33. Fra sorrisi e pianti...

TW! Argomenti forti!
(Violenza fisica, scene forti, sangue, linguaggio scurrile, tentato omicidio)

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La tenda color borbogna creava uno strano candore nell'aria, un torpore simile al sonno indotto dai narcolettici che avevano sparso nella pezzetta di stoffa che gli avevano sventolato contro il naso.

Vedeva sfocato, i colori gli sembravano relativi, il rosso della stanza pareva composto dall'emoglobina del suo sangue, tutto gli pareva roteare come quando stava sulle giostre.
Le voci gli arrivano come se fosse stato intrappolato in una tecca di vetro, come se fosse incastrato in un tunnel fatto di luci e cottone.
Avrebbe voluto muovere le dita, ma qualcosa gli avvinghiava i polsi, tenendogli stretti. Il respiro gli restava impigliato tra gli alveoli polmonari, esattamente come un merlo che ha perso la via del nido. Si sentiva smarrito e confuso, e percepiva un sapore amaro sulla punta della lingua; simile a cicoria andata a male, troppo acida per le sue papille gustative.

Deglutì, una mano gli aveva preso il mento tenendoglielo alzato. Un abbaglio di fasci solari gli aveva invaso le pupille, fino ad allora abituate al più totale buio.
Gli sembrava di aver dormito su un materasso fatto di pietre e chiodi.
Gli doleva ogni muscolo come se qualcuno gli avesse preso le interiora e le avesse sciacquate e rinserite nel suo stomaco.

Aveva i conati.
Il suo pensiero andò istintivamente al suo ventre, al bambino di Katsuki.
Voleva raggiungerlo, liberarsi, assicurarsi che almeno lui stesse bene, che il sacrificio fatto non fosse stato invano.

«Bene, bene.»
Un timbro gutturale, una nota di sadonismo in quella marcatura dall'accento grave come quello dei tedeschi. Provò a dimenarsi, a raggiungere quello stronzo, a colpirlo. Non riuscì a scalfire neanche un centimetro di quella presa mortale. Dovevano averlo legato ad una sedia, realizzò con una punta di rabbia. Le corde ai polsi però erano così serrate che percepiva il sangue defluire, le ossa scricchiolare.

Come avrebbe fatto a far sopravvivere suo figlio se neanche poteva difendersi?

«Suvvia non vorrai farti male» lo rimbeccò Fukushuki, facendo più pressione sulla sua mascella. «Devi stare buono.»

Dominic cacciò un ringhio, un uggiolio dall'esofago, lo stomaco contratto e le dita che raspavano l'aria.
Avrebbe voluto avere qualcosa vicino così da scagliarglielo contro, così da fargli male e vedere quel ghigno che gli ornava le labbra sfumare come un'ombra.

«Lasciami andare, Fukushuki» redarguì, il tono stirato nelle corde vocali. Poi prese un respiro profondo e fece per calmarsi. Il sangue gli fluiva direttamente nel cervello senza passare per altri intrallazzi.

Ebbe un fremito, un brivido che gli attraversò la schiena come un fulmine che squarcia il cielo, una carica di tremila e passa volt iniettata nella giugulare.
Dovette infilarsi le unghie nei palmi e ripetersi di non perdere la calma.

Lui non era così, lui non dava di matto.

«Fukushuki» ripeté, stavolta la voce era un soffio soffice e bollente, il frusciare di un ruscello contro il suo letto fangoso. «Perché non ne parliamo civilmente?».
Alche l'alpha cacciò fuori una risata stonata che più che un verso di felicità pareva un latrato.

Dovette far ricorso a tutta la sua pazienza pur di non iniziare a sbraitargli contro. Era decisamente troppo stanco per lasciarsi sopraffare dai sentimenti senza neanche fermarsi a riflettere.

«C-civilmente?» balbettò Fukushuki tra una risata e l'altra. «Mi hai sfregiato, piccolo stronzo del cazzo.»

Ora che la vista gli aveva riacquisito visibilità, riusciva a guardarlo in faccia. La luce della lampadina elettrica non era granché anche constatato che si trovava di nuovo in una cella fredda e gelida, con le pietre a fare da barriera tra lui e l'esterno.
Il viso di Fukushuki Bakugo ora, non era più tanto perfetto, non dopo che ci aveva affondato dentro le unghie e i denti, non dopo che gli aveva strappato un occhio e cavato gran parte della guancia.

Non sopportava più quel volto tanto simile al suo meraviglioso amore.

Ricordava cos'era successo, anche se i suoi occhi erano iniettati di sangue e le sue dita frementi di rabbia. Aveva assalito Fukushuki, gli aveva infilato le unghie fino a dentro la carne tenera delle guance, gli aveva staccato la pelle come fosse stata una pellicola di plastica.
Non lo aveva fatto per qualcosa di personale, o meglio, non proprio.
Si era detto che lo faceva per suo figlio, ma forse il suo istinto aveva avuto la meglio sulla ragione.

Quando lo avevano riportato in quella casa, le guardie lo avevano stuprato a turno. Dominic aveva patito a bocca chiusa, i denti che gli tagliavano la carne interna delle guance, le dita che affondavano nei palmi morbidi.
Non aveva emesso neppure un latrato, neanche un gemito. Non aveva pregato, non gli si addiceva, non lo avrebbe mai fatto.
Forse, era proprio perché si era lasciato maneggiare come una bambolina di porcellana che Fukushuki lo aveva punito. Lo aveva trascinato dai capelli, chiedendogli ripetutamente dove fosse Izuku, Izuku Midoriya.
Gli aveva infilato un pezzo di stoffa in gola mentre lo colpiva ripetutamente alla gola, il coltellino svizzero gli aveva lesionato la pelle dei polsi, gli aveva inciso le clavicole come fosse stato fatto di carta velina.

