34. ...cresce la vita
🌧️
Un fulmine squarciò il cielo come
fosse stato fatto di carta velina.
All'interno della casa in legno, il mormorio di voci si estendeva lungo tutto il soggiorno. Le voci rimbalzavano sui muri come un marasma di linee e frecce che si scontrano contro l'intonaco.
Oltre il vetro della finestra il vento sferzava l'acqua piovana contro di essi come a volerli punire di peccati sconosciuti o segreti.
L'impeto con il quale la foga del vento si abbattevano contro quelle mura gli faceva tremare le ossa.
Il temporale era violento, malevolo.
Xander gli sedeva accanto, gli sfiorava il dorso della mano di tanto in tanto, gli occhi soffermi su quel fenomeno meteorologico che era stato proprio quest'ultimo a spiegargli.
Entrambi sedevano di fronte alla finestra del soggiorno, le luci tutte accese, le voci e il bonficchiare conciso delle persone che li circondavano parevano quasi una cantilena, una melodia simile ad un lamento. Non sapeva cosa e come pensare; gli sembrava di aver perso le facoltà mentali assieme al sonno. Si aggirava per casa errante come un'anima in pena mentre Katsuki al tavolo in quercia, con i palmi posati su quella superficie pregiata esponeva “il piano”.
Non aveva capito granché di quello che gli aveva detto Bakugo, né aveva compreso cosa gli avesse iniettato nelle vene Shinsou, mentre le sue dita si contorcevano come anguille furiose e la sua mente si obnubilava come una torcia scarica.
Gli sembrava proprio di ingioiare karosene, il suo sapore asprognolo e bruciante gli ardeva la gola come se gliela stessero allargando di centimetro in centimetro con un coltello affilato.
Gli avevano detto di sedersi, di restare tranquillo, di non preoccuparsi.
Ricordava che aveva preso in braccio il suo Shura e lo aveva iniziato a cullare al petto con sempre più foga.
Il bambino non piangeva, dormicchiava e ogni tanto sussultava, forse scosso da qualche incubo. Izuku non ne sapeva molto al riguardo perciò non ne era sicuro, ma sapeva bene come la vita potesse rendere anche il mondo dei sogni una lacuna di mostri.
Guardava il temporale agitare gli alberi come fosse stata una grande mano che con la sua forza gigante ne piegava i rami più alti, schiacciandoli contro il suolo. Vedeva i loro colori sfumati, come se l'acqua avesse potuto scolorare la tintura delle case e delle foglie degli alberi, come se avesse potuto vedere la pittura a terra mischiarsi all'acqua piovana in un marasma di liquami. Gli pareva di vivere in un sogno, una realtà sfocata che aveva forme distopiche e verità scomode.
«Voi dovete tenervi accanto al cancello, restate lì a fare la guardia. Io e Kirishima andremo...-».
Le parole di Katsuki gli parevano un eco lontano, il sentore di un vento che somigliava a una spina di fiato.
Ricordava di avergli parlato, di aver spiegato a voce rotta le parole finali di Dominic, il suo viso sofferente gli appariva stagliato contro ogni superficie, come se improvvisamente i suoi occhi non fossero altro che un proiettore e ogni parete uno schermo da fargli guardare e rivivere ancora e ancora quegli attimi. Aveva sputato col tono raschiato "siamo in pericolo, lui sta arrivando" e Katsuki gli aveva chiesto chi. Non era riuscito a fare altro se non farfugliare parole sconnesse, senza fiato e con gli occhi sbarrati.
«Ricordatevi di mandare qualcuno in ricognizione dall'altra parte della strada» disse Kirishima, indicando la cartina aperta sul tavolo.
La luce elettrica evidenziava le lunghe ombre scure sotto i suoi occhi che parevano palline da tennis sgonfie. Doveva aver passato delle brutte nottate d'insonnia, perché non solo le occhiaie, ma anche la carnagione simile ad un fantasma pareva essere impressa nei suoi tratti come un tatuaggio.
«Io vado a prepararmi, dobbiamo agire il più in fretta possibile» sancì, i bicipiti grandi e grossi gli conferivano un'aria da duro, ma la maglietta nera a tinta unita era stropicciata e troppo grande per lui. Sembrava un cucciolo stanco, con gli occhi spenti e l'anima vagante.
Dall'altra parte del tavolo, Mina con i suoi riccioli rosa shocking e le lunghe unghie glitterate osservava suo marito dar voce ai suoi pensieri e la sua espressione torva non faceva che estendersi ogni volta che si ritrovava ad indugiare sui tratti arrotondati dell'omega che se ne stava appoggiato allo stipite della porta, le mani strette tra loro come a cercare di scaricare quell'ansia che come un cavallo nervoso gli correva nelle vene.
Sembrava volerlo distruggere con la sola forza dello sguardo, come se anche con quelli avesse potuto cospargerlo di acido, come se non potesse più contenere il suo quirk.
Denki accorgendosi di quell'occhiata adamantina chinò il capo, colpevole. Mina nel constatare quella reazione, se possibile, si fece ancora più cupa. Le si corrugarono le sopracciglia, aggrottò la fronte candida e fece per parlare, ma non appena fece per aprire bocca, una piccola saetta dai capelli rossi sbucò nella stanza aggrappandosi alle gambe di Denki. In quel momento, le pupille di Mina si dilatarono.
