42. Cuore pattumiera
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(Scene di sesso esplicito, linguaggio scurrile!)
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«A cosa pensi, Cicì?»
Aizawa lo guardava dal letto. Lo aveva costretto a stare a riposo, preoccupato più dal suo sguardo spento che dalle ferite. Non era sorpreso di trovare quei segni sul corpo di Shota, lui era sempre stato un combattente e non c'era mai stata neppure una sera in cui, svestendolo non aveva trovato sul suo corpo, lievi ematomi, ferite aperte, cicatrici rimarginate da poco.
Lucien era abituato ai segni.
Per lui erano cosa da niente, tutti ne avevano se avevano vissuto un po', lui stesso ne era cosparso.
Solo Dominic sembrava immune a quella debolezza, ma le sue ferite interne grondavano così tanto sangue che ogni volta che muoveva un passo, continuava a perdere la sua anima contro il pavimento.
Gettò un'occhiata al corvino, le sopracciglia corrucciate e un'espressione preoccupata che non riusciva a scrollarsi di dosso.
«Nulla. Non penso a niente.» asserì, asciutto. Non lo guardò negli occhi, non poteva e non voleva. Bruciava già abbastanza per non dover anche imporsi la condanna delle iridi infernali di Aizawa.
Neppure il tempo di finire di parlare che Shota lo aveva già affiancato, prendendogli il viso tra le dita, le sue dita ruvide per via del lavoro da hero, per tutti gli attacchi che aveva subito. Lo obbligò a guardarlo, a scrutare nelle sue iridi profonde come pozze di petrolio.
«Non ti credo.»
«Fai quello che vuoi.» protestò, cercando di svincolarsi da quella presa.
Aizawa sbuffò. Un sospiro rammaricato di chi la sapeva più lunga.
«Lucien.» lo chiamò ancora, gli occhi speranzosi nonostante tutto.
«Non guardarmi come se potessi morire da un momento all'altro, Shota. Sai bene che non lo permetterò.»
L'alpha di tutta risposta sbuffò un risolino. Si aspettava quella reazione visto il carattere del suo omega, ma non lo fece intenerire di meno.
«Lucien, so bene che non lo permetterai, perché non solo sei così simile a Dominic da farmi paura, ma hai anche portato avanti tutta la tua famiglia da solo, e lo so, so così bene che io sono parte di essa ormai.»
«E con questo?»
Gli gettò un'occhiataccia, scettico. Le sue iridi color menta si schiusero lasciando un po' di accesso alle pupille nere.
«Con questo» ricalcò l'alpha, «capisco che vedermi morire non è mai stata un'opzione.»
«Vedo che lo hai capito.»
Aizawa lo ignorò e proseguì.
«Però, io devo dire queste parole. E tu devi sentirle.»
«Shota, no-»
L'alpha gli pose un dito sulle labbra, incastrandogli gli occhi addosso. Intrappolando nel castello che c'era tra le loro iridi.
«Io potrei morire, Lucien. Potrei morire ora, domani, tra sei ore o sei secondi. È la realtà e tu, sei sempre stato realista. Ascoltami, no, non fare così. Non piangere.» gli riservò una calda carezza sulla guancia, cullando con le sue dita. «Millie ha bisogno di te. Il nostro bambino ha bisogno di te. Io potrei morire ma tu devi vivere, capisci? Non puoi lasciarli soli, non puoi lasciare tuo fratello.»
Per un po' non si udì più nulla.
Aizawa smise di parlare e il solo rumore così coraggioso da rompere il silenzio della stanza, furono i singhiozzi di Lucien. Poi, dopo quelle che parvero ore, l'omega sollevò il viso.
«I-io… non ti voglio perdere, Sho.» ammise.
Si rifugiò col viso nella sua spalla, respirando forte il suo odore boschivo, strizzandosi i singulti contro la sua pelle. Lo graffiò un poco sulle scapole, incurante dei punti sottostanti, esalando quel dolore che pareva rompergli lo sterno.
«Non mi perderai, Cicì. Sarò sempre con te, lo sai.»
🥀
«Che pensi di fare, Denks?»
Kirishima assottigliò lo sguardo, corrucciando le rosse sopracciglia. Lo osservava dalla soglia della porta, in silenzio e con le braccia poggiate contro la stampella.
«Vado a combattere» sancì l'omega, tutto intento ad allacciarsi il giubbotto antiproiettile sotto le braccia.
«E cosa pensi di fare esattamente senza armi, né preparazione, né-»
«Diamine, Eijirou!»
Si girò di scatto, i ciuffi biondi che cadevano a sfiorargli la fronte come steli gialli di fiori.
«Non capisci, non permetterò che ti accada qualcosa, io forse non posso nulla, ma non me ne starò con le mani in mano ad aspettare che tu m-»
Si interruppe strozzando un gemito nella gola, gli occhi che gli si facevano lucidi come due lenti annebbiate.
Abbassò la testa, le spalle incurvate sotto il peso di quella sofferenza.
«Denks…»
«No, n-no… non…»
«È tutto ok.»
In un secondo, l'omega biondo si ritrovò stretto al petto di Kirishima, le braccia che lo avvolgevano come due nastri coordinati dai muscoli.
«Sono qui, Denki. Sono ancora qui, tesoro.»
Un singhiozzo, le braccia di Denki che si avvolgevano a lui e lo stringevano forte a sé, quasi ad impedirsi di respirare.
«Non andare, non andare, Kiri.»
«Respira, tesoro. Sono qui.»
🥀
«Domi.»
La voce di lui si diffuse lungo tutta la stanza, il suo passo invase i suoi pensieri come una macchina che entrava nel suo raggio visivo.
«Domi, dobbiamo parlare.»
Gli aveva preso il braccio, Dominic lo avvertiva stringere appena, quasi terrorizzato all'idea di fargli male. Un tempo non sarebbe stato così delicato, un tempo il suo tocco era fuoco, fuoco puro.
Un tempo Dominic aveva amato la sua rozzessa, la sua capacità di andare dritto al punto; ora, la odiava.
Odiava la sua voce, odiava il suo tono, odiava il suo tocco.
Ma non riusciva comunque a dirgli di no.
«Cosa vuoi?»