Si era lasciato torturare senza emettere un suono. Fukushuki era stato meticoloso nel tagliare la carne, lo aveva inciso come se stesse operando su un busto di plastilina da dover infine ingessare.
Aveva continuato a ripetergli minuto dopo minuto, taglio dopo taglio, dove fosse Izuku.
Non aveva emesso un suono.
Fukushuki lo aveva slegato e lo aveva trascinato a terra, i polsi ancora sanguinanti, il liquido color cremisi si era diffuso lungo le mattonelle di pietra, impregnandole. Dominic lo aveva sentito smanettare con i suoi pantaloni, tirarglieli giù.

All'inizio era stato fermo, poi, aveva visto e capito quello che Fukushuki voleva fargli.
Aveva iniziato a scalciare, lo aveva pregato di non farlo, gli aveva chiesto di non privarlo della dignità.

Fukushuki era scoppiato in quella sua risata crudele, acuta e fastidiosa come il ronzio di una zanzara nelle orecchie. “Perché ce l'hai mai avuta?” gli aveva sibilato in un orecchio, riferendosi al suo passato, al modo in cui lo avevano venduto e posseduto come una bambola di pezza troppo preziosa. Lo avevano infangato e sporcato come fosse stata una tela troppo plateale per essere mostrata in giro.

Gli era scivolata una lacrima e mentre Fukushuki tirava fuori il suo membro, aveva utilizzato i denti e si era scagliato contro quel viso.
Non si era mai sentito così compiaciuto di sé come in quel momento. Lo aveva sfregiato a vita, le unghie sarebbero volute penetrare nel tessuto epidermidiale  e lacerargli i legamenti, strappargli la struttura della mascella, cavargli i bulbi oculari fino a farli diventare delle palline da golf.
Le sue dita erano diventate le principali armi per annientare quel mostro, per estorcere i demoni che gli infestavano gli incubi, per ablurare quel dolore, sciacquarlo e renderlo bianco e setoso, come si fa con i capi sporchi.

Aveva graffiato, aveva ringhiato, aveva morso, dando libero sfogo all'omega dentro di sé, alla mamma che cercava di proteggere il suo cucciolo di leone. Una leonessa.
Gli aveva fatto così male che Fukushuki aveva preso a strillare come un maiale, un abominio simile ad immondizia, con la voce tarchiata dal dolore che gli veniva inflitto e la bava alla bocca come se stesse per spirare. Dominic si era beato della sua paura come se avesse potuto abbeverarsi dopo anni passati con la gola secca.

Quando erano riusciti a tirarlo via, Fukushuki aveva perso i sensi.

Il sangue attorno a loro creava un piccolo laghetto, uno spargersi di colore come se quella fosse tintura o ninfa. Non sangue, veleno che era riuscito a fargli perdere.

Lo avevano sedato con qualcosa, un ago pungente che gli aveva trafitto la pelle all'altezza della giugulare mentre continuava a dimenarsi e scalciare come un animale ferito.
Tutto si era fatto buio, i suoni indistinti, un mischiarsi di sibilii e mormorii, la luce un piccolo e flebile fuocherello che gli scoppiettava nella pancia.

Era soddisfatto della sua opera, di quell'azione goliardica, di quella metodica vivisezione del suo volto come se rovinandogli l'aspetto avrebbe potuto infierire anche sulla sua mente. Voleva distruggerlo, stanarlo così tanto che sarebbe tornato a camminare solo su una sedia a rotelle motorizzata. La pelle era tirata, stretta come se qualcuno la stesse tenendo ferma dietro la sua testa con dei mocchettoni, l'occhio mancante era ricoperto da una benda nera, simile a quelle dei pirati che vedeva nei libri di favole quando era bambino, le labbra lacerate e trapassate da una cicatrice così lunga e spessa da sembrare una lama. Gli aveva persino strappato dei capelli, gliene mancavano alcune ciocche spesse nella parte superiore della fronte, l'attaccatura di quella chioma bionda identica a quella del suo fidanzato, pareva una linea di demarcazione che divideva la zona sana e quella abulia di bellezza.

«E dimmi Dominic, vorresti parlare di cosa, esattamente?» sibilò Fukushuki scandendo ogni sillaba come si fa con dei bambini caparbi. «Cosa vuoi dirmi? Ti sei per caso deciso a dirmi dove cazzo si trova Izuku?»

Dominic sospirò, un respiro stanco e rassegnato, che si infranse direttamente contro il viso
dell'alpha.

Non c'erano guardie all'interno della cella stavolta, solo una miriade di pietre e desolazione, solo solitudine e freddo, un freddo così penetrante che gli strappava il respiro e glielo rificcava nella gola assieme alle briciole del freddo, cristalli che gli graffiavano l'esofago fino a farlo sanguinare. Forse era per quello che sentiva il sapore di sangue in gola.

«Non lo so» disse Dominic, la voce bassa, tiepida come un assaggio di una torta. «Sono scappati, non so dove siano. Forse sono già morti.»

Cercava di depistarlo, ma riuscì solo a farlo indignare ancora di più. Gli prese una manciata di capelli nel pugno, inducendolo a reclinare la testa, incurante del fatto che avrebbe potuto rompersi il collo in quella posizione scomoda. Trattenne un gemito, ingoiando la paura. Non poteva permettersela, non se voleva salvare suo figlio, il figlio di Katsuki e-

La mano di Fukushuki gli premeva contro il ventre, il palmo rivolto al centro, proprio sull'ombelico. Sicuramente avvertiva l'accrescere del suo ventre, la pelle tirata come un palloncino. La salivazione si azzerò, la gola gli si fece secca e arida come un deserto.
L'occhio rosso di Fukushuki lo inchiodava alla sedia senza l'utilizzo delle corde. Lo penetrava e gli scavava nelle ossa, cercava il suo codice genetico tra le cellule che componevano il suo dna.