«Che stai facendo a mio figlio?!» ringhiò, sbattendo il pugno sulla superficie legnosa, le lunghe unghie colorate tintinnarono contro di esso. Scattò in piedi e con un movimento violento si accostò all'omega.
Il suo bambino stringeva le gambe di quello, dell'uomo che le aveva portato via suo marito.
Izuku non riusciva ad immaginare la miriade di sensazioni che imperversassero nelle mente dell'alpha donna.
«Mamma, che succede?» chiese il bambino, gli occhi grandi color ocra spalancati. Le piccole dita avvinghiate alla stoffa ruvida dei pantaloni di Kaminari.
«Lascialo andare immediatamente!» strillò come fosse appena stata colta da un raptus. Un qualcosa di maligno che gli aleggiava contro i muscoli facciali, appesantendoli. Nel vederla in quello stato, con le sopracciglia corrugate e la fronte aggrottata come una distesa di sale, Izuku non la riconobbe; non sembrava la ragazza che lo aveva accolto in casa, non sembrava l'alpha che amava prendersi cura di loro, non sembrava una mamma premurosa e gentile come era sempre stata. Pareva solo una donna sconsolata e sola, afflitta da un demonio che sembrava raschiarle a manciate grandi come un pugno, ogni sentimento.
Sviscerata e distrutta, con l'anima che fluiva contro le pareti e sbatteva per liberarsi da lì.
Izuku si chiese come potesse restare così calma quando i suoi occhi traboccavano desolazione, dolore.
«N-non sto...» provò ad obiettare Denki, ma Mina fu più rapida. Gli strappò un urlo violento dalle labbra rosse, gli artigliò le ciocche bionde con le sue unghie colorate di glitter, strinse nel suo pugno i capelli biondi di lui e li strattonò con rabbia.
Non riusciva a vederla in faccia Izuku, ma sapeva che stava decisamente provando qualcosa al di fuori del solito cerchio emozionale che si era concessa di percepire. Forse era l'essere mamma, l'essere stata ferita nel suo orgoglio da moglie, donna e mamma, che la feriva. O forse, era semplicemente il suo odio che traboccava dalle dita fuori dalla pelle come se fosse stata punta da una medusa.
«Mi hai portato via mio marito!» ringhiava feroce, lo tirava con la nuca contro la parete mentre i tuoni tempestavano la stanza e facevano tremare i muri. Izuku nell'assistere a quello scenario fu colto da un fremito, qualcosa di oscuro che gli si aggrappava alle vene e si avvinghiava fino a fargli sanguinare i muscoli. Li sentiva stridere come cinghie troppo tirate, li sentiva accartocciarsi come carta velina protesa dai mocchettoni che fungevano da sostegno. Si sentiva come carta in balia del vento che colpiva e affondava in ogni spiraglio scoperto del suo animo. Gli freddava il cuore come se glielo avessero strappato dal petto e messo in un congelatore.
«Hai portato via un padre ai propri figli! Non ti vergogni?! Non ti fai schifo?».
Fu Katsuki a svincolarla da quella presa, le sue mani grandi che le stringevano le braccia morbide e la costringevano indietro, la schiena premuta contro il suo petto ampio mentre ancora si contorceva e dimenava, le mani come rami scossi dal vento che cercavano di afferrare ancora una volta la sua preda.
«Lasciami, Katsuki! Lasciami stronzo, lasciami!» redarguiva mentre lo graffiava nella pelle con le sue unghie appuntite.
Bakugo non sembrava curarsene; la teneva ancora stretta, ferma contro di sé e Izuku intuì che stava utilizzando solo un quarto della sua totale forza, il giusto necessario a non farle male, ma necessaria a farla stare ferma. Avvolta contro quella morsa di carne e ossa che sembrava starle piccola come una gabbia.
«Lasciami! Lo uccido! Gli porterò via tutto! Deve capire come mi sento, deve...stronzo! Maledetto!».
Continuava a cercare di svincolarsi da quel placcaggio, scalciava e si sbracciava come un anguilla contro il pavimento, picchiava i pugni contro i muscoli gonfi di Katsuki e lo insultava cercando un modo per farlo indietreggiare e lasciarla liberare di menare le mani.
L'alpha però, si limitava a farsi colpire senza emettere neppure un verso, l'espressione neutra come se fosse abituato a tutto quello e che anzi, non fosse niente che non avesse mai visto.
«Mina, calmati...» mormorò Uriel, cercando di avvicinarsi alla ragazza. Lei gli ringhiò contro, sfoderando i canini affilati, le iridi assunsero la tonalità della notte, scure e profonde come un universo senza sole. Sembrava volerlo uccidere con la sola forza della volontà.
«Mina mi d-dispiace, io...»
Sotto lo sguardo sorpreso di tutti, Denki si era mosso in sua direzione le gambe che tremavano nel sorreggerlo in piedi come piccoli stecchi conficcati nel terreno.
Mina stessa ne era rimasta così sorpresa da immobilizzarsi per qualche secondo, il giusto necessario a fargli farfugliare quelle quattro parole. Quelle sette sillabe che sapevano di amaro come un biscotto intriso di muffa.