Si era voltato nell'esatto istante in cui Katsuki aveva spostato la mano, quasi intimorito dalla sua reazione, come mai lo era stato. Tutto sembrava essere una prima volta ora, come se loro non fossero stati altro che completi estranei, sia per loro che per gli altri.
Come se non si fossero mai scambiati il respiro e morso le labbra fino a renderle purpuree.
«Mi… mi dispiace per quanto è successo.»
Quanta fatica gli erano costate quelle parole? Dominic conosceva Katsuki Bakugo da tre anni ormai, e sapeva bene che lui non era uno che ammetteva di avere avuto torto, ma ora era lì, con la testa chinata, gli occhi stanchi ma luminosi, come se nonostante tutto, qualcosa lo rendesse immune alla sofferenza che recepiva. Come se con la maledizione Fukushūki, non solo lo avesse salvato da un destino che non voleva, ma che lo avesse anche aiutato.
Aiutato a scegliere.
Come lui non era mai stato in grado di fare.
Non riuscì comunque a mandare giù quella sua ammissione, come se quella non fosse altro che una recita orchestrata alla perfezione.
Deglutì, guardò altrove per qualche secondo.
Poi, ritrovò la forza per guardarlo in viso, ma non disse nulla. Si volse ancora, verso l'incubatrice di plastica del suo bambino, fece cenno a Katsuki di avvicinarsi; era pur sempre figlio suo, voleva che lo guardasse, che sprecasse ore e ore della sua vita ad osservare il monitor cardiaco battere lento e regolare, come faceva lui.
Voleva che stesse lì, notte e giorno e pregasse Dio, gli angeli, i demoni, chiunque purché suo figlio, loro figlio, aprisse almeno gli occhi.
Perché lui aveva lottato per darlo al mondo, per darlo a Katsuki, ma il biondo non sembrava neppure interessato.
Era solo e sempre impegnato a lodare il cucciolo di Izuku e Izuku stesso.
Non c'erano e mai ci sarebbero stati complimenti per Dominic e suo figlio.
«Ti dispiace?» ripeté, il tono infastidito. «E per che cosa?»
Per un attimo Katsuki non parlò. Guardò in silenzio la vaschetta dove il bambino giaceva a pancia in sù. Dominic guardò lui, con i suoi occhi grandi come ampolle di vetro. Lucidi, perché era stanco, perché non dormiva e non mangiava più da quando era nato il suo bambino e la sua bellezza stava scivolando via come l'autunno quando arriva l'inverno.
Solo che lui non solo stava appassendo come un fiore marcio, ma continuava ad affondare, ancora e ancora, fino a sprofondare nel terreno, fino a sprofondare nel petrolio.
«Ti dispiace per me? Ti dispiace per tuo figlio? Per entrambi? Ti dispiace per il tuo piano del cazzo che come avevo detto, si è rivelato un fallimento? O ti dispiace per avermi tradito ripetutamente? Dall'inizio fra l'altro!» si girò, gridandogli addosso quelle accuse che più che un monito, parevano essere un incito d'odio.
Odio che Katsuki meritava, e lo sapevano sia lui che Dominic.
«Dominic…»
«Dominic un cazzo! Pensi che io abbia dormito sereno mentre ti scopavi Izuku? Pensi che io sia stato felice di essere guardato da tutti come un… un… sottone! Uno che ti sta attaccato al culo e si fa calpestare la dignità da te? Per cosa poi? Lo sai bene che gli alpha che mi vogliono non mi mancano Katsuki, non mi sono mai mancati, ma sembri scordare che io, ho scelto te. Io scelgo sempre te.» sibilò.
Non si guardavano così negli occhi da un po'. Dominic che lo scrutava con i suoi occhi da gatto, grandi e sferici come un taglio di seta pregiato, con il dolore nelle iridi verdi come la speranza, le labbra corrucciate. Perché stava male, perché era dimagrito come mai, - neppure quando si infilava le dita in gola e rimetteva ciò che aveva mangiato e ingerito dopo le cene aziendali - mai lo era stato.
«Domi…»
Aveva abbassato lo sguardo. La testa chinata come chi sa di meritare quella punizione e quelle urla, le braccia stese lungo i fianchi, immobili, a penzoloni.
«Cosa c'è?»
Ancora gli occhi verdi dell'omega che lo guardavano con quella rabbia evidente, con quel luccichio di dolore che si riversava in lui ogni volta che si arrischiava ad incrociarne lo sguardo.
Poi, Katsuki gli scivolò tra le braccia.
Piccolo e indifeso come non lo era da un po'. Dominic lo percepì stringersi a lui, al suo petto, come faceva mesi prima, quando dopo che avevano finito di fare l'amore, l'alpha crollava esausto su di lui, addormentandosi contando i suoi battiti.
Quando si scaldavano l'anima a vicenda.
Per qualche secondo Dominic non seppe cosa dire. La reazione gli venne automatica, come d'altronde, ogni volta che si trovava vicino a Katsuki.
Lo strinse a sé, ricambiando quell'abbraccio sconnesso, una mano all'altezza della nuca, poco sotto l'attaccatura dei suoi capelli biondi e l'altra sulla schiena, carezzandolo piano.
Come faceva quando era agitato.
«M-mi dispiace tanto, Domi…»
Il singhiozzo che gli frammentò l'anima.
«M-mi dispiace tanto, per tutto…»
Lo strinse più forte, con i palmi che scottavano per quella vicinanza.
«Non ti dispiace abbastanza.» sussurrò. Anche la sua voce era tremula, come quella di chi non parla perché ha troppe emozioni dentro e ha troppa paura di riversarle fuori tutte insieme.
«Il bambino, t-tu… Fukushūki… tutto… mi dispiace per tutto, Dominic.»
Più di qualunque altra cosa, fu il fatto che lo chiamasse per nome a distruggerlo. Perché quando qualcuno lo faceva, voleva dire solo una cosa; perdita. Come sempre l'aveva affrontata, come sempre avrebbe fatto male.
«Un tempo mi chiamavi il tuo Domi.» rivelò, la voce sempre più spezzata.
