32. Triangoli e ferite

*Indovinate chi è quello nell'immagine di sopra ;)*

«Dov'è Dominic?»

Aveva iniziato a piovere. Izuku sentì una gocciolina d'acqua bagnargli la punta del naso. Come avrebbe potuto spiegargli che Dominic si era sacrificato per farlo tornare a casa sano e salvo? Che lo aveva fatto solo ed esclusivamente per ciò che Katsuki provava per Izuku?

Deglutì. I suoi occhi ora erano puntati sul terreno spoglio sotto le suole delle sue vecchie converse rovinate.
Gliele aveva prestate Mina quelle scarpe.
La stessa Mina con la quale aveva avuto in precedenza una specie di "litigio".

Che disastro stava facendo? Lui era uno scarto, lui non meritava affatto di stare lì, non meritava di stare accanto a Katsuki, non meritava di vivere un posto come quello. Non meritava nulla. Improvvisamente, si sentì di troppo. Ogni ansia, ogni paura, ogni timore sembrò concretizzarsi nella sua mente, plasmarsi e farsi d'acciaio, assumere la forma di un gigantesco omone, con un ghigno malefico sulle labbra e la unghie affilate attaccate alle dita.

«Katsuki, ma chi è?»

A interrompere quel rimiscuglio di pensieri masochistici, ci aveva pensato quella voce. Izuku, - come gli altri alle sue spalle - sollevò lo sguardo. Davanti a sé, una figura imponente e nerboruta si faceva spazio verso la porta. Intravide i suoi occhi spalancarsi, le due iridi color amaranto farsi vitree. Lo vide aggrapparsi allo stipite della porta, le dita tozze e spesse, tremanti. La felpa aranciata che indossava gli stava grande, il suo viso pareva più pallido e stanco di quanto lo ricordasse.

Si fece istintivamente da parte, permettendo a Mina di avvicinarsi alla porta aperta.

Izuku osservò Kirishima Eijirou avanzare alcuni passi in avanti, le suole delle sue scarpe nere sporche di fango entrare a contatto con l'erba sottile. Percepì lo spostamento d'aria che susseguì quel camminare in avanti. Immaginò che probabilmente avrebbe baciato e abbracciato sua moglie, perciò provò a distogliere lo sguardo, lasciandogli la loro privacy, ma le sue iridi verdi si intensificarono, le palpebre s'inarcarono verso l'alto, sorprese. Schiuse le labbra rosse, guardando scioccato Kirishima Eijirou stringere a sé Denki Kaminari.

Mina stessa era rimasta a bocca aperta, le mani ancora sospese a mezz'aria, incredula. Izuku si rese conto che tutti stavano trattenendo il respiro, perfino Katsuki sembrava interdetto, con le dita serrate contro lo stipite della porta e le labbra strette tra di loro.

Perché aveva abbracciato Denki? Izuku non capiva. Aveva una moglie, perché avrebbe dovuto volete abbracciare un omega che- Oh!

Sgranò gli occhi, sospeso tra la ragione e il cuore. Poteva davvero essere? I suoi feromoni, quell'odore dolce più del miele, il modo in cui Denki si era protetto il ventre per tutto il viaggio, il suo essere costantemente allerta, persino l'essere riuscito a sopravvivere al rapimento, allo sparo...Denki aspettava un cucciolo? Era per questo che Kirishima gli era corso incontro, rispondendo ai suoi feromoni e liberando i suoi in risposta?

Non capì. Guardò interrogativo Katsuki. L'alpha biondo gli cinse il polso con le dita e lo tirò a sé con foga. Izuku restò sorpreso da quel gesto, ma non si oppose. Lo strinse al suo petto, rilasciando un po' del suo profumo alla nitroglicerina e all'arancia. Il lieve sentore di muschio risuonò nell'aria come un avvertimento. Poi, Kirishima ringhiò.

Mina lo osservava a occhi schiusi, le labbra contratte, la fronte corrugata, un'espressione perplessa, come quella che alleggiava sui volti di tutti.

Anche Ash aveva allontanato Lucien e lo teneva contro di sé. Uriel si era fatto più indietro, osservando la scena con un cipiglio timoroso stampato sul viso giovane.

«Ma che cazzo fai?» sbraitò Mina, la voce stranamente ridotta ad un soffio, forse per l'incredulità e la sorpresa che l'azione del marito gli aveva suscitato. Avanzò verso l'altro alpha, ma Kirishima la respinse con un altro ringhio gutturale, tenendo a sé Denki. I loro occhi si erano scuriti, simili alla tonalità delle ombre che si impossessavano dei loro colori vivaci.

«Stai lontana» sibilò Eijirou, scoprendo i canini affilati.

Mina sbiancò, la pelle del suo viso visibilmente sorpreso, parve incrinarsi sotto il peso della realizzazione. Kirishima teneva una mano sul ventre di Denki, lo teneva contro di sé e i suoi feromoni possessivi liberati nell'aria circostante, non sembravano lasciare dubbi.

Izuku non aveva compreso appieno, tuttavia, Katsuki non lo lasciava andare; anche la sua presa era possessiva.

«Che succede?» gli chiese in un sussurro. Katsuki schioccò la lingua tesa contro il palato.