«Dominic, Dominic» scosse la testa Fukushuki, guardandolo dall'alto, i suoi capelli color grano maturo erano arruffati e stropicciati come un letto sfatto. «Dici tante cazzate. Sei proprio il ragazzo giusto per mio fratello, sai? Katsuki è un alpha fortunato ad avere un bugiardo doppiogiochista come te al suo fianco. Non deve preoccuparsi di mentire, ci sei già tu a farlo!» scoppiò in una risata malefica, le labbra increspate in una smorfia sadonica. «Però, c'è davvero qualcosa che può colpirvi, giusto
La presa sul suo ventre si era fatta violenta, le unghie che scattavano a lesionare l'epidermide come fosse un velo di plastica da rompere, un incarto sotto il quale si poteva trovare il regalo.

Dominic si ritrovò a deglutire, la saliva scarseggiava, il cuore gli galoppava nella gola, l'ansia faceva a calci costretta nel suo stomaco troppo piccolo per contenerne la massa.

«Fukushuki, cosa stai facendo?» redarguì, cercando di far suonare la nota vibrante e troppo acuta che gli aveva lasciato le labbra come un susseguirsi di alterazioni premeditate.

L'alpha sogghignò, i canini bianchi luccicarono alla luce elettrica della lampadina.
Com'era che si respirava in questi casi? Dominic aveva l'impressione di star per soffocare sotto i feromoni che quello stronzo aveva preso a rilasciare nell'aria come fossero stati inibitori per i suoi sensi.

«Lo sai cosa sto facendo, caro il mio Dominic

Gli sembrava troppo calmo, troppo composto, troppo sicuro per essere qualcuno che era stato appena aggredito. Sembrava padrone di sé e delle sue azioni, un perfetto compositore di sinfonie che sa già che andranno tutte vendute, un commerciante che sta per fotterti.

Dominic trattenne il respiro nei polmoni, gli bruciavano le narici, un principio di pianto gli pizzicava gli angoli degli occhi verde giada.

«Fukushuki» lo richiamò, gli occhi fissi nel suo, su quel viso deforme. «Non so dove sia Izuku. Non me ne frega un cazzo di lui, capito?».

Fukushuki sorrise, le labbra arcuate in un ghigno sadonico, qualcosa di strisciante e velenoso come un serpente pronto all'attacco.

«Ti farò uscire questo fottuto bambino dalle orecchie se non mi riveli ciò che voglio, Dominic, puoi scommetterci la tua stessa vita.»

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Izuku osservava la luce inondare la stanza come un'onda di acqua salata. Gli angoli dei mobili vennero illuminati, le ombre si rimpicciolirono, i mostri presero a nascondersi sotto il letto.

Katsuki dormiva con la faccia sprofondata nel suo collo, il suo respiro bollente gli solleticava la pelle sensibile, le sue braccia gli avvolgevano il busto. Teneva il palmo soffermo sul pancino di Shura, le gambe avvinghiate alle sue.

Izuku aveva dormito come un sasso, steso tra le sue braccia e quelle del figlioletto, ma si era risvegliato verso l'alba, tutto sudato e col cuore che batteva così forte che temeva di vederlo scivolare contro il pavimento creando una voragine nel suo petto da un momento all'altro.
Si era ridestato dall'incubo e i colori della stanza lo avevano spaventato così tanto che si era ritrovato costretto a rannicchiarsi a Katsuki e a stringere il suo piccolo a sé, quasi quei due fossero una protezione contro i demoni che lo perseguitavano.

Non era più riuscito a riprendere sonno, Katsuki respirava dolcemente contro il suo corpo, il suo bambino dormiva da poche ore dopo l'ennesima poppata di latte.

Si era messo a rimirare il soffitto, la mente sofferma a pensare a Dominic e al suo sacrificio. Gli aveva permesso di scappare, aveva permesso loro di tornare a casa sani e salvi certo, ma a quale costo? Quale torture Fukushūki gli stava riservando per quel suo gesto?

Non riusciva a darsi pace Izuku, la mente in subbuglio già dalle prime luci del mattino, i pensieri che si rimescolavano come fossero biscotti inzuppati. Gli faceva paura la prospettiva del futuro, non sapeva che immaginare e non se ne abrogava il diritto, non dopo aver strappato la felicità a Dominic e al suo bambino. La promessa che gli aveva fatto gli frullava nella testa come un mantra; "me ne andrò, ti lascerò Katsuki," gli aveva detto, ma allora perché non era in grado di farlo? Perché si era lasciato baciare ed era tornato a respirare solo quando Katsuki gli aveva respirato contro?

Non riusciva a trovare una risposta.

Dopo qualche ora, si era girato mettendosi ad osservare il volto rilassato di Katsuki. Pareva un cucciolo mentre dormiva, uno di quei pupazzetti sorridenti che si regalano ai bambini per farli contenti.
Aveva la fronte liscia come un pezzo di marmo, le guance arrossate come tulipani e le labbra schiuse da cui traspariva il suo respiro bollente, la vita fluiva in Katsuki che  la condivideva con lui, stringendolo come fosse stata una coperta in grado di proteggerlo da qualunque intemperia.

Quasi senza neppure accorgersene aveva preso a tracciare con i polpastrelli le linee che tratteggiavano la forma del volto dell'alpha, la curva della sua mascella, il segmento retto che delineava le sue sopracciglia bionde, il naso all'insu, le labbra con l'arco di cupido esposto come una caramella. Pareva fatto di bronzo, liscio e perfetto come un adone, una divinità fatta di respiro e carne.

Era arrivato a sfiorargli la guancia quando lo sentì bonfocchiare, prendendo a stringergli la vita con maggior vigore.

«Izuku...»

Aveva aggrottato la fronte, sorpreso. La mano si era fermata istintivamente, la bocca schiusa incredulo.

«Da quanto sei sveglio?» mormorò l'omega, assottigliando lo sguardo. Era avvampato sino alla punta delle orecchie nell'essere beccato a fissarlo e giocare con il suo viso come si fa con le ceramiche o con i bambini.