Fu il turno di Katsuki di stringerlo più forte, con le dita che lo tiravano a sé come se ne avesse bisogno per respirare. Soffocò un altro singhiozzo addosso a lui, strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Lo sei ancora.» ammise, a mezza voce.
Dominic dovette mordersi un labbro con rabbia, perché sentirlo dire quelle cose gli strappava il cuore più di sentirgli dire che non lo amava più.
«No, non lo sono più da tempo.»
«Dominic…»
Non disse altro, solo il suo nome. All'omega fu però sufficiente per riprendere possesso di sé e della sua ragione. Fece leva sulle sue mani, allontanandolo lentamente, come se spingendolo tutto insieme avesse potuto strapparsi anche la sua anima oltre che la pelle.
Tirò su col naso e ignorò lo sguardo ferito di Bakugo.
«Come lo vuoi chiamare tuo figlio?» gli chiese, atono.
Non era questo quello che aveva immaginato quando aveva scoperto di essere incinto. Pensava che il nome lo avrebbero scelto insieme, che sarebbero stati felici, che avrebbero sorriso mentre si dicevano i nomignoli più assurdi e irreali, per poi finire a baciarsi e bisticciare perché non sarebbero mai stati d'accordo finché non avrebbero trovato un bel nome. Uno bello davvero.
«Non sappiamo se sopravviverà…»
Dominic distolse lo sguardo. Anche il medico gli aveva detto lo stesso, perfino suo padre gli aveva raccomandato di non affezionarsi al bambino, che rischiava e che ci sarebbe stato male se non ce l'avesse fatta, e lui che da sempre era una persona realista, si era ritrovato a credere in qualcosa di irreale, di illogico.
Come che suo figlio potesse magicamente sopravvivere.
Non si trattava di scienza, si era detto mentre piangeva ogni liquido corporeo che aveva, ma di fede. E sarebbe diventato il più credente dell'universo, se necessario.
«Non ti ho chiesto una teoria, Katsuki, per quello ci sono già gli altri.» lo zittì, secco e lapidario come sempre.
L'alpha cacciò un sospiro, un sospiro stanco. Ce lo aveva così vicino che Dominic gli sentiva ancora addosso l'odore di Izuku, dei suoi feromoni. Gli venne istintivo storcere il naso, le lacrime che premevano per scendere alle quali strozzò la vita, impedendoglielo.
Si volse, guardando ancora una volta la cupola di plastica che lo separava da suo figlio.
«Avevi…» si schiarì la voce, Katsuki, guardando le sue spalle. «Avevi già in mente qualcosa?»
Dominic pose una mano sulla scatola di plastica. Il monitor suonava, acuto e lento, scandendo la vita del suo bambino.
Ogni finestra era chiusa, era giorno, ma non entrava neppure un filo di luce.
«L'ho ascoltato battere per un mese. Il tempo in cui tu, vagavi per la casa, disperato per Izuku e ignoravi me e lui. Mi sono seduto su questa sedia e ho guardato l'incubatrice fino a diventare cieco, fino a svenire dalla stanchezza. Non ho mangiato, non ho bevuto, non sono andato in bagno per tre giorni di seguito. Ad un certo punto, ricordo di essere caduto, di aver chiuso gli occhi mentre piangevo.»
«Dominic…» lo pregò, ma l'omega non lo stette a sentire, continuò imperterrito.
«Quando mi sono risvegliato, ero ancora sul pavimento, ma sai chi c'era accanto a me? Chi mi ha trovato per terra, con uno zigomo ferito e denutrito? Lo sai o no, Katsuki?» scandì, girandosi a guardarlo.
Katsuki scosse la testa, rassegnato.
«No, non lo so» ammise, e si sentì una merda.
L'omega sorrise al nulla, un sorriso vacuo, con una lacrima come unica compagna, che scorreva lungo la sua guancia come un ruscello di dolore.
«Uriel. C'era Uriel. Ed io… io… avevo bisogno di te. Di te, Katsuki. Non di Uriel.» gli disse, la voce frammentata dal dolore che quelle parole gli costavano. «Ma lui è stato gentile con me. Non importa quante volte io lo abbia trattato male, lui mi ha portato da mangiare e bere ogni giorno, mi ha coperto quando mi trovava addormentato accanto a mio figlio, mi ha abbracciato quando stavo per crollare dal dolore. Perché dopo una settimana passata ad aspettare e sperare, il cuore ti diventa una pattumiera. Mi ha abbracciato così stretto che per un attimo ho desiderato che mi tenesse così per sempre, perché mi sentivo apposto, incollato con tutti i miei pezzi.»
«E-e… poi?» gli domandò Bakugo, gli occhi sbarrati, incredulo e pallido.
«Poi mi ha lasciato e la realtà è tornata.»
Dominic tirò ancora su col naso, pulendosi la guancia umida col dorso della mano libera. Sollevò il viso e incollò lo sguardo in quello dell'alpha.
«Chiamerò mio figlio, nostro figlio, Raiden.»
«Perché?»
«Perché Raiden significa tuono, significa fulmine, come il dio. E mio figlio lotterà sempre contro la pioggia, contro le tempeste e ne farà parte. Ecco perché.»
«Capisco. È molto bello.»
Dominic annuì.
Non riusciva a controllare il flusso delle sue lacrime e questo lo innervosiva, perché lui era sempre stato bravo ad essere imperscrutabile e ora non ci riusciva più. Forse, erano solo gli ormoni, ma qualcosa dentro di lui, lo uccideva.
Un mostro che gli rosicchiava l'anima. Pezzo per pezzo.
Poggiò un palmo su quella cupola, la stessa che lo allontanava dal suo bambino, sangue suo. Rivolse un po' del suo sguardo a Katsuki e non tremò mentre affermava il resto.
«E prega che sopravviva, perché è mio figlio, e non morirà. Te lo assicuro.» ammise.
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«Lucien?»
Millie gli stava scuotendo la gamba, percepiva il suo sguardo addosso, i suoi occhioni stanchi che lo osservano da sotto le lunghe ciglia nere.
«Sì?» rispose, riscuotendosi dal torpore che lo aveva assalito in precedenza.
«Puoi aiutarmi?» chiese il bambino, indicandogli il cavalluccio e la sella di plastica che gli avevano regalato.