Le era bastato udire e assaporare quel soffio soffio d'aria per farsi di nuovo cupa e violenta. Era scattata in avanti come colta da un fremito di corrente, Katsuki non aveva fatto in tempo a fermarla; i suoi movimenti parevano essere fulminei e istantanei come un lampo.
Aveva smosso le dita in avanti fino ad avvinghiarle al collo niveo dell'omega biondo, le unghie che artigliavano quella porzione di carne come se fosse stata creta da spaccare e rimodellare, un vaso d'argilla pregiato del quale odiava la composizione e la vista, del quale voleva distruggere il ricordo e la presenza con le sue stesse mani.
Le parole gli lasciarono le rosee labbra come fossero state veleno, un distillato di morte vivente che poteva fare effetto solo se pronunciato ad alta voce.
«Sei solo una lurida puttan-».
«Ora basta!».
Il timbro severo di Aizawa era risuonato nell'aria come un'ombra, un rimbombo d'aria simile al vento che fischiava, un artiglio di tigre.
Si ergeva a pochi metri da loro, alto e cupo come un diavolo tentatore, con le spalle larghe e la bocca tesa, le sopracciglia creavano un arco inclinato come un sottobosco.
Non si era scomposto più di tanto, ma il suo tono da alpha dominante aveva scaturito nell'aria qualcosa di pericolosamente simile a un ordine.
Si erano bloccati tutti, i movimenti sospesi a mezz'aria con le movenze dei polsi ancora contratti e le espressioni accigliate.
Le dita affusolate di Mina erano ancora strette contro la gola livida dell'omega, gli altri tutt'attorno a loro avevano voltato il capo in direzione di Shota.
«Lascia andare Denki. Subito, Mina» asserì l'uomo, autoritario e severo come un combattente, un militare dal cipiglio serioso con le ciglia lunghe come un'autostrada.
Izuku in un primo momento credette che non avrebbe obbedito, che si sarebbe voltata con un ghigno strafottente e avrebbe finito di soffocare Denki, ma non lo fece.
L'alpha dai capelli rosa staccò le dita come colte da una mano invisibile che gliene fece allontanare una ad una, le mani che tremavano scosse da chissà quale sentimento. Le rimise lungo i fianchi, e come un automa si volse a guardare suo figlio. Un'espressione sconvolta stampata in viso.
Il bambino era corso a rannicchiarsi contro la gamba di Lucien, accanto a Millie e Carlotta, i quali li guardavano come se avessero appena assistito ad una pena capitale; con gli occhi sbarrati e le labbra tremanti.
Lucien gli teneva un braccio vicino, li stringeva a sé come a volergli trasmettere un briciolo, un milligrammo di sicurezza. Forse stava usando il suo quirk, perché nonostante le lacrime, sui loro visini pallidi compariva una strana tranquillità.
«Ah, certo. Vi coalizzate contro di me. Sono io la cattiva» sbottò la donna, gli occhi spenti, di nuovo privati di quella vitalità giocosa che Izuku aveva imparato ad associare al suo carattere frizzante.
Lucien fece per aprire bocca, ma dalle labbra non gli uscì nulla. Fu nuovamente Aizawa ad intervenire e a socchiudere quegli occhi da gatto.
«Basta, stai decisamente esagerando. Guarda come sono sconvolti i tuoi bambini, perché te la prendi con Lucien?».
Aveva la voce di uno che è abituato ad aver ragione Shota, qualcuno che sa come avere ragione.
Un'arringa che riusciva a criptare fuori, sciorinando parole appropiate e muovendo languidamente i denti come se quelle stesse sillabe le stesse masticando e modellando con gli incisivi.
Mina non trovò di che obiettare, chinò la testa in silenzio, la bocca improvvisamente cucita, le braccia distese lungo i fianchi come un deserto caraibico.
Nessuno si accorse di Denki che come un fantasma, con le occhiaie violacee e le lacrime trattenute, sgattaiolava via senza alcun rumore. Solo Kirishima lo guardava.
Lo stesso Kirishima che dinanzi all'ennesimo litigio fra le due persone che si erano contese il suo cuore, era stato zitto ad osservare. Uno spettatore codardo, un buttafuori che non sapeva fare il suo lavoro.
Questo si sentiva, un pesce palla che osservava lo squalo divorare una biscia e ringraziava in mente sua di non essere stato al posto della biscia.
🦋
La riunione non aveva poi tratto grandi punti focali.
Katsuki se ne sentiva frastornato e lievemente barcollante. Aveva dormito sì e no un paio d'ore prima di svegliarsi di soprassalto mentre Izuku piangeva disperato e tremava colto dai brividi che lo scuotevano come un tronco concavo.
Lo aveva stretto tra le braccia e Izuku gli aveva piantato le unghie nelle spalle così forte che era certo ci sarebbe rimasto il segno per giorni; non che gliene importasse poi tanto, temeva più che altro per l'incolumità del suo animo fragile.
Aveva cercato di farlo calmare mentre lui a singhiozzi gli spiegava il suo incubo che più che un sogno pareva un vero e proprio ricordo, una visione collettiva di ciò che stava accadendo a Dominic. Il pensiero del suo ragazzo gli restava attaccato alla gola come un virus, nel suo organismo come una mina vagante. Incastrato nei suoi organi come un proiettile andato a segno. Non c'era spazio nel suo cuore per amare qualcun altro a parte Izuku, o così credeva. Dominic aveva squarciato la rete protettiva che aveva attorno al cuore come fosse stato egli stesso una lama.