«Da abbastanza per sentirti sussultare ad ogni respiro» rivelò il biondo mozzandogli il respiro in gola. Aveva schiuso le palpebre, le sue iridi color amaranto puro parevano fatte di vetro tanto era perfette, rubino intagliato e racchiuso in quelle biglie. «Hai fatto un incubo?».

Izuku sentì il cuore balzare nel petto come se un aereo gli si fosse schiantato addosso all'improvviso. Si irrigidì, il corpo che si immobilizzava contro quello dell'alpha.

«Ohi.»
La mano di Katsuki era scattata a prendere la sua, intrecciando le loro dita in una morsa simile all'acciaio. Il cuore gli ruggì nel petto a quel tocco.

«Non è un fottuto problema. Sono solo...merda...» sospirò, gli occhi soffermi sulle ciglia di Izuku calate verso il basso «volevo solo, sapere come stai.»

«Kacchan...»

Katsuki chiuse gli occhi nel percepire quel nome, l'omega lo osservò con un cipiglio curioso a rimodellargli i tratti.

«Ti sognavo tutte le notti» svelò Bakugo, il respiro tremulo si infranse contro le labbra rosate dell'altro. «Sognavo che piangevi, che stavi male, che...quel pezzo di merda, ti ha fatto qualcosa? Ti ha fatto del male?»

Gli portò una mano sul torace all'altezza del cuore, i polpastrelli morbidi sfiorarono la stoffa stropicciata dal sonno. Riportò gli occhi nei suoi, fermando il respiro come a voler intagliare quel momento con una fotocamera immaginaria.

«Non mi ha fatto nulla, sto bene» redarguì il tono sciorinato come burro fuso. «Però...Dominic...»

Quel nome pareva un tabù, il solo nominarlo fece irrigidire l'aria come se qualcuno l'avesse stretti assieme alla stanza in una busta di plastica.
Non riuscì a sostenere il suo sguardo, chinò il capo, volgendolo altrove. Non riusciva a parlare di Dominic senza sentire il solito nodo intorpidirgli la gola.

«Izuku» gli prese il mento, riportandolo il viso accanto al suo, i suoi occhi rossi riuscivano a fargli sciogliere il cuore come fosse stato di cioccolato. «Va tutto bene, me lo riprenderò, ce lo riprenderemo

Izuku sbarrò gli occhi; ce lo riprenderemo? Doveva tornare lì? Si sentì improvvisamente un codardo, un vigliacco.

«Ho paura» sussurrò piano, la gola che gli si stringeva attorno alle parole come fosse stata una puntura.

Katsuki lo scrutava con un cipiglio confuso a intorpidirgli i muscoli facciali. Il sonno era ancora evidente su quei tratti felini, solitamente sempre contratti.

«Di cosa?» domandò l'alpha, accarezzandogli il fianco con il pollice.

Izuku sospirò, si volse a pancia in su, osservando il soffitto color panna. Non ce la faceva proprio a sostenere la gioia negli occhi di Katsuki, gli pareva una bestemmia nei confronti di Dominic, del ragazzo che gli aveva permesso di scappare e liberarsi da quella prigionia simile all'inferno stesso.

«Ho paura di tornare lì» rivelò, sentendosi vigliacco e viscido come un verme. «Ho paura di rivedere quell'uomo, di morire, di non farcela, di abbandonare mio figlio ed esporlo a tutte le intemperie di questo mondo crudele.»

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L'arrosto di patate sapeva di cemento.

Izuku lo masticava da una manciata di minuti, ma nonostante tutto gli pareva sempre fatto di acciaio. C'era qualcosa nella carne forse, o nelle sue gengive poiché anche solo provare a schiacciarlo pareva una congiura. Non riusciva a deglutirlo né a sputarlo.
Gli bruciavano i muscoli dove gli avevano inserito i punti e aveva poche forze ma Katsuki aveva insistito affinché mangiasse almeno qualcosa in salotto con loro.

La nuova casa era un labirinto di camere. Poggiava sul terreno montagnoso, in un rettangolo lunghissimo e spesso.
Izuku si era perso un'infinità di volte mentre provava a raggiungere la sua stanza; ce n'erano così tante! Ogni volta, - da quando aprendo una porta ci aveva trovato dentro un imbarazzato Denki mezzo nudo – da allora bussava per essere certo che non ci fosse nessuno e di indovinare la sua camera. Il suo bambino restava accanto a lui per tutto il giorno, anche ora mentre mangiavano nel soggiorno largo come una scatola di scarpe legnosa, Shura dormiva nel passeggino a tinta unita.

«Non ti piace, Izuku? Vuoi che ti prepari una minestra, magari più digeribile?» gli chiese Uriel, gentilmente. I suoi occhi azzurro lapislazzuli lo squadravano dalla parte opposta del tavolo. La mano che reggeva la sua forchetta era sospesa a mezz'aria come se neanche a lui piacesse così tanto quel cibo.

Izuku sollevò il viso, abbozzò un sorriso.

«No, è buono. Va bene così, grazie Uriel.»

Il ragazzo annuì, non pienamente convinto. Stranamente nessuno lo aveva trattato con compassione come invece facevano quando era appena arrivato e la cosa lo tranquillizzava da una parte, mentre dall'altra lo innervosiva. Non capire cosa stava per accadere lo rendeva irrequieto.

«Pensavo che saremo potuti andare nella zona per dare un'occhiata e vedere come organizzarci» redarguì Katsuki, guardando Kirishima che gli sedeva di fronte a qualche posto di distanza.

«Quale zona?» intervenne Mina. Sedeva lontana da suo marito, lo sguardo torvo sospeso sul suo piatto si inarcò quando sentì Katsuki parlare. Le occhiaie sotto i suoi occhi parevano, se possibile, ancora più violacee e profonde come scavi dentro il carbone. Cerchi rosso vermiglio gli affossavano la forma obliqua degli occhi, un rossore intenso come se avesse passato l'intera notte a piangere.

«Come dove?» Katsuki corrugò un sopracciglio portandolo verso l'alto. «Ovviamente a casa di quel bastardo.»