«Stai qui, Izuku.»
Sentirgli dire il suo nome gli fece saltare un paio di battiti. Lo aveva chiamato col suo nome e non come Izuku stesso gli aveva chiesto di chiamarlo però, non gli dava fastidio come in passato. Fukushūki poteva pure somigliare a Katsuki, ma non sarebbe mai stato come lui. Izuku dubitava che in tutto l'universo ci fosse qualcuno simile a Katsuki Bakugo.

Mina anche aveva scoperto i canini, osservando Denki con una rabbia cieca negli occhi. Le sue unghie si erano fatte più affilate, il suo viso più contratto.
Sembrava pronta ad assalire l'omega che gli aveva portato via suo marito. Uriel provò ad allontanarla, ma tutto ciò che ottenne fu un lungo graffio sulla guancia.
Mina non pareva neppure in sé, la sua natura alpha doveva aver preso il sopravvento.

«Tu! Stronzo! Traditore!» sibilò scoprendo di più i canini, il corpo proteso in avanti come fosse in posizione di attacco.

Denki uggiolò, un verso rauco e competivo. Le sue unghie affondarono nella stoffa che copriva i pettorali di Kirishima e la sgualciò con le punte affilate, per poi graffiare direttamente la sua pelle. A quel gesto, l'alpha dai capelli rossi serrò la presa che aveva sulla sua vita, tenendolo fermo a sé.

«Maledetto! Lui è mio!» strillò Mina e partì contro di loro. Kirishima fece da scudo all'omega. La ragazza dai capelli rosa aveva iniziato a graffiargli le braccia, provando a raggiungere Denki. Sbuffava dalle narici e ringhiava gemiti gutturali, le guance completamente arrossate e le pupille dilatate.

«Mamma

Poi, improvvisamente si fermò. Nathan e Carlotta erano fermi sulla porta, accanto alle gambe di Katsuki. I due bambini guardavano la madre, le manine strette tra di loro, gli occhi spalancanti.

Nel percepire la loro voce, Mina si era bloccata. Riabbassò le mani, si aggiustò la maglietta sporca, mise su un piccolo sorriso e si voltò. I suoi bambini erano lì; questo pareva bastarle. Kirishima aveva il fiatone. Parare quei colpi senza contrattaccare per un alpha del suo calibro doveva essere stato estremamente difficile.

Corse verso i suoi bambini e li strinse tra le braccia, inginocchiandosi per arrivare alla loro altezza. Izuku percepì i suoi singhiozzi riversarsi nell'aria della sera, tremuli e affranti come sospiri stanchi.

Tirò un sospiro di sollievo e quasi istintivamente pose la testa contro il petto di Katsuki, accompagnando il gesto con una carezza della mano nello stesso punto. Solo quando lo sentì sospirare a sua volta, si irrigidì, prendendo atto di ciò che aveva fatto. Si staccò velocemente, non osando guardare negli occhi l'altro.

«Izuku» lo sentì mormorare.
Non rispose.
Non ne aveva il coraggio. Il suo cuore batteva così forte che temeva di vederlo fare un buco nel petto e scappare da un momento all'altro.

«Mi dispiace tanto» soffiò Izuku, stringendo a sé il suo bambino addormentato. Aveva riappoggiato la testa contro il petto dell'alpha. Non riusciva a tenere gli occhi aperti, era così stanco.

Ora che l'adrenalina era scesa, era stremato. I muscoli gli dolevano tutti, la lunga camminata non aveva certo aiutato, lo stress, l'ansia e la paura gli avevano contratto le spalle già di per sé doloranti, i punti del "cesareo" gli tiravano. Non lo fece apposta, il sonno gli avvolse i sensi, il cuore batté con meno impeto. Katsuki era lì, se si fosse addormentato per cinque minuti non sarebbe accaduto nulla. Due minuti anzi. Due minuti poteva concederseli.

Non furono solo due minuti.

Una cacofonia di voci gli riempiva la testa pulsante. Gli facevano male le tempie, il corpo era così pesante e dolorante che temeva di rompersi solo respirando.

Si sentiva più stanco di quando aveva chiuso gli occhi.

«Izuku? Sei sveglio?».
Una voce nuova gli arrivò ai timpani. Ci mise un po' a sollevare le palpebre, ancora esausto e tremante. Nel mettere a fuoco la figura che gli sedeva accanto, quasi ebbe un sussulto. Un sorriso spontaneo gli si dipinse in viso.

«Xander!» soffiò, allungando una mano in sua direzione. Il ragazzo dagli occhi blu sorrise a sua volta.

«Ciao» mormorò «come ti senti?»

Izuku cacciò un piccolo mugolio. «Uno schifo. Sono stanchissimo» ammise, le guance velate di imbarazzo.

«Devi riposare, il tuo corpo è davvero provato» gli spiegò l'omega, le labbra morbide tirate in un dolce sorriso.

Izuku annuì. Fece per riaccucciarsi e riaddormentarsi, ma un pensiero lo trafisse a spada tratta. Sgranò di botto le palpebre e prese Xander dal polso.