Gli era piaciuto proprio perché sapeva di guai e armi, di problemi e lussuria. Dominic lo attraeva come qualcosa che non si può avere, come un desiderio recondito, un nastrino che provi ad incastrare nelle vene ma che scivola via come fumo. Aveva provato a rinchiuderlo nella sua anima e ad impedirgli la fuga con il solo aiuto delle ossa e della carne che componevano il suo scheletro, ma come risultato aveva ottenuto solamente quello di trovarselo sempre più lontano, sempre più distante. Dominic gli era sfuggito dalle dita come acqua. Aveva stupidamente creduto di poterlo trattenere, ma non ci era riuscito affatto.
Era solo una mera, sciocca, illusione a cui si era concesso di credere.
Izuku però gli restava interdetto tra le fibre muscolari e si mescolava al suo dna come fosse stato egli stesso il custode di quelle carni tenere. Lo avrebbe voluto baciare e scopare fino allo svenimento appena se lo era ritrovato davanti al portone di casa.
Gli erano tremate le gambe e mentre lo osservava con il suo bambino in braccio, con i polsi sottili e fragili come carta umida, un'unica domanda gli era uscita di bocca: “dov'è Dominic?” e non tanto perché volesse lui, ma perché si era talmente abituato alla sua presenza che il non averlo attorno lo rendeva irrequieto come uno psicopatico.
L'aveva visto attraversare le iridi verde foglia di Izuku come fosse stato un vento africano costernato di polveri sottili; il dispiacere. Lo aveva accecato fino a impedirgli di vedere altro se non quel candore scuro. Lo aveva ferito sino alle profondità più recondite dell'anima mentre gli scavava nelle budella e si inseriva nelle vene fino a squarciarle.
E poi Izuku gli aveva parlato dell'incubo, di Dominic che svelava tutto solo per proteggere suo figlio, il bambino di Katsuki che lui tanto adorava. Lo aveva sempre trattato come un essere superiore, un alpha ideale, l'uomo dei sogni. Dominic credeva in lui, credeva che oltre la scorza dura ci fosse il suo tanto amato Katsuki-san, ma non lo forzava a mostrarglielo.
Si teneva in bilico tra ciò che Katsuki avrebbe voluto e ciò che lui stesso poteva pretendere. Si era sempre destreggiato come un giocoliere tra le profondità del suo animo, aggrappandosi alle linee d'inchiostro che parevano ombre maligne, si era sempre lasciato scarrozzare qua e là, in silenzio. Morbido come un cuscino di seta e ruvido dentro come una parete rocciosa, scalarlo voleva dire rischiare di precipitare e rompersi la testa, perché il muro che Dominic aveva eretto era alto quanto la Fossa delle Marianne e solo qualcuno di estremamente folle avrebbe potuto attraversarla.
Aveva svegliato tutti, aveva preso da parte Kirishima e gli aveva spiegato minuziosamente il sogno come se così facendo avrebbe potuto ideare un piano. Il piano in realtà, c'era. L'unico problema era che non potevano più metterlo in atto, non dopo che avevano rischiato così tanto.
Avrebbe venduto l'anima al diavolo prima di rimettere Izuku di nuovo in pericolo.
«Va tutto bene?» biascicò Lucien, sedendogli accanto.
Izuku teneva in braccio il piccolo Shura, avvolto nei panni sembrava proprio un minuscolo fagottino colorato. Il visino niveo sporgeva appena dalle copertine, il suo respiro pareva un anelito di fiato.
Lo osservava dallo stipite della porta, la spalla poggiata contro il legno freddo e le mani chiuse nelle tasche del pantalone.
Al contrario suo, Izuku indossava ancora il pigiama, una maglietta sgualcita presa in prestito dal suo armadio e un pantalone tenuto su da un elastico, la vita ancora troppo stretta, nonostante i chiletti presi durante la travagliata gravidanza.
In realtà, Izuku non aveva voluto rivelargli come e l'aiuto di chi aveva partorito, ma sospettava c'entrasse qualcosa l'enorme cicatrice che gli squarciava il basso ventre, quella che aveva visto – a malapena potuto guardare – quando lo aveva aiutato a cambiarsi.
Aveva chinato lo sguardo e si era fatto più cupo quando gli aveva chiesto spiegazioni. Non aveva insistito, specie dopo aver visto il modo in cui si era ridotto per un incubo. Non era riuscito a calmarlo neppure con la sua voce o con i suoi tocchi, che solitamente funzionavano.
Alla fine, aveva chiamato Kirishima – aveva intravisto il Bastardo a Metà sulla soglia del corridoio a scrutare la loro stanza – e gli aveva chiesto di convocare Shinsou.
Solo con una doppia flebo di Valium era riuscito a placarsi, a lasciarsi scivolare contro la sedia del soggiorno mentre cullava a sé il suo Shura e guardava la pioggia scrosciare lungo il vetro della finestra.
«Sto bene, non preoccuparti.»
Aveva risposto lui, un mormorio basso e soffuso come il candore di una candela. Non aveva abbozzato quel suo solito sorriso che preannunciava la sua più grande menzogna; lo stare bene. Izuku pareva scosso da un uragano che gli sconquassava tutti i sensi fino a stordirlo.