A quelle parole, tutti i presenti al tavolo ammutolirono. L'intera stanza pareva una silente spettatrice di quello che stava per avvenire. Izuku posò la forchetta che cadde con un tintinnio contro la ceramica fragile del piatto. Il suo sguardo si alternò tra l'alpha biondo e la sua amica.

«Cosa vuol dire questo? Noi non possiamo più stare a questo gioco, Katsuki. Lo capisci o no?!».
La voce di lei pareva un ringhio, un soffiare accusatorio dettato direttamente dall'odio che le scorreva dentro assieme al sangue. Pronunciò il nome di lui come se fosse un'accusa.
Era frustata e cercava di scaricare il peso di ciò che provava su Katsuki.

Il biondo però non ci stava. Lasciò cadere la sua forchetta e alzò gli occhi rossi sulla ragazza.

«Che cazzo stai dicendo?» tuonò, l'espressione contratta del suo viso pareva una maschera sul punto di creparsi. «Lì c'è il mio ragazzo» gli ricordò.

Mina roteò gli occhi al cielo, una risata roca sbeffeggiativa che fece increspare l'aria tutt'intorno. L'alpha maschio le gettò un'occhiataccia.

«I-il tuo ragazzo?» ridacchiò la giovane alpha, qualcosa di aggressivo nello sguardo. I suoi occhi color ocra erano simili a laghi di fiele «ma non dire cazzate, Bakugo. Non lo hai calcolato, per te è esistito sempre e solo il tuo maledetto Izuku.»

Il pugno di Katsuki si scontrò contro il legno del tavolo che traballò sotto la forza dell'impatto. La tovaglia che ricopriva la superficie si increspò. Gli occhi color cremisi di Bakugo si fecero più assottigliati, fessure simili alle spire di un serpente pronto ad attaccare.

«Kacchan...»
La mano di Izuku si era avvolta contro il suo polso, bloccandogli i movimenti. Gli sedeva accanto, il timbro era come un sospiro lento e gracile. Non voleva farli litigare, non voleva che la situazione degenerasse, ma ormai la miccia era innescata.

«Che cazzo vuoi dire, Mina?» la riprese Katsuki, la mano ancora tenuta ferma da quella dell'omega. Mina spostò altrove lo sguardo, un'espressione disgustata gli inasprì i tratti del viso.

«Hai capito benissimo. Intendo esattamente quello che ho detto, da quando Izuku è qui noi altri non facciamo che soffrire. I miei bambini soffrono, io soffro, gli altri soffrono. Non facciamo che essere rapiti, violentati, picchiati e maltrattati per salvare il suo culo, per garantire la vostra felicità come se voi due la meritaste più di chiunque altro. Abbiamo attraversato tredici linee temporali, Katsuki, tredici fottutissime linee temporali! Pensi che sia facile per noi? Pensi che io sia felice di cambiare vita ogni due per tre?!».
Pareva che stesse sputando fuori tutto ciò che gli raschiava l'animo, un odio profondo e radicato, un acido che gli corrodeva le vene e che non aveva nulla a che fare con il suo quirk.

«Salvare il culo a lui? Ingrata del cazzo!» Katsuki era un furia, un vero e proprio uragano, con la lingua tagliente e i filtri eliminati. «Ti sei forse scordata quante fottute volte io ho salvato il tuo di culo? Il tuo e quello di tuo marito e di tutti voi ingrati, stronzi del cazzo. Cosa pensavate che fosse questa? Una piccola scampagnata? Un mondo felice con cuoricini e abbracci stampati dappertutto?!Ti senti quando parli, Mina? Hah?».

Mina si era fatta tutta rossa, le guance e il naso paonazzo come un pomodoro. Gonfiò le guance e fece per ribattere, ma fu Izuku ad intervenire. Non avrebbe lasciato che quelle persone patissero per lui, avrebbe salvato il suo bambino da solo.

«Basta, per favore. Basta di litigare, di stare a muso basso, d-di...» trasse un respiro profondo cercando di svuotare i polmoni di quel tremore che gli si era conficcato nelle vene come un virus. «Di farvi del male. Non ce n'è bisogno, se do fastidio me ne vado. Vi chiedo solo qualche giorno per...»

«Ma di che cazzo stai parlando?»
Il viso di Katsuki era una vera e propria maschera di confusione, sembrava non capire affatto come se improvvisamente tutto si fosse complicato e intrecciato, come se avesse dinanzi un enigma troppo difficoltoso e non un volto.

L'omega chinò la testa.
Avrebbe voluto dire ciò che pensava, dire a Katsuki della promessa che aveva fatto a Dominic, parlargli di come si sentiva, del groviglio che aveva nella gola che si diramava come uno sciame d'api fino allo stomaco, ma non riusciva ad aprire la bocca.

«Izuku, che cazzo vuoi dire? Andartene? Dove cazzo vuoi andare?» sibilò Katsuki con la voce ridotta ad un soffio, come a volersi far sentire solo da lui. Si era voltato e lo guardava come se fosse un derelitto.

«I-io...» continuava a tenere gli occhi verso il pavimento, i riccioli gli offuscavano la fronte, nascondendogli il viso. Gli sembrava di non riuscire a respirare, non riusciva neanche a rendersi conto di ciò che avveniva. Stare in quella stanza con tutti gli occhi puntati addosso, i respiri che si frammentavano e l'ansia che gli cresceva nello stomaco come un organismo monozigote.
«Izuku, sto parlando con te! Dove vuoi andare? Non avevi detto che volevi restare e che-»

«Lascialo stare.»

Lucien era scattato in avanti, lo sguardo alto come a voler fronteggiare Katsuki, neppure una briciola di paura in quelle iridi smeraldine, identiche a quelle verde giada del fratello.
Teneva la testa sollevata, il mento in fuori.

Katsuki, così come Izuku si era volto a guardarlo. Le loro espressioni sbigottite non turbarono la sicurezza di Lucien.