«Dov'è mio figlio?» chiese con una punta di nervosismo nella voce lieve. Il ragazzo gli indicò un punto più lontano dal letto. Una piccola culla bianca si ergeva a pochi metri da lui. Non riusciva a scorgere la figura di suo figlio, ma fu Xander a rassicurarlo.

«Sta bene, gli abbiamo dato del latte e lo abbiamo cambiato. Siamo andati a comprare tutto il necessario» redarguì, accarezzandogli la mano. Izuku si tranquillizzò. Si rimise nel letto, poggiando la testa contro il cuscino.

Il sonno ebbe di nuovo la meglio.


«Ahia» mugolò, sussultando al tocco del batuffolo di cotone impregno di disinfettante. Bruciava contro i graffi che sua moglie gli aveva procurato.

«Se non stai fermo, sarà solo peggio» sancì Denki, corrugando la fronte con fare rassegnato. Pareva sul punto di crollare, con le iridi color miele intrise di quei sentimenti che non riusciva a contenere nelle sue piccole biglie colorate. «Ti verrà un'infezione e dovrai andare in ospedale perché non c'è nessuno che potrebbe aiutarti qui, visto che non abbiamo un medico e Shinsou si improvvisa un dottore e noi dovremo portati all'ospedale, dove ti medicheranno e-»

«Denki.»

Pareva una macchinetta, parlava senza neanche fermarsi a riprendere fiato, come un automa. Kirishima gli aveva preso la mano tra le sue, si era voltato a guardarlo. Tremava come una foglia al vento, come se i suoi muscoli fossero scossi da spasmi irregolari e impossibili da controllare.
Non riusciva a guardarlo negli occhi, teneva la testa chinata in avanti, intravedeva a ombre le strisce che gli macchiavano le guance, gli ci volle qualche attimo per intuire che quelle erano lacrime e non lineamenti del volto, non un'allucinazione data dal suo subconscio ferito e traumatizzato.

Non gli pareva vero di averlo lì, di poter stringere la sua mano sottile e fresca tra le sue ruvide dita. Di poter respirare accanto a lui, di respirare quello stesso ossigeno che si condividevano da qualche minuto nella stessa stanza. Non gli sembrava affatto una persona in carne ed ossa, non gli pareva il suo Denki, il ragazzo sempre sorridente, l'infiltrato del loro gruppo, l'omega coraggioso che si ostinava a non rivelare nulla di sé.

«Denks» sussurrò, la voce ridotta ad un'ottava, un marchio sbiadito di ciò che era stato un tempo. Non era più l'alpha di qualche settimana prima, le settimane passate senza i suoi amori lo avevano reso vuoto e friabile come carta a contatto col fuoco. Un'anima prosciugata della sua essenza come un mostro che si nutriva della sua essenza e delle menzogne che aveva accartocciato e chiuso sotto chiave nel punto più nascosto di sé stesso.

Gli portò due dita sotto il viso cercando di rivelare il suo viso arrossato. Non riusciva a smettere di tremare Denki, avvolto in quella maglietta sporca, con la spalla ancora dolorante, sperando e pregando con tutto sé stesso che Kirishima non si rendesse conto dei sentimenti che i suoi feromoni teneva imprigionati.

«Guardami, Denks» soffiò il giovane alpha, facendo scorrere il suo palmo caldo contro la guancia dell'altro. «Ti prego, non piangere. Dimmi cos'è che ti fa star male, per favore, Denks.»

Un singhiozzo squarciò l'aria della stanza. Non c'era nulla a parte Denki e il suo cuore pezzato, friabile come un biscotto tra le dita di Kirishima. Si allontanò con uno scatto, i capelli biondo grano vibrarono contro la gravità, finendogli tra le ciglia inchiostrate. Gli diede le spalle, ignorando i suoi richiami.

«Denki, aspett-»

Sussultò, scostandosi con veemenza. Kirishima gli aveva posato le dita sulla spalla ferita, fasciata dalle bende sporche. Un marasma di dolore gli scese in prossimità dei muscoli, l'osso pareva spezzato in due da una kitana. Mugolò, un gemito basso e acuto, simile allo strombettare di una sirena d'allarme.
Kirishima rendendosi conto del suo tocco spostò la mano, corrugando la fronte. «Cos'hai?» gli domandò, il timbro della sua voce pareva un fruscio di vento prima della tempesta.

Denki si ammutolì, la sua pelle assunse la tonalità di colore di una mozzarella di Bufala. Kirishima gli prese la mano, lo spinse a voltarsi verso di lui. Non capiva perché avesse quel timore di guardalo negli occhi, perché non riuscisse a sollevare il viso e aprire le labbra, esporgli - come aveva sempre fatto - quale fosse il dolore che gli strappava a metà l'anima.