«Izuku, mi dispiace tanto.»
Lucien aveva la straordinaria capacità di stupire e sconvolgere solo con poche parole soffiate.
Ora aveva gli occhi del fratello puntati su di sé come due torce, l'espressione sorpresa gli albergava sulla faccia come un fantasma in attesa di un alloggio fisso.
«Per che cosa?» chiese l'omega, i suoi bei occhioni chiari si affissarono sulla fronte candida del fratello. «Non hai fatto nulla di cui scusarti, Lucien.»
Lucien scosse il capo.
«Non è vero, i-io...» un sospiro strozzato, un singhiozzo abortito. «Io dovevo aiutarti, q-quando eravamo in...pri- lì. Quando eravamo lì avrei dovuto essere io ad aiutarti, così tu non avresti dovuto fare quella promessa a Dominic e-e...potresti, potresti stare con Katsuki senza problemi e invece io... sono rimasto immobile, non ho mosso un dito. Non ho fatto altro che piangere e frignare, ignorandoti, e ignorando il tuo dolore e-»
«Non è così.»
Era stato Izuku a bloccare quel flusso di parole, poggiandogli il suo palmo caldo contro le dita e sollevandogli lo sguardo nella traiettoria del suo viso.
«Non è così, Lucien. Eravamo tutti spaventati ed io stesso non sapevo cosa fare. Mio figlio stava per nascere ed ero...perso. Distrutto. Però ognuno cerca di salvarsi come può, no? Non te ne faccio una colpa e neppure Katsuki o altri lo faranno.»
C'era qualcosa di melodico nel tono dolciastro di Izuku, un qualcosa che gli stringeva la gola e gli faceva scappare il cuore dal petto, qualcosa che gli interruppe il respiro e glielo buttò negli abissi più profondi del suo essere.
«Non è niente, Luc, davvero.»
Izuku aveva allungato una mano. Gli aveva redarguito una piccola carezza sulla guancia, il tocco morbido e un sorriso tiepido sulla bocca. Il bambino tra le sue braccia aveva emesso un lamento.
«Oh, il mio piccolino…».
Se lo era stretto alle braccia come un fagottino fatto di carne e stoffa e lo aveva cullato. Lucien che lo guardava di sottecchi aveva sorriso.
«Vuoi tenerlo?» gli aveva chiesto Izuku, notando quella tenera reazione.
Il fratello aveva sgranato gli occhi come se gli avessero appena proposto di scalare l'Himalaya.
Gli si era imporporate le guance e aveva iniziato a scuotere la testa.
«Nono, io…»
Izuku interruppe le sue deboli proteste spingendogli il piccolo tra le braccia. Un fagotto tenero e morbido come una torta al burro.
Un pasticcino di zucchero, con le labbra che sembravano boccioli di rose, gli occhietti grandi come biglie.
«Ecco, sai come tenerlo, no?».
Izuku sorrideva, le labbra inclinate verso sinistra, gli occhi socchiusi.
Un sorriso stanco, quasi esausto.
«No, io…».
Provò a sottrarsi il più piccolo, abbozzando una smorfia, un piccolo sorrisetto impacciato che gli nacque spontaneo nell'osservare quel bambino.
Katsuki si chiese come qualcosa di così minuscolo potesse suscitare tanto clamore. Era così chiaro che Izuku fosse vissuto solo per quel neonato che ormai lo aveva intuito pure lui. Lui che aveva sempre dato per scontato che Izuku fosse innamorato di sé, che Izuku fosse sopravvissuto perché inconsciamente sapeva che Katsuki sarebbe corso a salvarlo, a prescindere dall'epoca, dal tempo e dallo spazio. Katsuki sarebbe sempre corso da lui, ma per Izuku sarebbe stato lo stesso?
Izuku avrebbe lasciato quel Matthew per lui? O avrebbe preferito crescere il suo piccolo con il padre biologico? Izuku avrebbe mai capito che quello che Katsuki aveva fatto - il Katsuki di ogni epoca, aveva fatto - era solo ed unicamente per loro? Per l'amore che lo spingeva tra le braccia di Izuku?
In quel momento però, mentre osservava quella scena, con gli occhi fissi sul piccolo fagottino e la curva del sorriso stanco di Izuku impresa sotto le palpebre, temette di no. Izuku non avrebbe mai e poi abbandonato l'uomo, l'alpha che lo aveva aiutato a generare quel ragazzino, il frutto concreto di quanto si amassero.
Neppure la morte era riuscita a dividerlo da quel grande amore, come avrebbe potuto riuscirci lui? Come avrebbe fatto a negare ad Izuku di essere maledettamente esausto, stanco, distrutto?
Poi sentì la sua voce, il modo in cui parlava di quel Matthew, quell'alpha che a Katsuki proprio non andava giù. Il modo solare in cui le parole gli lasciavano la bocca e cadevano giù in picchiata come se le stesse spingendo giù da uno scivolo.