«È stanco e sta male. Chiudi quella fottuta bocca e lascia in pace mio fratello» spiattellò con rabbia, aguzzando la vista nella sua traiettoria.

«Non fa niente, Lucien» biascicò Izuku. «Voglio solo...vado di sopra, scusate.»

Imboccò il corridoio e prese a camminare rapidamente, la carrozzina stretta tra le dita ghiacciate. Ebbe l'impulso di rimettere, un rigurgito che gli salì lungo l'esofago e gli mozzò il fiato. Quella sensazione lo travolse come un'onda, percepì di affogare sotto il peso di quella tempesta.
Mollò la presa alla barra del passeggino e corse in direzione del bagno.

Fece appena in tempo a raggiungere il water, la gola gli fu travolta dai singhiozzi mentre gli pareva di soffocare sotto il peso di quei singulti. Si aggrappò alla ceramica del wc, le dita che sbiancavano sotto la forza del suo peso.

La testa gli vorticava come se avesse un mattone stretto nello stomaco, acido citrico che gli arroventava l'esofago come un ferro infiammato. Si ritrovò ad impallidire, il corpo smosso dai singulti al petto.

«'Zuku.»

La sonorità della sua voce gli pareva come un'ancora in mezzo alle onde che cercavano di portarlo via. I sensi lo stavano abbandonando, gli si erano amplificati dentro come se fossero sul punto di esplodere.

«Kacchan...mi dispiace, Kacchan» sussurrò tra i gemiti, un uggiolio silente e soffocato come un soffio.

«Ssh, ci sono io. Ci sono io, qui.»

Si lasciò cadere contro il suo petto, le braccia che lo sorreggevano come fossero una stampella alla quale aggrapparsi, come se il suo corpo fosse un abito smesso.

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«Stai bene?».

Aizawa si era richiuso la porta alle spalle, poggiandoci sopra i palmi. Lucien era lì, le braccia incrociate al petto gli dava le spalle. Teneva lo sguardo fisso sulla finestra come se stesse scrutando qualcosa di estremamente importante.

La presenza di Aizawa non lo aveva fatto sussultare. Shota lo osservò, muovendosi nella stanza lentamente, il suo passo felpato era come un frusciare di piume. Gli piaceva il fatto che Lucien non avesse remore a mostrarsi più forte anche se era un omega. Lo aveva ammirato dal primo momento, lo aveva studiato sospeso sui balconi dei terrazzi, nel buio delle stradine dove passava ogni sera, nelle giornate piovose e in quelle luminose. Lucien non somigliava a nessuno degli omega e delle omega con i quali era stato, era un caso a parte, un'incognita senza un valore preciso.

«Si, sto bene.»

Non sembrava adirato, ma qualcosa in quel raspare di parole gli ricordò il ruggito di un leone ferito, un mostro che gli scalpitava dentro non sapendo bene dove trovare la via d'uscita.

«Che succede, piccolo?» chiese il corvino, raggiungendolo. Gli cinse il busto con le braccia muscolose, il suo calore gli riempì il cuore. «Sei tutto teso.»

Gli aveva soffiato contro l'orecchio, il respiro rovente e le labbra simili a pozze d'acqua bollente.
Lucien gli prese la mano, avvolgendo le dita alle sue. I suoi polpastrelli piccoli gli solleticarono l'epidermide.

«Shota...» sussurrò, lasciandosi scivolare contro il petto del suo amante. «Come faremo?».
Il suo tono aveva un non so che di doloroso, straziante e malinconico come chi sa già che soffrirà.

Il corvino affondò il naso tra i suoi capelli scuri, le dita che rafforzavano la presa. Gli era mancato così tanto quel ragazzo, temeva di averlo perso per sempre ma ora era lì. Era lì tra le sue braccia, stretto al suo petto, col suo cuore che batteva come un tamburo.

«Un modo lo troveremo, Cici» biascicò, il tono calmo come cannella. «Katsuki troverà un piano, salverà tutti e-»

Lucien aveva volto lo sguardo all'insu, i suoi occhi verde giada inchiodati nei suoi come picchetti.
«E chi salverà lui?» redarguì.

Aizawa sospirò, le braccia presero a rafforzare l'abbraccio tra di loro. Aveva bisogno di sentirlo, di sfiorarlo, di respirare il suo odore.

“Non possiamo pensarci dopo?” sospirò contro il suo collo. Le sue labbra presero a lasciare una striscia di umidi baci sulla pelle. Lucien gli affondò le dita della mano libera contro i ciuffi dei suoi capelli. Reclinò la testa, scoprendo la gola si lasciò assaggiare come fosse stato un pasticcino.

«Si, possiamo pensarci più tardi» sentenziò, lasciandosi sfuggire un gemito.

Aizawa sorrise, gli pose le mani sui fianchi facendolo voltare verso di sé, prese a baciarlo con vigore. Le labbra che si rincorrevano e mangiavano come fossero stati tiepidi sfarfallii di ali.
L'omega gli cinse il collo con le braccia e se lo strinse contro.

«Fammi scordare un po' del mondo» lo pregò, afferrandogli il labbro inferiore con gli incisivi. Lo succhiò un po' nella sua bocca, nutrendosi del suo sapore.

Aizawa sogghignò, lo prese dalle cosce e se lo trascinò in braccio.

Più tardi, mentre Aizawa accarezzava i suoi capelli, Lucien pensava a cosa sarebbe stato della notizia che intendeva dargli. Non osava immaginare una sua reazione, non sapeva cosa aspettarsi né se avrebbe dovuto mostrarsi felice o meno. Aizawa era sempre stato un uomo tutt'un pezzo, perciò faticava ad immaginarlo sprizzava gioia per una comunicazione del genere. Stette in silenzio per un po', godendosi quei tocchi dolci e appassionati.

Dopo il sesso, Aizawa giocava sempre con i suoi capelli, con le sue dita, gli baciava la fronte o la punta del naso e spesso se era di buon umore tornava a baciarlo suadentemente finché il sonno non aveva la meglio sui loro corpi stanchi ed entrambi finivano per chiudere gli occhi, addormentandosi così, con le labbra appiccicate e il respiro mescolato.