Lucien annuì, poi, prese meccanicamente il cavalluccio giocattolo e si accinse a vestirlo di quella sella.
All'altro capo della stanza Aizawa se ne stava sulla poltrona, le ferite scoperte sul torace che sembravano prendere fuoco ogni volta che Lucien lo sfiorava.
Il corvino non aveva voluto che lui assorbisse il suo dolore, lo aveva mandato da suo figlio, spiegandogli che doveva provvedere a lui. Lucien non era riuscito ad opporsi; non sapeva dirgli di no, specie se lo guardava con quegli occhi, quelli feriti, quelli doloranti.
Non era mai riuscito a vederlo dolorante, proprio per questo era intervenuto.
«Ahia…» lo sentì mugolare ed istintivamente sollevò lo sguardo su di lui.
Non si stupì di trovarlo intento a scrutare le ferite, a sfiorarle con i polpastrelli freddi. La maledizione - come entrambi sapevano bene - aveva il potere di bruciare il sangue, lenta e inesorabile come veleno, assorbiva l'ossigeno e lasciava nelle vene solo anidride carbonica. Fino a che, quella non sarebbe arrivata al cuore e lo avrebbe annientato.
Deglutì, scacciando via que pensiero.
«Millie, tesoro.» gli prese le mani, girandosi a guardarlo. Il bambino, il suo bambino, era sempre stato un tipo calmo, ubbidiente. Anche adesso lo guardava ancora con i suoi occhi attenti, il viso contratto. Gli venne spontaneo posargli una carezza sulla guancia, una dolce premura. «Vai a giocare un po' con Carlotta e Nathan, ti va? Io e Shota dobbiamo parlare.»
Millie esitò.
Sollevò il volto, incontrando lo sguardo sorpreso di Aizawa. L'omega ignorò la loro intesa e sorrise al bambino, cercando di rassicurarlo.
«Aizawa morirà?» chiese Millie, le sopracciglia aggrottate per mascherare il suo nervosismo.
Lucien restò immobile.
Qualche secondo di troppo in cui il suo cervello si disconnesse e restò a guardare il suo bambino, cercando un modo, uno qualsiasi per spiegargli che no, non sarebbe accaduto mai, che non lo avrebbe lasciato solo, che Aizawa sarebbe stato-
«Starò bene, Millie. Vieni qui.»
Era stato Shota a parlare e ad interrompere quel marasma di pensieri che gli frullavano in testa come un cedrato.
«Millie…»
Il bambino non lo ascoltò. Si staccò con calma, raggiungendo l'alpha più grande, con le sue gambette magre.
«Io non morirò. Starò bene, ma tu…» un piccolo sospiro, Aizawa gli prese le mani incitandolo a guardarlo per bene. «Tu devi promettermi una cosa, Millie.»
Il bambino lo guardò con i suoi occhi verdi, simili a quelli di Lucien, grandi e tondi come una luna in cielo.
«Cosa?» chiese.
Aizawa si prese qualche secondo. Guardò da prima Lucien, gli abbozzò un sorrisetto, uno di quelli che gli faceva quando gli diceva che lo amava da morire, poi tornò a studiare la fisionomia dello sguardo di Millie.
Si fece serio.
«Sei un alpha. Un forte alpha, e gli alpha non fanno mai del male agli omega, capito? Se mi succedesse qualcosa, tu devi promettermi che ti prenderai cura della tua mam- di Lucien» si corresse, mordendosi la lingua.
Millie sbarrò gli occhi, tutto intento ad ascoltare.
«Lo farai, cucciolo?»
«Shota…» provò ad intervenire Lucien, cercò di dirgli che non c'era bisogno di dire quelle cose, che non voleva sentirle né ipotizzarle, ma non fece in tempo a dire nulla.
Aprì la bocca ma Millie lo precedette.
«Sì, lo farò. Te lo prometto, Shota.»
Aizawa distolse lo sguardo per qualche secondo. Lucien avrebbe potuto giurare di averlo visto trattenere una lacrima. Non poté averne la certezza però, perché quando l'alpha sollevò di nuovo il volto, su di esso non c'era traccia di acqua.
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«Ho una sorpresa per te.»
Lucien lo aveva raggiunto in salotto qualche ora prima, non aveva detto nulla per un po'. Se n'era stato in silenzio, la testa bassa e il naso gocciolante, Izuku non era riuscito a dirgli nulla per sollevarlo di morale. Gli si era avvicinato e aveva poggiato una mano sulla sua, abbracciandolo a sé.
Ad un certo punto però, Lucien si era alzato e quando era tornato, i suoi occhi erano ancora rossi, ma sulle sue labbra figurava un sorriso.
Izuku non sapeva come avesse fatto a sorridere in quel modo, ma ricambiò molto più debolmente.
«Che sorpresa?» chiese, sorpreso.
Il sorriso di Lucien si fece liquido.
«Chiudi gli occhi.»
Izuku aggrottò la fronte, ma lo fece ugualmente.
A pochi metri da lui, Katsuki li guardava senza intervenire, beandosi solo della presenza del suo Izuku.
«Ora puoi aprirli.»
E lo fece. Non appena le sue pupille misero a fuoco ciò che Lucien gli stava porgendo, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Il suo piccolo Shura, imbottito tra le coperte calde e i vestitini bianchi.
Suo fratello glielo stava porgendo come a volergli dare un'appiglio per non cadere nel buio.
Dovette calmare un poco il suo tremolio prima di riuscire a prendere tra le braccia il suo bambino.
Il suo piccolo, meraviglioso, Shura.
«Sta molto meglio» gli spiegò Lucien, sedendosi accanto a loro. «Ora sorride sempre.»
Izuku si chinò leggermente in avanti, baciandogli la fronte. Un tocco delicato come se avesse paura di romperlo.
Nel sollevare lo sguardo, sorridendo, si accorse degli occhi di Bakugo su di sé.
Il suo viso enigmatico, ammorbidito nel vedere lui. Lo stava fissando e nel rendersene conto, Izuku avvampò.
«V-vuoi… tenerlo?»
Katsuki sbarrò gli occhi, sorpreso da quella proposta. Anche Lucien resto in silenzio, spostando i suoi occhi da lui a Izuku, aspettando la reazione di lui.