«Denki, parlami, ti prego.» rafforzò l'intreccio delle loro dita, facendo scivolare il palmo contro quello dell'altro. «Ti prego Denki, non so cosa fare. Credevo di averti perso ed invece scopro di averti alla porta, scopro che sei vivo e aspetti il mio bambino e-»

Le labbra di Kirishima furono sopraffatte dalle braccia di Denki, dal movimento delle sue mani che gli avvinghiavano alle spalle, le unghie che perforavano la stoffa, il corpo che gli tremava contro riempendogli l'anima e la camicia delle sue lacrime. Lo teneva contro il suo corpo, mettendo fine a tutti quei dubbi, a quelle parole che gli sfariravano giù dalle labbra come una cascata di dolore. Aveva forse una forma quel male? Possedeva un colore, un aroma? Per lui il dolore aveva lo stesso sapore delle labbra di Denki contro le sue, la stessa forza della sua stretta avvolgente, lo stesso carisma del suo corpo scosso dai singulti.

«M-mi dispiace tanto, Eijirou» sussurrò, la faccia premuta contro la curva del suo collo. Il suo respiro bollente gli solleticava la pelle ad ogni movimento.

Gli sussultava contro, rompendogli il cuore ad ogni singulto. Tra le sue braccia Denki pareva così piccolo che non poteva fare a meno di sprigionare il suo profumo, tentando in ogni modo di rilassarlo, di trattenere o assorbire quel dolore, quel silente squarcio nell'anima.

«Mi hanno sparato.»

Si era separato da Kirishima, le sue labbra erano gonfie e arrossate come i petali di un tulipano. Se l'era morse così tanto da lesionare i lembi sottili in microscopiche fratture sanguinanti.
Gli occhi rossi di Eijirou si sgranarono. Osservò il rosso seta farsi di un tenue e porporato color borbogna.

«Chi?»

Denki abbassò ancora una volta lo sguardo, gli riusciva maledettamente difficile sostenere quello di Kirishima, un'enorme fatica di Ercole che gli prosciugava ogni forza rimasta, come una sanguisuga.
Il rosso gli prese il volto tra le mani, imponendosi nella sua visuale e nella sua anima che caracallò contro le pareti del corpo, provando a raggiungere quella dell'altro, il suo amore.

Credeva di essere innamorato di Aizawa, ma allora perché la prima cosa che aveva pensato rivedendo "casa" era stato "come sta Eijirou?". Temeva l'esito della risposta come se avessero potuto sputare una sentenza di morte per fucilazione solo confermando quell'ipotesi che gli era nata nella parte più recondita del cervello.

«Kiri...» provò a dissuaderlo, non voleva ricordare, non voleva altro sangue. Non voleva pensare al cipiglio che avrebbe assalito il viso di Kirishima quando avrebbe pronunciato quel nome.

«Denki» mormorò con il tono che sapeva di supplica. Provò a frenare la lingua, ma le parole sembrarono avere vita propria, gli sfuggirono dalla bocca prima che potesse rendersene conto.

«Fukushüki.»
Quel nome gli pareva una bestemmia, un maledetto insulto a Dio, una minaccia di guerra in una terra che avrebbe dovuto significare l'Eden dei suoi sensi.

«Quel pezzo di merda!»

Kirishima si era allontanato. Gli dava le spalle, impedendogli di vedere l'espressione dipinta sul suo viso. Un fremito gli attraversò il corpo; voleva guardarlo negli occhi, capire che non era mai stata colpa sua, che lo avrebbe protetto lui.

«Kiri...» gli poggiò una mano sulla spalla, provando a racimolare la rabbia che gli intorpidiva i sensi come una biscia strisciata sotto pelle, nelle vene. Kirishima fremeva, i pugni contratti lungo i fianchi, le nocche sbiancate per via della pelle tirata.

«Kiri, guardami

Stranamente l'alpha non oppose resistenza. Si volse ad osservare quello che un tempo era stato il suo migliore amico, sollevò la nuca inquadrandolo nella sua visuale.
Gli occhi color amaranto di Eiijrou sarebbero bastati a mandarlo in paradiso senza troppi preamboli. Sarebbe morto affogato in tutto quel sangue, avrebbe annaspato felice di poter avere un assaggio della sua anima, del suo sapore. Gli pareva così lontano da impedirgli di sfiorare anche un poco il velo che gli avvolgeva il cuore.

Gli si accostò fino a poggiare la fronte contro quella di lui, le labbra a pochi millimetri le une dalle altre, il respiro mischiato tra i loro corpi caldi e frementi.
Denki lo guardava finalmente in quelle biglie colorate, il cuore che galoppava intrepido nel suo torace.

«Abortirò» sancì, il tono lineare come una nota in "la". «Potrai avere la tua famiglia e ti dimenticherai di me.»

Gli occhi di Eiijrou si spalancarono.

«No» sibilò terrorizzato, il tremito che gli avvolse la voce parve fatto di vetro tagliente, pronto a spezzargli a metà le corde vocali. «Non farmi questo Denks, non voglio che t-tu...».

Un singulto gli scosse il corpo. Anche Kirishima piangeva ora, un pianto moderato e angoscioso. Gli mancava il respiro mentre ascoltava quei gemiti disperati, si sentiva stringere il cuore ad ogni fremito.
Gli accarezzò le guance, le mani che gli tremavano come ogni singolo mitocondrio del suo essere. Non riusciva a vederlo piangere, l'anima gli spirava via ogni volta che i suoi lasciavano scivolare una lacrime.