Lucien si sentiva al sicuro quando era con lui, si sentiva stranamente caldo e felice, non aveva neppure bisogno di usare il suo quirk. La malattia di Aizawa però lo faceva stare ancora male, vedere la cicatrice che la ferita gli aveva lasciato sull'addome gli aveva fatto venire le lacrime agli occhi. Era stato Shota a prendergli la mano e portandosela alla bocca l'aveva baciata con le sue labbra soffici, la leggera peluria presente sul suo viso gli aveva solleticato il dorso.

Non riusciva a lasciarsi alle spalle i mostri che avevano reso la loro storia un'altalena di paure e gioie. Aizawa era radicato nella sua anima, era presente nel suo sangue, era le cellule del suo respiro. Ossigeno e azono, acqua e sangue, ne aveva bisogno. Bisognava di averlo accanto, di amarlo ed essere amato, ma temeva di chiedere troppo. Lui era stato molto chiaro, non voleva relazioni e nonostante l'idea di poter cadere nel solito cliché lo facesse letteralmente diventare pazzo, aveva comunque voluto provare.

Soprattutto perché Shota Aizawa era stato il primo uomo a non avergli fatto del male per avere il suo corpo.

Per lui la differenza di età non era mai stata neppure un pensiero, era un numero, una realtà astratta. Poco gli importava di quelli che avrebbero potuto puntare il dito e giudicare; non era tipo da farsi mettere i piedi in testa e mai lo sarebbe stato. A sua discolpa, lo era stato da bambino, quando non era altro che un corpo in cui svuotarsi.

«A che pensi, amore mio?» gli aveva chiesto Shota, depositando un bacio sui suoi capelli lisci come seta fatta di inchiostro. Lucien emise un piccolo uggiolio compiaciuto.

«Nulla. Ti amo, lo sai» ammise per la prima volta. Aizawa sgranò gli occhi, spostò lo sguardo su di lui, scrutandolo come se avesse appena detto una bestemmia gravissima.

«Lo so, che non te l'ho mai detto, ma...» abbassò gli occhi Lucien, guardando l'ammasso di coperte ai loro piedi, le sue gambe nude incastrate a quelle dell'alpha parevano dune di sabbia. «Pensavo che tu lo sapessi, non ho mai avuto nessun altro se non te.»

Aizawa di tutta risposta gli fece scivolare una mano sotto il collo e prese a baciarlo. Le labbra che si scontravano e azzuffavano come due panda. Lucien sorrise e sospirò, sciogliendosi come neve tra le sue braccia bollenti.

Quando si staccarono per riprendere fiato, l'alpha aveva gli occhi impregnati di una lussuria che non aveva mai conosciuto prima di allora. C'era qualcosa di tenero nel modo in cui gli sorrideva, come se avesse voluto proteggerlo.

«Ti amo anch'io, Lucien.»

Sentirglielo ammettere gli fece ruzzolare il cuore nello stomaco. Deglutì, la bocca secca e la saliva azzerata. Ricambiò quella morbida curva della bocca, saggiando la pelle della sua guancia con i suoi polpastrelli. Chiuse gli occhi, le parole che doveva dirgli erano incastrate come un cibo nella sua laringe, rischiando di farlo soffocare.

Ah, e sono incinto di tuo figlio.

🦋

Izuku teneva il suo bambino tra le braccia.

Katsuki si era addormentato sul suo letto poco prima. Dopo aver rimesso tutto ciò che aveva ingerito, l'alpha lo aveva portato in camera portando con loro anche il piccolo Shura.
Era crollato sul letto dopo un po' che si lamentava e sfogava riguardo quello accaduto a cena. Izuku lo aveva ascoltato e lo aveva rassicurato, gli aveva accarezzato la fronte e baciato la punta del naso finché non aveva chiuso gli occhi.

Lo aveva cullato e vegliato durante il suo sonno, lo aveva baciato ancora un pochino e poi si era messo a sedere. Era rimasto ad osservare il soffitto finché il pianto di Shura non aveva spezzato il sienzio sospeso nell'aria. Lo aveva raggiunto e preso in braccio, il cuore gli batteva forte.

Era ancora molto debole, ma non voleva svegliare Katsuki. Da quando era tornato lui, l'alpha sembrava distrutto e perennemente insonne come se il solo pensiero di abbassare la guardia lo facesse tremare.

Aveva guardato il visino morbido del suo bambino, aveva giocato con il suo nasino poggiandoci su piccoli baci velati, aveva cercato somiglianze in quelle linee soffici e ancora efebiche. Era molto più uguale a Matthew, il suo amore, che a lui. A partire da quelle guanciotte piene e paffute, alle curve sottili del nasino con le piccole lentiggini sparse qua e là – quelle le aveva ereditate da lui – e la fronte liscia come un guanto di seta. Gli occhietti sempre chiusi, quando li schiudeva sembravano piccole pozze scure. Il colore gli aveva detto Uriel, si saprà più in .

Era curioso di scoprirlo, ma lo avrebbe adorato e amato comunque in ogni caso, anche se avesse avuto gli occhi completamente bianchi.

Il piccolo emetteva deboli sospiri, inducendo Izuku a chiedersi se Dominic avesse trovato conforto nel prendersi cura del suo bambino o se lo avesse odiato considerandolo il bambino dell'omega che gli aveva strappato via l'uomo che amava.

Gli fece scorrere il pollice sulle labbra piccine, guardandolo con amore, lo sguardo carico di gioia. Quello era il bambino di Matthew, la creatura che lo aveva spronato a cercare la libertà e che lo aveva salvato dai suoi stessi demoni.

Un'ondata di amore puro e forte come una scarica d'acqua lo travolse. Cos'era quella sensazione? Percepì la terra tremare sotto i piedi, la vista farsi appannata. Che stava succedendo? Si guardò attorno come se aspettasse di essere aggredito da un momento all'altro.