«Shura, assomiglia così tanto a Matthew» ammise Izuku, lo guardava con gli occhi grondanti d'orgoglio. «È quel tipo di bambino che riprende tutto dal padre. Le curve del viso, la linea spessa della bocca, i capelli. Ha persino il suo naso, lo stesso nasino di Matthew. Immagino che quando crescerà mi farà strano, intendo rivedere in lui suo padre. Magari soffrirò per questo, magari mi farà piacere.»
Allungò una mano, carezzando dolcemente la guancia del piccolo. Il tocco leggero pareva finto tanta era la premura e l'attenzione posta nel dosaggio della forza.
«Shura è tutto quello che ho.»
Lo disse come se stesse pronunciando una promessa, un soffio di fiato che si sparse nell'aria come un bacio.
Il fratello anche sorrise, il piccolo Shura stretto nelle sue braccia con il respiro fievole e regolare come quello di un dolce delfino.
«Però ha i tuoi occhi, Izuku.»
Restò sorpreso da quell'affermazione, dettata da un personaggio che neppure avrebbe dovuto ascoltare quella conversazione.
Aizawa Shota non era mai stato un gran chiacchierone, ma era lì, al centro della stanza mentre osservava di sbieco la scenetta dei tre ragazzi, l'alone di nostalgia impresso nei tratti come una macchia di fango.
«Si, ha i miei occhi» confermò l'omega, gettando un lungo sguardo all'alpha. Non sembrava essere in buoni rapporti con lui, nonostante tutto ciò passato, Izuku continuava a disprezzare chi gli aveva fatto del male, forse inconsciamente avrebbe anche voluto attaccare quell'alpha, lo stesso uomo che sotto mentite spoglie lo aveva stuprato - per dovere certo - ma questo sembrava non solo screditarlo agli occhi di quell'omega distrutto, ma anche disgustarlo.
Izuku non voleva che Aizawa Shota stesse vicino a suo figlio né che stesse accanto a Lucien, o dentro Lucien, o accanto alla sua famiglia. Lo voleva lontano, su questo i suoi feromoni non mentivano.
Katsuki riusciva a percepirli, seppur fievoli, bassi come una nota in un marasma di rumori, ma c'erano.
Non sapeva chi o come glieli avessero soppressi in precedenza, ma ora c'erano di nuovo e Katsuki sospettava fosse colpa di Fukushūki, quel maledetto bastardo doveva aver fatto molto danno di quanto riuscissero a notare all'esterno.
«Matthew Shikagari, dico bene? È lui il padre del tuo bambino. Scelta singolare anche il nome Shura, lo avete scelto per il significato in russo?».
La voce di Aizawa era un lastricato d'acqua, qualcosa che guizzava come le branchie di un pesce rosso ed Izuku pareva volerlo fare annaspare.
«Prima di parlare di Matthew sciacquati la bocca» sibilò Izuku, tagliente e lapidario come poche volte lo aveva mai visto.
Un Izuku con l'espressione così seria e rabbiosa da ricordargli sé stesso, un sé in versione alternativa.
«Non saresti degno di parlare di lui neppure se rinascessi altre venti volte. Matthew non è affare tuo, levati il suo nome dalla testa sennò lo farò io.»
Ad Aizawa sfuggì un risolino.
Fu una mossa sbagliata, perché fece solo indignare ancor più l'omega.
Lo vide inarcare le sopracciglia, irrigidire i muscoli. Sembrava pronto a lanciarglisi addosso, scattoso e indignato come non mai.
Si chiese se fosse il caso di intervenire, separare quella lite magari, difendere Izuku come ormai gli riusciva di fare fin troppo bene.
Izuku veniva prima di tutto, persino di sé e di Dominic.
Dominic, il solo pensiero del suo fidanzato gli dava le vertigini. Non poteva fare a meno di chiedersi dove fosse, cosa gli stessero facendo, come stesse il loro bambino.
E se lo pensava.
Se aspettava in piena notte, col cuore che galoppava nel petto e piangendo si chiedeva dove fosse il suo Katsuki-san.
Deglutì.
Lo avrebbe riportato a casa, si sarebbe occupato del bambino e-
«Kacchan?»
Doveva averlo tradito quel fottuto vaso. Il vaso di fiori che sua madre aveva messo dinanzi a quell'atrio, lo stesso fottuto vaso di fiori con le fantasie indiane sopra e fiori secchi dentro.
Lo stesso vaso che aveva rovesciato sul pavimento.
Non lo aveva rotto, pareva integro, maledetto fottuto vaso di fiori.
Era solo svenuto a terra, ammosciato come la sua anima.
Era stato il rumore ad allarmare tutti, perfino il piccolo Shura che aveva cacciato un piccolo gemito lamentoso.
Aveva gli occhi dei presenti puntati su di sé, più quelli di Kirishima che era resuscitato chissà da dove solo per via di quel tonfo.
Cristo, la questione era proprio grave se stava iniziando a diventare così goffo, forse era la stessa malattia che aveva Izuku, quella del suo Izuku, che non riusciva a fare due passi senza inciampare o rompere qualcosa.
«Merda» imprecò. Si chinò sulle ginocchia, riacciuffando il vaso e rificcandoci dentro i fiori sparpagliati sul pavimento. Parevano una distesa di sabbia secca, molluschi sgusciati.
«Bakugo-bro, tutto ok-».
Sorpassò Kirishima con una spallata, il cervello che registrava a fatica ciò che Izuku stava dicendo. Ignorò i suoi richiami e svoltò verso la porta, in direzione del garage; aveva bisogno di stare da solo.