«Devo farlo, Eiji

Si strinse il labbro inferiore tra gli incisivi, i denti affondavano nella carne fino a lacerarla. Quel gesto mosso unicamente dal nervosismo gli sembrava più inutile che mai.

«No, Denks, ma perché dici questo? Io non voglio che tu abortisca, non voglio che t-tu...non mi togliere il mio bambino, ti prego. Non farmi questo i-io...ti prego...»

Il viso di Denki si fece più contratto. Le sue labbra furono scosse da un tremito che come una folata di vento le scosse, inclinandole verso il basso.

«E cosa vuoi che faccia? Cosa vuoi fare? Tenere me e Mina insieme, cresceremo i nostri bambini dicendo cosa? Che sono fratelli? Che la loro mamma è Mina e il loro papà era indeciso riguardo chi scegliere?».

Il modo in cui sputò fuori quelle parole pareva uno strillo dell'anima, un grido d'aiuto proveniente direttamente dal suo cuore ferito.

«Denki, non...»

«Denki, cosa? Pensi per caso che io sia un burattino da manovrare a tuo piacimento? Pensi..." fece un sospiro rassegnato, un uggiolio proveniente dall'abisso dell'anima. «Pensi che basti lasciarmi una manciata di yen sul comodino per poter comprare i pannolini a tuo figlio e venirci a trovare una volta al mese in uno scadente monolocale?»

Kirishima ne restò turbato, le labbra schiuse come pronte ad esalare la sua risposta, le sopracciglia innalzate quasi fino all'attaccatura dei capelli rossi tinti.
Era sbiancato, pallido e fragile come porcellana, Denki sapeva che stava per creparsi, ma quel veleno gli era uscito dalle labbra pari quasi al sangue che ribolliva nelle vene.
Era stanco di quella situazione, stanco dell'incertezza che gli si avvinghiava alla carne come un mostro con i suoi artigli affilati fino a coagularsi al suo sangue e scivolarci dentro assieme.

«Denki, io non volevo dire c-»

La porta venne aperta, interrompendo le parole soffuse di Kirishima. Ammutolirono entrambi, allontanandosi l'uno dall'altro senza emettere neppure un suono.

«Merda, vi ho interrotti?» chiese Katsuki, appena entrato dalla porta di ebano che si era richiuso alle spalle.

Kirishima fece per parlare, ma ancora una volta Denki lo precedette. Fece un gesto con la mano, mettendo fine a quella conversazione disperata.

«No, stavo andando via» asserì il biondo, «io e Kirishima stavamo...» trasse un respiro stanco, le occhiaie sotto ai suoi occhi parvero veri e propri pozzi allo sguardo attento di Katsuki.

«Niente, vado.»

Kirishima fece per seguirlo, ma Katsuki lo trattenne dal polso.

Gli gettò un'occhiata allusiva, una di quelle che erano in grado di scambiarsi e comunicare solo con i movimenti delle loro iridi identiche.
Kirishima stette fermo, lasciando parlare il suo migliore amico.

«Si può sapere che cazzo è successo?» disse Katsuki, il tono sporcato dalla confusione «puoi dirmi perché cazzo non sapevi che Kaminari aspettava tuo figlio?».

Kirishima lasciò uno sbuffo stanco.
Si fece indietro fino a raggiungere la poltrona e sedersi lì, dove le medicazioni erano ancora sparse sul tavolino di legno di fronte a lui.

Si mise una mano sul viso, sospirando con fare rassegnato. Non capiva cosa passasse per la testa del suo Denki, non capiva perché gli fosse corso incontro e lo avesse abbracciato, ignorando del tutto sua moglie.

«Non lo so, Kats-Bro» mormorò l'alpha dai capelli rossi, massaggiandosi le tempie con le punte delle dita. La stanza era diventata un concentrato dei loro aromi amari, delle loro anime intrecciate, dei sentimenti trattenuti in gola, quelli che non riuscivano a sputare fuori incastrati come un boccone nell'esofago che non voleva saperne di andare giù. Gli ci sarebbe voluta una manovra di Heimlich, con il pugno stretto tra l'ombelico e lo sterno e l'altra a scuotere quei sentimenti fino a farglieli vomitare dalle labbra già violacee.

«Come sta Izuku?» chiese l'alpha con i capelli rossi, mentre Katsuki prendeva posto al divanetto nero accanto a lui.

«Sta dormendo. Era stanco morto e aveva la febbre alta, dovuta probabilmente a quei cazzo di punti messi a minchia» sbrodolò Bakugo, il tono liscio all'inizio e increspato verso la fine come un sassofono. «Non so cosa fare» confessò poi.

Kirishima levò la mano che teneva davanti al viso, sollevando la testa per osservare meglio quel ragazzo. Aggrottò la fronte, mettendosi a sedere composto.

«Cosa intendi?» gli domandò con un cipiglio confuso in volto «fare cosa?»

Katsuki spostò lo sguardo, puntandolo contro la finestra blindata. I suoi occhi color amaranto navigarono oltre quel vetro spesso, il cielo era di un tenue tepore grigiastro. Le nuvole cariche di pioggia spuntavano qua e là come grandi ombre massicce.

«Izuku è tornato con un bambino» sentenziò il biondo, le mani poggiate in grembo si contrassero.