«Posso?» mormorò, avvicinandosi esitante.
Izuku annuì. Gli regalò un sorriso, con le labbra addolcite in quella curva.
Gli allungò il corpicino del bambino, le braccia protese in avanti. Dal canto suo, Katsuki restò impalato, facendosi deporre il piccolo tra le braccia, senza emettere un fiato.
«Cosa devo fare? Lo sto tenendo bene?» chiese Katsuki, agitandosi sul posto. Le mani tenevano al petto il piccolo Shura, che si accoccolò contro il suo torace, succhiandosi il pollice.
Izuku gli passò il palmo sulle dita, rassicurandolo.
«Lo stai facendo bene, Kacchan.»
Gli sorrise e Bakugo ricambiò, abbozzando quella curva felice come meglio riuscì.
«A Shura piaci» ammise l'omega, guardandolo con amore. Qualcosa di così luminoso negli occhi che pareva un faro.
Katsuki ricambiò l'occhiata, studiandolo furbamente.
«Solo a Shura?» chiese, arrovellando le guance di Izuku, già rosse di per sé.
«Scemo!»
Gli tirò una lieve pacca sulla spalla, facendolo ridacchiare. In momenti come quelli, Izuku dimenticava quello che stavano passando. Dimenticava che stavano soffrendo, che a Katsuki restavano poche ore e che ancora una volta, Fukushūki voleva strappargli tutto.
Dimenticava che non erano una famiglia.
A dimenticarlo però, non era Dominic.
Dominic che lo guardava, li guardava, dalla soglia della porta, in silenzio. Spettatore di quella felicità che sarebbe dovuta appartenere a lui.
Avrebbe voluto dire qualcosa Izuku, alzarsi dal divano e raggiungerlo, fermarlo dalla mano e pregarlo di non giudicarlo, di non odiarlo, perché voleva solo vedere star bene Katsuki. Nient'altro.
Ma sapeva che sarebbe stato un bugiardo, che non solo avrebbe mentito a sé, ma anche a Dominic.
E non voleva più mentire. Mai più.
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«Domi, Dominic… aspetta»
La mano di Uriel riuscì ad acciuffarlo giusto un secondo prima che chiudesse la porta della sua stanza. Scivolò dentro assieme a lui e fece appena in tempo a chiudersela alle spalle.
Un secondo prima che Dominic gli saltasse addosso, brandendogli le labbra e arrotolandole alle sue.
Gli strappò il respiro e la ragione sentirlo contro di sé, sapere che lo voleva, così come lui voleva Dominic. Per un attimo si lasciò baciare, strappare anima e pensieri con quel tocco che sapeva di ambrosia.
Le mani che correvano a carpirgli i fianchi scoperti dalla maglietta, le dita che avvolgevano la carne. Quante notti lo aveva desiderato? Averlo contro di sé non gli pareva vero.
Quando faceva il militare, i suoi interi pensieri erano dedicati notte e giorno a Dominic, al Caporale Dominic Fernandez, alla sua bellezza giovane, ai suoi tratti maturi, alla sua bocca rossa. Notte e giorno.
Quanto lo aveva pensato? Così tanto che ora, il tocco delle labbra sue gli sembrava fuoco, lava pura contro la carne. Tanto che per spegnere quell'incendio lasciò scivolare la sua lingua nella bocca di Dominic ma ci trovò solo fuoco. Solo fuoco.
Bruciava come una cometa.
Lo sentì ricambiare disordinatamente, seguendolo perfettamente nei movimenti, cedendogli il comando come se non aspettasse altro. Uriel lo spinse all'indietro, facendolo finire contro la parete.
Le mani di Dominic scivolarono sulla sua cintura, una sul suo fianco a lambirgli la pelle morbida. Con le unghie a graffiare, lussurioso.
Nel sentire il ticchettio dato dalla cintura contro la fibbia in metallo, il suo cervello parve dissiparsi delle nuvole che si erano create.
Stavano andando troppo veloce.
Quel pensiero lo colpì come un dardo, facendolo tornare lucido in pochi secondi. A malincuore spinse leggermente lontano Dominic, i respiri ansimanti e le labbra di entrambi rosse come petali di tulipani.
«Dominic, non… non dovremo… non così.» biascicò, ripescando le parole da infondo alla gola.
Nel guardare il volto arrossato di Dominic, le sue facoltà mentali avevano deciso di andare in vacanza o addirittura in pensione e lo avevano lasciato solo a gestire quella situazione. Perché, non solo Dominic pareva un angelo sceso dal Paradiso, ma lo sapeva anche. Lo sapeva perché sennò, non gli avrebbe sorriso in quel modo suadente, sennò non si sarebbe leccato via la saliva in eccesso dalle labbra, guardandolo fisso negli occhi, sfidandolo a inchiodarlo contro quel legno e farlo suo.
Come desiderava da anni.
«E che mi dici del tuo cazzo? Lui sembra aver bisogno di me.» soffiò l'omega, accostandosi a lui, a pochi centimetri dalle labbra.
Gli occhi di Uriel, scivolarono nuovamente sulla bocca di lui, proprio come voleva Dominic. Poi, la mano dell'omega scese più in basso, lenta, sicura. Glielo strinse attraverso i pantaloni e a Uriel sfuggì un gemito. Un carico di piacere che difficilmente aveva provato, così presto.
Dovette chiudere gli occhi, la testa poggiata contro la spalla di Dominic, respirando affannosamente mentre il sangue gli si rimescolava nelle vene.
La maledizione su di lui, non aveva avuto effetto. Non sapeva se fosse perché era un beta o perché Fukushūki non lo aveva neppure preso in considerazione, ma in quel momento non poté non pensare di essere stato fortunato.
Strizzò gli occhi e strozzò un altro gemito. Un gemito così forte da farlo vacillare sui suoi stessi piedi, il piacere che lo investiva come un'onda catastrofica.
Poi, la voce di Dominic scivolò nel suo orecchio come seta, liscia e perfetta come lo era lui. Come lo era la sua carne.
«Ti ho solo toccato e sei già venuto, Uriel?»
L'inferno.
L'inferno che gli esplodeva fra i sensi, così potente, così catastrofico da non rendersi neppure conto del modo in cui Dominic si era chinato sul suo collo, leccandolo.