🦋
«Sei molto sciocco, Katsuki.»
Quella voce gli sapeva sempre di acume. Le parole nella sua bocca potevano diventare veleno e miele a seconda della situazione e dei vantaggi che poteva ricavare, forse era per questo che gli piaceva; gli ricordava fin troppo Dominic.
Il suo Dominic, lo stesso che se ne stava chissà dove, a subire solo Dio sapeva cosa.
Spinse da parte il pugno che stava premendo contro la parete, le nocche completamente sbucciate come una fragola aperta a metà, sviscerata ad unghiate.
Il sangue colava dalla parete come se sopra ci fosse stato inchiodato un uomo. Quella notte, pareva morire di emorragia anche il legno.
Sbuffò fuori un ringhio, un suono gutturale proveniente dalla sua gola.
L'altro non batté ciglio, il suo visino perfetto era leggermente più scarno, le guance un po' più bianche.
Ma per il resto era perfetto, un piccolo angioletto di carne ed ossa, con le lentiggini e gli occhi come quelli del fratello.
«Che cazzo ti serve?» gli chiese brusco, ignorando il fremito di dolore che gli corse nelle vene nell'afferrare la borraccia d'acqua. Se la portò alle labbra, prese una bella boccata e mandò giù.
Il liquido gli colò appena lungo il mento, gli inzuppò un lembo della maglietta schizzata di sangue, un rosso vermiglio così intenso da poter essere scambiato per vernice indelebile.
L'omega non lo stette a sentire.
Si mosse verso di lui, arrancando con quelle gambe da fenicottero. Sprazzi di ciuffi nivei gli finirono tra le ciglia, un bel quadro vivente che volteggiava contro l'aria e si stagliava contro il pavimento.
Non se lo ricordava così bello quando lo aveva portato lì.
Certo, non come Izuku, ma di una bellezza differente, quasi parziale.
Un alone di meraviglia che come cipria gli sporcava i tratti e lisciava la pelle rendendola di marmo.
Un bell'affresco di Botticelli, simile ad una vergine ma più astuta, più sveglia.
Una bella volpe impreziosita da qualche dono divino.
«Fa vedere» disse lapidario.
Non aspettò una risposta, gli prese la mano ferita tra i suoi palmi freschi e con occhio critico si mise ad ispezionare la zona lesa.
Forse tirare pugni contro un legno inanimato non era stata l'idea migliore che avesse avuto. Specialmente per il dolore. Gli sembrava quasi di non sentire più la mano, la sensibilità andata del tutto a puttane.
«Pinza con le dita» ordinò il ragazzo, tastando piano la superficie.
Katsuki lo fece.
Il dolore pareva ancora presente nonostante le ferite profonde; era un buon segno?
«Si, è un buon segno» confermò l'altro quasi come se gli avesse letto nel pensiero. Bakugo lo guardò assottigliando gli occhi.
L'occhiata che gli rivolse l'omega non fu per niente rassicurante.
«Ma deve farti molto male» aggiunse, spingendo con i polpastrelli contro la carne aperta.
A Katsuki sfuggì un sospiro rauco. Sì, faceva male eccome, soprattutto se poi pensava di volersi sottrarre alla presa di lui e provava a divincolarsi senza successo.
«Fermo. Proverò ad assorbire un po' di-».
Si staccò dalla sua morsa con uno strattone.
«Non ho bisogno del tuo aiuto, né di quello di un'altra stramaledetta comparsa» ringhiò.
Non sapeva neppure da dove venissero quelle parole, quella rabbia che gli rodeva dentro come i denti di un criceto.
Sapeva solo se Lucien Midoriya pareva il bersaglio giusto per fargli da capro espiatorio, in particolar modo se continuava a provare a guarirlo; lui, Katsuki Bakugo, lo stesso Dynamight arrogante e sbruffone, uno stronzo senza cuore, l'eroe che non sorrideva mai.
«Ti sbagli se credi che Izuku non tenga a te.»
Lo spiazzò.
Quella semplice affermazione bastò a far caracollare miliardi di teorie già preconfezionate, miliardi di bugie impacchettate a puntino dalla sua mente. Pareva un contenitore per i sottovuoti, per i surgelati. Nel suo corpo tutto surgelava, sia le persone, sia le idee, sia i sentimenti. Aveva una temperatura sotto zero e ogni forma di vita dopo un po' finiva per stramazzare al suolo, riversa sui suoi organi come un aereoplano schiantato.
«Hah? Che cazzo hai detto?».
Si voltò a guardarlo, un cipiglio innervosito stampato sulla fronte bianca come latte. Lucien non mosse un muscolo, non pareva spaventato, anzi. Non solo sosteneva il suo sguardo come se niente fosse, ma lo guardava anche con quel misto di dolore e malinconia che si associava ai più deboli e lui quello sguardo lo aveva sempre odiato.
Compassione, per lui?
«Hai sentito bene» ripeté lui, battendo le ciglia su e giù. «Izuku tiene a te. Ci tiene così tanto che non riesce a guardarti per la paura di perderti.»