Kirishima lo guardò senza capire, le sue ciglia inchiostrate sbirciarono il suo amico, curvandosi.

«Vuoi lasciarlo? Non sopporti che quel bambino non sia tuo

Katsuki sgranò gli occhi, il colorito fattosi improvvisamente più purpureo.

«No. Non è questo. Io...merda, Kirishima lo sai che io lo amo, lo sai che amo già quel ragazzino nonostante non sia mio. Non è questo il punto» sancì con una nota d'asprezza nella voce, le dita si mossero nervosamente contro le sue gambe, stringendosi alle sue ginocchia fasciate dalla stoffa dei suoi pantaloni cargo.

«E allora cosa c'è?» redarguì Eiijrou senza riuscire a collegare quei puntini. La sua mente già turbata da quell'incontro improvviso. Forse era sotto shock, si disse, forse era solo preoccupato. «Non sei contento di averlo ritrovato?»

Katsuki si lasciò sfuggire un gemito, si sistemò sulla sedia, accavallando le gambe, la caviglia contro il ginocchio, il palmo posato sulla sua pelle.

«Nulla, lascia stare. Sto dicendo cazzate» concluse, mettendo fine a quel marasma di esitazioni e dubbi. «Piuttosto, cos'è successo tra te e Kaminari?».

Fu il turno di Kirishima di sbiancare, il suo cuore fece su e giù senza un motivo ben preciso. Non riusciva proprio a stare tranquillo quando si parlava di quel ragazzo.
Guardò il suo migliore amico, le ciglia incurvate a scrutarlo con più attenzione.

«Come hai fatto a scegliere tra Dominic e Izuku?» gli chiese Eiijrou, ignorando il suo precedente quesito.
Katsuki sbuffò una risatina, le labbra gli si arcuarono come le radici di un albero. Alzò gli occhi rossi, inchiodandoli sul viso del suo migliore amico che lo scrutava con attenzione.

«Non ho mai scelto, Kiri.»

Lucien stringeva a sé il suo fratellino, le braccia avvolte al suo corpicino piccino.

«Come stai mio dolce Millie?» gli chiese, baciandogli i capelli color foglia.

Il bambino sorrideva, un sorriso simile alla curva di una nuvola, le guance arrossate, gli occhi lucidi. Sembrava un piccolo koala avvinghiato al suo corpo come se temesse di perderlo da un momento all'altro.

«Sto bene» mormorò, «sono tanto contento che tu sia tornato.»

Lucien sorrise a sua volta, ricambiando la stretta.
Lo aveva visto qualche minuto prima, appena entrato in casa la prima cosa che aveva fatto era stata cercare suo fratello, incurante di qualunque altra cosa.
Lo aveva trovato a giocare con un cavalluccio di legno, il viso intristito, le labbra distese. Se l'era stretto tra le braccia, incurante di qualunque buon costume.

Aveva resistito anche troppo.

Aveva baciato Millie su tutto il viso, lo aveva abbracciato e tenuto contro il petto, finché non lo aveva visto.

Era in piedi, le braccia incrociate al petto, una spalla poggiata alla parete di gesso. Il maglioncino di cashmire gli fasciava il busto, lasciavano scoperte le clavicole bianche come latte, radici di alberi incastonati nei suoi polmoni.
La vita fuoriusciva dalla sua bocca assieme al suo respiro.

Non riuscì a connettere né a stabilire un nesso tra il cervello e le azioni. Si ritrovò a correre in quella direzione, la mente svuotata, le membra leggere come una piuma sottile.

Aizawa Shota profumava di caffè e sapone. Nel respirare la sua stessa aria Lucien ebbe un fremito. Gli strappò l'aria dalla bocca, premendoci sopra le sue labbra.
Il bacio fu così famelico, disperato, passionale che Lucien temette l'anima gli si sarebbe scivolata dalla bocca in quella di Shota, gli sarebbe fluita dal corpo, lasciandolo a respirare il nulla. Gli andava bene, poteva morire baciando il suo amore sulla bocca.

Aizawa gli aveva avvolto le dita contro le reni, tenendolo contro di sé, le loro lingue che si esploravano come se fosse l'ultimo atto di amore o il primo.
Credeva che sarebbe morto senza poter più rivedere quell'uomo, ma ora era qui, era lì accanto a lui, contro di lui, con la lingua dentro la sua bocca e il respiro aggrovigliato al suo come fossero un solo essere.
Gli era mancato così tanto che sentiva le ginocchia cedergli, la mente completamente sospesa, vuota, elevata ad un livello superiore in cui i pensieri non erano altro che nubi di fumo. Le vide dissolversi tutte come se Aizawa fosse il sole necessario ad ombreggiare quelle grosse dispense di male liquido.

Una porta si chiuse con un tonfo. Lucien si distanziò dal suo amante, le mani tremanti, gli occhi lucidi come laghi d'Alaska.
Aizawa anche ricambiava il suo sguardo, i suoi occhi color ebano parevano pozze scurissime di caffè.

La testa si era voltata nel verso di quel rumore, intravide Ash uscire dalla casa con uno sbuffo indignato.