Con quella lingua calda come il sole di Agosto.
E ancora più giù, sulla sua clavicola, sul tatuaggio del motto del servizio militare, quello che si era fatto incidere con la bic sul torace. La stoffa della maglietta accartocciata nella mano liscia di lui. In ginocchio, davanti a lui, con gli occhi verdi sul suo volto, piantati lì, tra le sue iridi, come due stoccafissi.
Con le gote rosse, le labbra schiuse e umide della loro saliva, le lunghe ciglia che gli ombreggiavano la pelle candidissima.
E capì perché Dominic avesse ai suoi piedi chiunque desiderasse.
Perché vederlo in ginocchio pareva una visione celestiale. Se le porte del paradiso fossero state quelle, sarebbe morto all'istante.
«Vuoi che lo prenda in bocca?» gli disse mentre prendeva contraddittoriamente a sbottonargli i pantaloni, a gesti decisi, con i suoi denti.
L'eccitazione crebbe così tanto che sentì nuovamente il membro tendersi, gonfiarsi di sangue e desiderio solo nel vedere Dominic così. Sotto di lui.
«Allora?»
Gli aveva tirato giù i boxer, scoprendo del tutto il suo fallo, sfiorandoglielo con i polpastrelli prima di prenderglielo in mano. Mozzandogli del tutto il respiro.
Si ritrovò ad ansimare ancora prima di rendersene conto. Dominic sorrise, con quelle labbra carnose, impregnate di saliva che pareva gloss su di lui.
I capelli spettinati, gli occhi umidi, le guance rosse più del cielo al tramonto.
Si avvicinò sempre di più, fino a sfiorare con le labbra, ancora unite l'una all'altra, la sua cappella grondante.
Uriel gemette, portando istintivamente le mani nei suoi capelli, strattonando quelle ciocche castane, per averlo più vicino. Per averlo attorno a sé.
Ma non avrebbe demorso e Uriel lo sapeva, per questo, deglutì, cercando di scacciare via la saliva che gli andava sempre di più crescendo in bocca e mordendosi le labbra, guardò in basso.
Dritto negli occhi di Dominic.
Lo percepì contro la sua stessa pelle quel sorrisetto soddisfatto, ma non ebbe modo di pensarci a lungo, poiché Dominic aveva appena schiuso le labbra e lo aveva avvolto con la sua bocca bollente.
Avvolto dalla sua carne.
Dovette tirargli i capelli con più forza perché percepì l'ansimo di lui risuonare ancora più forte lungo la stanza. Si sarebbe anche potuto controllare se non fosse stato per i suoi occhi.
Quei maledetti occhi verdi, vitrei come due pozioni magiche.
Lo afferrò con forza, incastrando gli occhi ai suoi e muovendo i fianchi con ferocia. Affondò nella sua gola, spingendogli la testa sino a fargli sfiorare i peli pubici all'altezza del ventre con la punta del naso. E un gemito così forte si riversò dalle sue labbra, facendo tremare l'omega ai suoi piedi.
I suoi occhi, ora bagnati dalle goccioline di lacrime.
E non bastava. Non bastava mai se si trattava di Dominic. Non quando così bello, così suo, così prodigo, gli succhiava il cazzo. Deglutì ancora una volta e si lasciò sfuggire qualche imprecazione.
«Posso… posso»
Scoparti la bocca, mio dolce Dominic?
Di tutta risposta l'omega lo prese più affondo, reprimendo un conato. Giù nella sua gola, con le labbra così turgide da fargli desiderare di rompergliele. Renderlo suo e basta, con i segni e le urla che ne sarebbero conseguite.
Così, si lasciò andare nella sua bocca. Si mosse più velocemente, badando poco alle formalità, trattandolo rudemente, sfogando tra quella bocca tutto ciò che avrebbe voluto dire, dirgli.
Ruotò i fianchi, spingendo giù, avanti e indietro, osservando per bene gli occhi di Dominic tingersi, farsi più scuri ad ogni nuova stoccata. Si beò dei suoni umidi che uscivano da quell'amplesso, attento a non dimenticarne neppure uno.
Poi, si fece più voglioso.
Mentre l'orgasmo gli saliva nelle vene, accelerò ancora, più forte, più duro. Gli occhi verdi di Dominic persi e piangenti, qualche ansimo che gli strappava tra una lappata e l'altra.
Si curvò in avanti, chiuse gli occhi, sentendo un principio di lussuria inondargli il basso ventre. Pronto a lasciarsi andare nella sua bocca.
Dominic lo accontentò.
La sua testa prese a muoversi ancora più velocemente, recependo il suo ritmo e andando sempre più giù. Affondo, fino alla sua gola.
«Dominic…» gemette.
Si curvò su di lui, graffiandogli la nuca, un roco latrato che gli sfuggì dalle labbra e si riversò fuori assieme al suo sperma.
Nella bocca di Dominic.
Lui lo accolse senza esitazione, sfilandolo piano da dentro di lui, tossì leggermente, sputando un rivolo di saliva che lo collegava al membro dell'altro.
Nel guardare in basso, ancora ansimante e riprendendo fiato da quell'amplesso, il viso di Dominic gli parve ancora una volta più bello di quanto lo avesse mai visto.
Con le due gocce di sperma che gli sporcavano l'angolo delle labbra, ormai purpuree per il trattamento rozzo che gli aveva riservato, le ciglia chinate in avanti quasi vergognose, al contrario dei suoi occhi, fissi su di lui.
Era certo che lo avesse guardato venire, osservando ogni sua smorfia, ascoltando ogni suo gemito.
Avvampò, mentre Dominic fece una cosa che avrebbe potuto fargli cadere la mascella sul pavimento, con un tonfo sordo, se solo non l'avesse avuta attaccata alle altre ossa.
Lo guardò attentamente negli occhi, sorrise mentre si portava l'indice alla bocca e si puliva dalle gocce bianche, per poi infilarsi il dito in bocca, succhiarlo per bene e deglutire, poco per volta, tutto il suo seme.
Il suo cuore prese a battere più forte, irruente e deciso, osservando la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi come se fosse stato uno spettacolo.
