresentava lui e Izuku, non c'era più.

Si chiese da quanto tempo non fosse lì, ma non seppe darsi una risposta. Lentamente, si alzò, le gambe che non lo reggevano bene e tremavano ad ogni movimento, proprio come le sue mani. Forse, si disse, aveva lasciato la foto in qualche cassetto. La speranza divampò nel suo corpo come la scintilla di un incendio. Bruciò tutto.

Animato da quella nuova consapevolezza si mise alla ricerca di quella foto. Aprì i cassetti dell'armadio, tirò fuori i suoi abiti, lanciò quelli di Dominic all'aria, incurante di dove sarebbero caduti. Strattonò via i cappotti appesi alle stampelle, buttò per terra le camicie stirate, calciò via le scarpe.

Non c'era, non c'era nulla.

Passò alla scrivania, le sue mani si mossero frenetiche lanciando a terra tutti i vari fogli li presenti, rovesciò il barattolino d'inchiostro, ruppe la lampada. Neanche lì, c'era nulla.
La scrivania era vuota, priva di ogni traccia di quel ricordo materiale.

Le mani gli tremarono più forte. Non poteva arrendersi, non si sarebbe arreso.

Riluttante, si avvicinò ai cassetti. Frugò in quello dove di solito dormiva Dominic, ma oltre a quache libro dalla rilegatura vecchia, non trovò nulla. Così, passò al suo. Cercò e cercò tra le varie lettere che gli aveva mandato sua madre durante gli anni, tra le cartoline che gli avevano mandato i suoi compagni di scuola, - nonostante lui avesse detto loro che le avrebbe bruciate tutte se avessero osato mandargliele, erano ancora lì, ben custodite - le osservò una ad una, sventolandole nell'aria nella speranza che la foto fosse lì dentro. Proprio allora, mentre la speranza iniziava a fargli venire i nervi a fior di pelle e la disperazione saliva a fargli compagnia, la intravide.

Un piccolo foglio piegato in quattro.

Una scrittura spessa e disordinata. La riconobbe all'istante. Sul foglio, nella parte alta, c'era scritto il suo nome.
Con le dita che gli tremavano prese ad aprirla. Ne sporcò i bordi con il sangue che ancora zampillava dalla ferita e con occhi veloci come due radar, prese a leggerne il contenuto.

Caro Katsuki,

una volta mi ha detto che le lettere si iniziano così, perciò è quello che sto facendo. Spero di aver scritto bene queste poche frasi, perdonami se non fosse così, sono ancora poco bravo.
Quando leggerai questa lettera, probabilmente non ci sarò già più.
Non prendertela, per favore.
Per favore, non arrabbiarti, non urlare contro Dominic, lui non mi ha fatto nulla. Anzi, è stato Dominic ad aiutarmi a sopravvivere, lo sai. Lui ti ama ed è giusto che tuo figlio abbia un padre. Questo mi ha chiesto una volta, ed io sono completamente d'accordo con lui, perché per quanto io ti ami, amo molto di più quelle povere anime innocenti. I bambini sono tutto ciò che ci condiziona, tutto quello che ci salverà, Kacchan.
Senza mio figlio, non sono nulla.
Sai bene quanto Shura mi abbia salvato la vita, non potrei mai negare al tuo piccolo di averti nella sua vita. E no, non sarebbe giusto prendermi il tuo cuore. Devi affidarlo a tuo figlio, devi amare loro, per favore. Per favore, Kacchan, amami in un'altra vita, non farti distruggere da questo mondo crudele, ama solo chi ti rende felice.
Ti amo tanto, ti giuro che nella prossima vita sceglierò te, e te soltanto amore mio, intanto amami tu. Da lontano, e permetti a tuo figlio di migliorarti la vita.

Il tuo, sempre e per sempre,

Girasole


Una lacrima cadde sull'inchiostro, macchiando quell'ultima parola, sciogliendola. Un singhiozzo ruppe il silenzio della stanza come fosse stata carta velina.

Un rivolo di sangue si riverso nella gola di Katsuki.

«Izuku…»


🥀




Il fischio dei treni gli riempiva le orecchie. Stretto al suo petto il piccolo Shura respirava piano, emetteva piccoli singhiozzi rauchi, come se non gli piacesse affatto stare lì. In mezzo alla confusione, al caos delle persone che andavano e venivano.

Neppure a lui piaceva, ma non poteva farne a meno.

I treni sfrecciavano qua e là di tanto in tanto, le persone li urtavano, spingevano la sua valigia ogni volta che gli andava contro, veloci e frenetici. Grossi uomini in divisa da lavoro, donne con le gonne lunghe e i cappotti nuovissimi, bambini tutti ben incravatti nelle loro perfette divise scolastiche. Izuku li fissava, cercando di capire se un giorno, anche Shura avrebbe indossato quei completini.

Era arrivato alla stazione dopo poche ore. Aveva camminato moltissimo, ma non sentiva nessun male, forse era ancora a causa dell'adrenalina, forse era per via della paura. Qualcosa di nuovo si agitava nel suo petto e lui, proprio come Dominic, non riusciva a dargli un nome.

Il suono di un fischietto lo riscosse.

Sollevò lo sguardo in alto, un uomo vestito di tutto punto indicava una portiera aperta. Alcune persone si stavano accingendo a salire, altri si affrettavano a fare gli ultimi acquisti nei negozi lì vicino. Izuku cercò di farsi largo tra la folla di gente.

Il suo biglietto segnava solo una data di partenza. Nessun ritorno.

Si era dovuto costringere a non pensarci mentre cercava di avanzare tra quella baraonda di caos che si era creato attorno all'enorme e veloce treno marrone. Lui che non conosceva nulla del mondo, avrebbe dovuto imparare a prendersi cura di sé stesso e del suo bambino, se voleva sopravvivere. Non riusciva a pensare a Katsuki, a quello che si era lasciato alle spalle. Ogni volta che lo faceva, qualcosa gli si stringeva alla gola e rischiava di soffocarlo, con le sue dita grosse e invadenti.

Immerso in quei pensieri non si rese conto di essere andando a sbattere contro qualcuno. Percepì solo l'impatto, poi, fu tutto molto veloce. Istintivamente, pose le mani in avanti, i suoi palmi si soffermarono su un cappotto color castagno. Pelle morbida che gli sfrigolò sotto i polpastrelli, come vetro.
Per un attimo, non vide nulla se non quel colore così confortevole, caldo, poi, Shura emise un risolino.

Nell'alzare lo sguardo, il cuore gli morì in gola.

Lo avrebbe riconosciuto su un milione. I tratti del suo viso, i lineamenti degli occhi, la curva morbida della bocca quando sorrideva. Le iridi blu più della tempera per i dipinti, più dell'acqua dei laghi nei quali facevano il bagno.

I suoi capelli castani, lisci e spruzzati di scintille dorate come in un dipinto di stelle.

Sentì il respiro morire nella sua bocca, un piccolo gemito lasciargli le labbra, come il verso di un bambino che vede la luce per la prima volta. Un singhiozzo che gli proruppe dall'anima mentre il cuore gli impazziva nel petto.

«Matthew?»

FINE


🥀

Spazio autrice:
Che dire? Siamo giunti alla conclusione, ma non disperate, il seguito arriverà molto presto!

Più tardi posterò i vari ringraziamenti, vi annuncerò anche delle piccole cosettine! Intanto, vi aspetto nei commenti ;) non siate timidi ed esprimete tutto ciò che pensate!

Eeeh... vi mancheranno i nostri Hero?

-Lilla

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