La consapevolezza di ciò che aveva fatto lo colpì nella pancia. Si sentì mancare mentre la sua mente pareva dividersi tra il bisogno di rincorrere quel ragazzo e quello di voltarsi e tornare a baciare e assaggiare il sapore del suo Shota che gli scorreva ancora in gola assieme alla saliva.

"Cici..." provò a chiamarlo Aizawa, le sue dita sottili e fine come corde di armoniche parevano fatte di seta. Gli aveva preso il polso, provando a farlo voltare verso di sé.

Lucien non riusciva a respirare.

Quella meteora di sensazioni gli si amplificava dentro come se fosse una scodella troppo stretta.
Gli sembrava di stare in una stanza troppo piccola, il suo stesso corpo pareva una confezione troppo limitata, con su scritto che poteva trattenere una briciola mentre invece lui ci insaccava dentro miliardi e miliardi di tonnellate.

Si divincolò dalla presa di Shota, il cuore che gli correva in petto come se avesse appena corso una maratona.

Cosa diavolo stava facendo?

Gli sanguinò il cuore come se glielo avessero appena colpito con una forca. Tornò verso suo fratello, gli baciò piano una guancia e con la scusa di essere stanco, salì a cercare la sua stanza.

Aveva sentito imprecare.

Un soffio di voce riconducibile a un bambino, uno scalpitio di passi forti e disordinati.

Si sentiva frastornato come se qualcuno lo avesse colpito sulla testa e lo avesse messo a dormire col naso tappato.
Le lenzuola erano appiccicose del suo sudore freddo, così come la sua fronte grondante di sudore secco.
Doveva avere la febbre, perché sentiva le guance scottare, la vista appannata come se non avesse abbastanza batterie per mettere a fuoco l'obiettivo.

Si mise a sedere ignorando la vertigine che lo colse. Si guardò attorno, non riuscendo a capire da dove venisse quel debole lamento, un piccolo sospiro che si faceva sempre più sconnesso. Attizzò le orecchie, i sensi allarmati.

Un altro passo, un urto rumoroso, il suono di una voce.

«Cazzo!»

«Katsuki?»

Poi capì.
Si trattava del bambino, il suo bambino stava piangendo, forse si era svegliato da poco ma Izuku non lo aveva sentito.

«Torna a dormire, Izuku. Ci penso io» esclamò Katsuki, muovendosi goffamente per via del buio della stanza. Izuku strizzò gli occhi, inquadrando la sua figura dinanzi a sé. Non riusciva a vederlo per bene, ma ne intravedeva i tratti lisci e squadrati, percepiva il suo aroma di legno e nitroglicerina, la nota dolciastra di caramello inondare l'aria come una gelatina appiccicosa. Ne ispirò una piccola dose, sniffando quell'odore come fosse una striscia di cocaina.

Sospirò, sistemandosi a sedere sul letto. A carponi cercò la manovella dell'interruttore dell'abajour. Si scontrò contro alcuni oggetti, facendoli tintinnare contro il comodino, poi a tastoni riuscì a trovare la lampadina.

Fece scattare il pulsante con un piccolo scatto. La stanza prese colore e forma sotto quell'abbaglio di sole immaginario. Katsuki doveva essere inciampato in mezzo al tappetto, perché quando Izuku si volse a guardarlo, si trovava a terra le dita protese a cercare - molto probabilmente - la carrozzina del neonato.

Normalmente gli avrebbe chiesto di non preoccuparsi, ma ancora rintontito dal sonno e dalla possibile febbre, non disse nulla.
Katsuki si era rimesso in piedi e aveva raggiunto la carrozzina a pochi metri dal letto. Aveva sbirciato all'interno, le sopracciglia aggrottate come linee di matita.
Il bambino non smetteva di piangere, i suoi singhiozzi erano piccoli squarci d'aria intermessi tra un respiro e l'altro.

Izuku abnegò al suo sonno, trattenne uno sbadiglio e cercò di rimettersi in piedi con un gemito di dolore. I punti gli tiravano la carne come se la dovessero strappare, sembravano fatti di filo da pesca tagliente come fil di ferro e fastidiosi come spine dentro la sua carne lesionata.

«Merda, non devi alzarti così di scatto» Katsuki lo aveva raggiunto in un secondo, le dita avvolte al suo fianco, aiutandolo a sorreggersi a sé.

Si aggrappò a lui, la sua attenzione però era totalmente rivolta alla carrozzina, al pianto disperato del suo bambino.

«Shura...ssh, tesoro.»

Lo raggiunse con le mani tremanti, Katsuki lo aiutava a camminare lasciando che si aggrappasse alla sua spalla e scaricasse il suo peso su di lui.
Izuku toccò il bordo della carrozzina bianca lattea, ne accarezzò la superficie e scese a cullare il sonno del suo Shura, il cuore che palpitava nel petto come se avesse appena scampato un infarto.

Desiderava prenderlo tra le braccia, cullarlo al suo petto mentre i singulti passavano contro la stoffa morbida del pigiama che gli avevano messo sicuramente mentre dormiva visto che non ricordava granché. Fece per piegarsi, ma la fitta gli trapassò la schiena e le reni come una corda troppo tirata che stride.
Bakugo lo tenne, la mano che calò ad avvolgergli del tutto la vita.