«Piaciuto?» mormorò Dominic, la voce bassa.
Uriel non gli permise di aggiungere altro. Lo tirò a sé, aiutandolo a rimettersi in piedi, sorreggendolo dai fianchi nel trovarlo ancora tremante per la posizione mantenuta per troppo tempo. Lo trascinò contro il suo petto, poi gli prese le labbra tra le sue, sfogando su di essere tutto.
Anche quello che non avrebbe mai dovuto provare, specialmente per Dominic.
Gli mordicchiò un po' il labbro inferiore, beandosi del suo sapore, del residuo di seme che aveva ancora sulla lingua quando si scontrò alla sua. Lo strinse a sé dai fianchi, toccandogli la pelle, tirando giù l'elastico dei suoi pantaloni.
Dominic non lo fermò, anzi, si distacco di pochissimo e finì di tirare del tutto giù i suoi pantaloni. Non indossava i boxer e nel costantarlo, Uriel divenne rosso come sangue.
«Dom, sei sicuro?» si ritrovò a mugolare, scendendo a lambirgli il collo con le labbra.
Il suo sapore dolce, quel mix di ciliegie e cannella che pareva uno sciroppo sulla sua pelle nivea. Lo leccò, deliziandosene. Strappò un gemito duraturo a Dominic, che gli graffiò le scapole.
«Ti sembro… uno che fa le cose… e non… non è sicuro?»
Gli sfuggì una risata, la soffocò contro la spalla di lui, facendo vibrare anche il suo corpo con quel suono. Dominic lo prese dai capelli, tirandolo a sé.
«Sbrigati, Uriel. Ti voglio.»
A quelle parole, la mente di Uriel fece le valigie e lo lasciò da solo. Ti voglio, gli aveva detto, quante volte aveva desiderato, immaginato, sperato, di sentire quelle parole? Non se lo fece ripetere.
Gli tirò via la maglietta con un gesto rapido, le mani che tremavano e gli sensi febbricitanti. L'orgasmo appena avuto sembrava solo un ricordo lontano, il suo membro tirava di nuovo, come se non si fosse svuotato neppure un po'. Eppure, restava umido della saliva di Dominic, restava il ricordo della sua bocca contro la sua pelle, fino al suo pube. Il solo pensarci lo infiammava come una micia che stava per prendere fuoco.
Dominic stava giocando con lui? Non gli importava, poteva anche correre il rischio di bruciarsi se si trattava di lui.
L'omega gli sorrise, una curva calda come la sua stessa pelle. Gli succhiò un capezzolo con vigore, sentendolo dimenarsi tra le sue dita e gemere, un piccolo ansimo che ebbe il potere di farlo tremare sempre di più.
Si prese qualche istante per guardarlo, interamente nudo, color cipria, ansimante e voglioso, con le iridi lucide di desiderio e un labbro stretto tra gli incisivi.
Bello come il sole al mattino.
«Dominic, sei-»
Non riuscì a concludere la sua frase. L'omega lo tirò a sé, attanagliandogli ancora una volta le labbra, spezzandogli il respiro e facendogli scivolare il cuore fino in pancia.
Poi, si separò da lui, lasciandolo ancora più ansimante, ancora più accaldato. Si girò, dandogli la visuale perfetta della sua schiena, del suo meraviglioso sedere morbido. Grande, tondo.
Ne prese una manciata tra le mani, senza aspettare un suo cenno, lo strizzò tra le dita, strappandogli un gemito.
«Uriel…» lo sentì mugolare, gli occhi socchiusi, la testa gettata all'indietro sulla sua spalla.
La curva della sua gola candida, scoperta. Lo vide deglutire, facendo affondare il pomo nel suo collo, quello che sembrava il nocciolo di una ciliegia.
«Scopami» ansimò l'omega, cercando i suoi fianchi con le dita protese all'indietro.
Uriel non attese altro. Lo spinse contro la porta, gli prese una mano tra la sua. Intrecciò le loro dita, come aveva visto fare a quegli innamorati nei film che vedeva da bambino. Gli accarezzò una natica, la percepì calda e morbida come una nuvola.
Lo tirò sulle sue labbra e lo penetrò con un gesto secco.
Soffocò sulle sue labbra quel gemito che sfuggì ad entrambi. Ad Uriel nel sentirsi stringere da quelle pareti bollenti, a Dominic nel sentirsi riempire fino in pancia.
I pensieri che fuggivano via come pecore quando vedono un lupo.
Uriel aspettò qualche minuto prima di potersi muovere per bene. Lo strinse dai fianchi, respirando affannato contro la sua bocca rossa. Il membro che lo scongiurava di dettare un ritmo, di non restare costretto tra quelle pareti.
«Sei così… uhm… cazzo, stretto» gemette sul suo collo, i capelli finiti in avanti a solleticargli la pelle.
Dominic gli strinse la mano, portandola sulla porta alla quale stavano appoggiati.
Ansimarono entrambi.
Dominic mosse i fianchi all'indietro, invitandolo a scandire il tempo con i suoi affondi.
«Uriel… ti prego, veloce…» lo supplicò, il tono lascivo come quello di un angelo della lussuria.
Uriel lo accontentò. Non sapeva non farlo. Prese a muoversi con vigore, reggendolo dai fianchi e dandogli quegli affondi potenti e decisi che l'omega voleva. Lo scopò contro la porta, col volto sepolto nella sua spalla e i battiti impazziti nel petto.
«Uriel.. uhm… bravo, sei così… così bravo.» gli sussurrò, cercando le sue labbra.
Si baciarono ancora, Uriel che si sporgeva oltre la sua spalla per succhiargli le labbra e mangiarsi i suoi gemiti, Dominic che si lasciava sottomettere e scopare.
E il suo corpo pareva fatto di zucchero.
Gli succhiò ancora il collo, strizzò i suoi fianchi tra le dita e desiderò di più. Entrambi infiammati, strappò un gemito di protesta dalle loro bocche quando si sfilo da lui per farlo girare. Viso a viso, petto a petto.
Perché voleva sentirlo sciogliersi tra le sue braccia mentre gli stava aggrappato e scivolava sul suo membro.