Gli si avvicinò con uno scatto, il cuore sotto shock. Cercava ancora di registrare quelle parole che come un'onda erano arrivate troppo inaspettate per essere frenate. La corrente del mare lo stava spazzando al largo mentre provava inutilmente a nuotare verso riva.
Era sempre più lontano dalla salvezza.
Prese Lucien dal colletto, lo strattonò a sé, il sangue delle nocche colò a picco contro quella stessa stoffa, macchiandola con quel liquido vermiglio.
«Non dire cazzate, Lucien e non guardarmi con quei fottuti occhi. Con quella fottuta espressione» lo apostrofò con disappunto, il tono ridotto ad un'ottava.
Non era arrabbiato, era indignato, deluso, rotto e Lucien infilava il coltello nella piaga e gli dilatava la carne.
Sì, gli dilatava la carne soprattutto mentre gli infilava le unghie nelle nocche spaccate e tirava. Lo fece arretrare con un sibilio. Imprecò, lasciandolo andare con uno scatto.
Il dolore gli si era diffuso nei muscoli come il liquido di una puntura troppo forte. Pareva sapere dove avrebbe fatto più male, dove doveva insistere affinché rompesse le sue difese.
Ringhiò leggermente, un gesto istintivo dettato dal suo alpha ferito.
Lucien a qualche metro di distanza, lo guardava ad occhi spalancati.
Il verde delle sue iridi era così profondo da sembrare un mare.
«Izuku tiene a te. Smettila di dubitare, di comportati da stupido, da stronzo. Io forse non sono lui, Dominic forse non lo è, ma non solo mio fratello è degno del tuo rispetto» redarguì. Pareva serio mentre esponeva quelle parole, un discorso intagliato nella sua voce limpida come acqua di sorgente.
«Forse noi non ti piacciamo, forse non siamo abbastanza belli o bravi, o forti, ma smettila di trattarci così. Noi omega non abbiamo la vita facile a causa di alpha come voi. Soffriamo e soffriamo finché non moriamo. O uccisi, o di crepacuore. Pensi di essere migliore di me solo perché sei un alpha? Be' Katsuki caro, Izuku questo non te lo perdonerebbe mai. Non la tua gelosia, non la tua rabbia, ma questo. Il tuo crederti migliore di noi omega. Il tuo alpha, Katsuki. Voi alpha siete così ridicolmente pieni di sé e-»
Lo vide barcollare in avanti come colto da una vertigine, le parole che ancora gli lasciavano le labbra come una cascata. Gli fu accanto prima di vederlo socchiudere gli occhi, come a voler riparare la vista dallo shock della caduta.
Non accadde.
Lucien non cadde a terra né si fece male. Lo afferrò tra le braccia prima che potesse accadere e con una presa tenera lo mantenne su.
«Che hai?».
Gli pareva già strano che parlasse così tanto, lui, lo stesso ragazzino che gettava qua e là, si e no, due parole messe in croce. Gli pareva sospetto, ma ancor di più gli parve quella vertigine, quel marasma di tremori e feromoni che lo sommersero come un camion.
«Merda, cos'hai?» ripeté. Lo tenne a sé, il petto che lo reggeva in piedi. Aveva la vita così stretta e tiepida da sembrare un bocciolo di rosa. Perfino la sua pelle era liscia come seta, un batuffolo di seta pregiata ricamata direttamente sulle sue viscere.
«Sto bene» asserì Lucien, la voce ridotta ad un battito d'ali. Un moscerino piccolo piccolo, un ronzio che pareva lo scalpitare del suo cuore.
«Che cazzo hai? E non dire niente è impossi-».
Lo interruppe con un gesto calmo, la mano che gli prendeva la sua e la spingeva più in basso, su quel ventre piatto all'apparenza. Liscio come la pagina di un libro fresco di stampa. Katsuki quasi ebbe un mancamento. Gli si schiusero gli occhi, corse a cercare una conferma, già impressa nel sorrisetto mortificato di Lucien - come se fosse stato un criminale da ghigliottinare. -
Lo ammise comunque, col tono che si increspava e le lunghe ciglia che spazzolavano via le lacrime già raggrumate agli angoli degli occhi.
Poi, mosse le labbra e mise fine ai dubbi di Katsuki.
«Sono incinto di Shota.»
🩹
Spazio autrice:
Capitolino di passaggio, ma comunque importante. Come ormai sarete abituati, mi scuso ancora per il ritardo però tra mille impegni e mille blocchi sono riuscita finalmente a darci un capitolino.
Che ve ne sembra?
Riusciamo finalmente a vedere la reazione di Katsuki al ritorno di Izuku e alla nascita di suo figlio, il bambino non suo ma di Matthew, l'ex ragazzo di Izuku (di cui ne sapremo presto di più!)
Passando al triangolino (si oggi è tutto mini hahah) tra Mina, Kirishima e Denki, ci sono nuovi riscontri e Mina è sempre più agguerrita! Vuole riprendersi Kirishima o no? Cosa ne pensate? Lo preferite con Denki?
E infine, Lucien.
Lo stesso Lucien che non sa cosa fare e confessa a Katsuki (dopo un capogiro) che aspetta il bambino di Aizawa e boom, lo fa con una piccola crisi di nervi, sarà per via della gravidanza?
Vi aspetto nei commenti, prometto che il prossimo capitolo arriverà presto❤️🩹
La vostra,
Lilla
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