Non era più in camera.

La stanza in penombra pareva fatta di dolore. Le urla dell'omega risuonavano tra le pareti come corde male accordate. Un “do” raschiato nell'aria che rimbombava come un acuto.

Era piegato in due dal dolore, le braccia avvolte allo stomaco, i denti stretti tra loro. Sembrava che lo stessero tagliando a metà con una motosega motorizzata. Gli sembrava che qualcuno gli avesse strappato il fiato dai polmoni con un'agocannulla e glielo avesse gettato nelle vene. Stava per scoppiare, il dolore che lo accartocciava come un foglio di carta straccia.

«Fukushuki...b-basta» mugolò il ragazzo, il timbro tremante della sua voce era fragile come un vetro sul punto di frantumarsi.

L'alpha, una figura imponente e spessa, le spalle larghe e un ghigno orrendo a sfregiargli le labbra trapassate da una spessa linea cicatrizzata. Lo guardava dall'alto, le braccia incrociate al petto, i bicipiti premevano per spaccare la stoffa del completo gessato che indossava.
La giacca era gettata in un angolo della stanza, la camicia bianca era arrotolata sugli avambracci che lasciava scoperti.

Lo riconobbe come fosse stato colpito da una scarica di elettricità. La luce elettrica della stanza gli rendeva i tratti ancora più rovinati, la faccia ridotta ad un abominio, una benda nera che gli fasciava l'occhio sinistro come quelle dei pirati nei racconti di favole.

«Devi dirmelo, capisci? Sennò il tuo bel bambino...» fece un gesto con la mano, le dita che si muovevano in direzione del collo mimando l'atto di uccidere, la lingua che saettava di fuori come quella di un morto.

Dominic, sdraiato contro il pavimento di pietra sibilò.

«N-non lo so...» mugolò, le lacrime gli macchiavano gli angoli degli occhi, ma imperterrito non le lasciava cadere, trattenendole con la sola forza della volontà.

Izuku provò a raggiungerlo, aiutarlo a rialzarsi, ma le sue mani erano fatte d'aria. Parevano uno di quei fantasmi con i quali il Signor Garaki lo terrorizzava da bambino.

«Si che lo sai» sibilò Fukushuki Bakugo, lo sguardo sadico di chi sa già cosa sta per accadere. Dominic cacciò un lamento, si teneva la pancia come se stesse per morire o per...

«Dai, sei ancora in tempo per l'antidoto, cognatino...»

Izuku tremò, fu scosso dallo stesso tremito che avvolse Dominic, che lo indusse a reclinare gli occhi all'indietro, i denti serrati a trattenere le urla. Izuku stesso percepiva quel dolore che gli attorcigliava le ossa come se lo stessero riempiendo di adamantio. Si sentiva squartare come se lo stessero svuotando delle interiora.

«Perderai il tuo piccolo Bakugo, caro. Lo sai Dominic, Katsuki non ti vorrà mai più se perdi questo ragazzino...» il tono lento e soffiato come se stesse svelando una grande verità.

«Fukushuki, Katsuki ti ucciderà, ti farà a pezzi e-»

Un calcio dritto nello stomaco. Dominic spalancò la bocca, un urlo sordo gli afflisse l'espressione, si sentì strappare la vita dalle mani. Izuku avrebbe voluto prendere parte a quel massacro, interporsi, prendere lui quei calci, ma nulla. Non poteva fare nulla, doveva solo sottostare a quella violenza inaudita, un muto spettatore.

«Dimmelo, dimmelo o ti ammazzo.» Fukushuki aveva preso a strillare come un matto, ormai era diventato chiaro, sia dal modo in cui sputacchiava la bava colto dai fremiti della rabbia al modo in cui inarcava la testa di lato, la gamba pronta a caricare l'ennesimo colpo.

Izuku strizzò gli occhi, non voleva vedere ancora quel dolore, sentire quel male.

«H-hell Green, 3310.»

La voce di Dominic era stata un sussurro fugace e rapido, lapidario a cercare di sventrare quella morte che non gli apparteneva e che come un'avara provava a portarlo via.

Con un brivido Izuku riaprì gli occhi.

Aveva capito, quelle tre parole, quel numero. Non riusciva a respirare. Si lasciò trascinare via da quel mondo, staccò la mano dal viso del suo bambino.

Era di nuovo in camera. I suoi occhi si erano schiusi, i colori fiacchi delle pareti gli riempirono le pupille. Doveva aver urlato anche lui perché le mani di Katsuki lo tenevano in piedi, il suo sguardo spaventato parlò per lui.

Izuku deglutì, il sudore gli appiccicava i capelli alla fronte come strisce di setole. Respirò affannosamente.

«Sanno tutto, Kacchan. Stanno arrivando.»

🦋

Spazio autrice❤️‍🩹:
Stavolta sono stata super puntale, eh! Ecco il capitolo e stranamente a distanza di due giorni dall'altro haha.

Ecco non merito un premio? Scherzo, scherzo! Siamo quasi alla fine e ho la malsana idea di far accadere qualcosa...non vi sembrano troppo felici?🙄

Comunque, come vi è sembrato il capitolo? Vi è piaciuto? Cosa pensate di ciò che sta accadendo?
Che ve ne sembra di Aizawa e Lucien? E del segreto che Lucien non gli ha rivelato?
E poi Izuku e Katsuki! Litigano e fanno pace e le tensioni fra gli altri si amplificano sempre più visto anche il modo precario in cui sono costretti a vivere...

Avete capito a cosa sono dovuti i flashback o le realtà che Izuku è in grado di vedere? L'indizio ovviamente è di notare bene i dettagli!

Bene, tutti i nodi stanno venendo al pettine e col prossimo capitolo si chiariranno ancora più cose!
Molto presto arriverà la battigia, armatevi anche voi perché sarà dura!

Alla prossima miei cari lettori/lettrici❤️

Lilla

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