Dominic colse al volo la sua richiesta. Gli saltò in braccio, aggrappandosi a lui come un koala australiano, stringendolo con le braccia sulle sue spalle e le cosce attorno ai suoi fianchi.
Stavolta, Uriel sorrise nel guardarlo negli occhi e lo penetrò ancora.
La posizione più intima lo fece arrivare ancora più affondo. Gemettero entrambi, forte, per poi stringersi i capelli e cercarsi le bocche. Un altro bacio umido, caldo come lava.
Dominic lo premette contro di sé e Uriel prese a muoversi. Sempre più veloce, sempre più affondo, strappando da quella bocca gemiti così profondo da sembrare urla.
Si chinò sul suo collo e gli mordicchiò il lobo dell'orecchio. L'omega cacciò un ansimo, infilandogli le unghie più affondo nella carne.
Lo strinse dentro, le pareti che si contraevano attorno al membro di Uriel, gli fece vedere le stelle. Chiuse gli occhi, gemendo il suo piacere direttamente nel suo orecchio.
«Mi stringi… così forte…»
Dominic di tutta risposta sorrise, trascinandolo ancora sulla sua bocca e scandendo un ritmo più acuto. La porta alle loro spalle sussultava in contemporanea ai loro movimenti rapidi, ma nessuno dei due se ne curò.
E ne furono ripagati.
Scopare Dominic sembrava il premio migliore di tutti, più di qualunque altro desiderio avesse ma avuto in tutta la sua vita. Quando stava in lui sentiva di toranre bambino, sentiva di poter di nuovo passeggiare nel suo uliveto, quello che suo nonno gli aveva promesso una volta cresciuto.
In quel marasma di pensieri, uno lo fulminò più forte. Un bisogno impellente di lasciarsi andare, affogare in quel piacere che gli diluiva il sangue come vino. Strinse più forte le cosce di Dominic tra i suoi palmi, scaricando su di essi un po' di tensione.
«Devo… sto…»
Fece per sfilare il membro, allontanarsi per non sporcarlo, ma Dominic lo bloccò dal polso. Ansimò sulle sue labbra, lasciandogli in bocca un po' di quella sua bellezza.
«Anch'io. Vienimi... dentro.»
Se la lussuria avesse potuto avere un nome, per lui sarebbe stato Dominic. Dominic con la sua voce vellutata, con il suo modo di inclinare la testa per mostrare la gola, la smorfia che gli si dipinse in viso quando sentì l'orgasmo montare, il gemito che spezzò e rimescolò l'aria.
Quelle parole lo lasciarono boccheggiante più dell'orgasmo stesso.
Percepì Dominic tremargli addosso, stringersi come un lenzuolo contro il suo membro e strozzarlo fino all'ultima goccia. Sazio di lui.
Erano venuti insieme, con Dominic che aveva ancora sulle labbra il suo nome. Forte, deciso. Un piacere così dilagante che si ritrovarono a dover prendere fiato prima di fare qualsiasi altra cosa.
Dominic gli sollevò il viso con una mano, accarezzandogli dolcemente la guancia. Un tocco gentile. Un tocco da amanti.
«Sei stato bravo» gli disse sulle labbra, basso e lento. «Era la tua prima volta, vero?»
Uriel sbarrò gli occhi, non sapendo come poteva essere stato sgamato. Forse lo aveva fatto male? Era stato troppo brusco? Avvampò di botto, distogliendo lo sguardo, con imbarazzo.
«Non fare così. Sei stato davvero bravo, mi hai scopato bene bene.» esalò in quelli che sembravano più opinioni che complimenti.
Però, poi Dominic lo guardò. Gli sorrideva, con quei suoi occhi grandi, preziosi come gemme. E lui si ritrovò a ricambiare, senza esserne neppure consapevole.
«Sono stato bravo» ripeté, ipotizzato dalle sue iridi colorate come biglie.
Dominic annuì, mordendosi il labbro inferiore con forza.
«Sei venuto in me, mi hai toccato nei punti giusti. Per quanto hai fantasticato su di me?»
Se possibile, le guance di Uriel divennero ancora più rosse, come fiamme di un camino. Dominic ridacchiò, dandogli un buffetto sul naso. Quel tremore scosse entrambi, ancora uniti, ancora dentro di Dominic.
Al pensiero di quello che era accaduto, il suo membro avrebbe potuto indurirsi ancora. Lo sentì già agitarsi in Dominic, ignorando la volontà del suo cervello.
«I-io…» provò a bonficchiare, tutto impacciato.
Dominic lo baciò. Un tocco con le sue labbra di fiore, lento e regolare che pareva una carezza. Lo tenne a sé dai fianchi, beandosi delle sue cosce morbide ancora strette ai suoi fianchi. Le mani sulle sue natiche tonde.
«Questo era per..?»
L'omega sorrise ancora, guardandolo mentre le sue lunghe ciglia facevano su e giù.
«Per avermi am-»
Ma non fece in tempo a concludere la frase. La porta prese a cigolare come a volerli avvertire, Uriel lo tenne più saldamente. Poi, la porta si aprì.
E una testa bionda ne fece capolino. Dominic trattenne il fiato, ancora aggrappato a Uriel.
«Dominic, devo parlarti di una cosa. Ci sei? Dominic?»
Quando sollevò il volto, incontrò gli occhi rossi di Katsuki, sorrise.
🥀
Spazio autrice:
Guai. In poche parole hahah.
Il riassunto del capitolo è praticamente la coppia che scoppia. Qual è secondo voi quella che scoppierà prima?
E soprattutto, i nostri protagonisti stanno passando bene le loro ultime quarant'otto ore? O no?
Bene, che mi dite di questa scena di sesso? Ci sono andata giù pesante lo ammetto, ma avevo in mente questa scena da un po' e poi... Dominic e Katsuki ci vanno anche più forti, fidatevi. Ah a proposito di Katsuki? Cosa credete che accadrà ora?
Sono curiosa di sapere che ne pensate e se avete delle teorie riguardo cosa accadrà ora! Vi aspetto nei commenti!
Alla prossima❤️
(Nel capitolo che verrà, preparatevi con fazzolettini e bottiglie di whisky, vi serviranno. Ah! Anche un accendino, faremo fuoco e fiamme ;)
-Lilla
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