«Che succede?» gli domandò, la fronte corrugata in un cipiglio preoccupato. Le sue iridi parevano mari di inquietudine, rosso che affondava e nuotava, risaliva e riaffondava come un'onda d'acqua salata. C'era vita in quel mare?

«S-sto bene» lo tranquillizzò Izuku, trattenendo la smorfia di dolore che premeva per deformargli il viso. Il cuore pigiava tra le costole quasi volesse farsi spazio per uscirgli dal petto e scappare a gambe levate. Socchiuse gli occhi, ignorando il dolore che come un nervo lesionato sembrava prendere fuoco ad ogni respiro in più. «Katsuki, prendilo in braccio, per favore.»

Il soggetto era chiaro, ma Bakugo corruggò comunque la fronte.

«Chi?»

Izuku sollevò lo sguardo, gettandogli un'occhiataccia. I lineamenti del viso di lui alla luce dell'abajour parevano fatti di acacia, un bellissimo fiore che sbocciava nei suoi occhi colorati come tulipani maturi.

«Come chi?» esclamò Izuku confuso «il bambino, ovviamente» acclarò, la voce dolce come zucchero frullato. Il viso di Bakugo si storse in una smorfia di turbamento.

«Io?» domandò come se la sola idea di fare ciò che Midoriya gli aveva chiesto, fosse del tutto improponibile.

«E chi altri?» lo rimbeccò l'omega, scrutandolo con una nota di sarcasmo nella voce. «Mica hai paura?» aggiunse poi, facendogli un sorrisetto malizioso.

Nel percepire quelle parole Katsuki sbarrò gli occhi come fosse stato punto sul vivo.

«Assolutamente no. Non ho paura di niente io, Izu-ku» scandagliò il suo nome come fosse una caramella da succhiare, un titolo da decretare.

Deglutì, il pomo d'Adamo che si muoveva com una biglia lucida sotto la pelle tirata, lievi ciuffi di barba gli sporcavano la pelle perfetta.

Izuku sogghignò, indicandogli la culla.

Il dolore continuava a torturarlo alla stregua di un attacco da più fronti, ma giocare a stuzzicare Katsuki era quanto di più possibile a distrarlo. L'adrenalina galoppava nelle vene a ritmo dei battiti intrepidi come onde sonore libere nell'aria.

«Bene.»

Katsuki si avvicinò alla culla e allungò le braccia. Gli tremavano i palmi, ma riuscì comunque ad adagiare attorno a quel moccioso urlante. Lo tirò a sé, trovando maledettamente difficile addurlo al petto. Pareva incollato alla carrozzina e scrollandolo più forte temeva di fargli male. Quel corpicino pareva una vera e propria trappola per le sue mani grosse e indelicate.
Lui era un alpha, non sapeva nulla di queste cose. Aveva istinto paterno? Non lo sapeva, ma dubitava proprio di no.

«Sorreggigli la testa» lo incalzò Izuku, ancora attaccato al suo fianco. Il suo respiro contro il collo gli faceva venire i brividi, la pelle si increspò. Fece come gli aveva detto.

«Tiralo a te, Katsuki» gli disse poi, allungando le mani per aiutarlo a farlo correttamente.

Bakugo lo sorresse contro il suo petto. Non doveva pesare più di qualche chilo, eppure, a Katsuki pareva un peso carico d'oro fragile come vetro colorato. Il suo fiato bollente gli si infranse contro la spalla, percepì la sua bava bagnargli la stoffa della t-shirt. Strinse i denti, le dita contro quelle coscette paffutelle.
Gli venne stupidamente da sorridere. Il moccioso aveva smesso di strillare non appena aveva provato a metterselo in braccio, ora si limitava a succhiargli la maglietta con le sue gengive intrise di saliva.
Non se ne curò.

«Ecco qui, sei stato bravo» si complimentò Izuku, accarezzando le spalle del suo bambino. La sua mano pareva un delicato foglio di seta in confronto alle dita grosse e lunghe di Katsuki.

L'alpha gli gettò un'occhiata, spostando lo sguardo oltre la spalla del bambino. Izuku guardava quel neonato come se avesse il sole tra le mani e la sua stessa vita nelle iridi.

«Tieni» glielo porse, staccandoselo di dosso con fare più delicato di quanto avesse mai immaginato.
Forse un po' d'istinto c'era, dopotutto.

L'omega scosse la testa, le mani che gli premevano il bambino al petto.

«Tienilo tu, Kacchan» mormorò, sentendo la testa girare.
Katsuki lo afferrò giusto in tempo.

«Andiamo a letto, ti avevo detto di non strafare» lo rimproverò, tenendolo contro il suo corpo muscoloso.

Lo riportò a letto e si staccò il piccolo poppante dalla maglietta zuppa.

Nel notare ciò all'omega dagli occhi verdi venne da sorridere. Gli pose il bambino vicino, ben accorto a non fargli male, le braccia che lo tennero fino a quando non fu sicuro di vederlo stare bene.

Izuku non lo lasciò andar via. Gli prese il polso, avvicinandolo a sé.

«Cosa c'è?» gli chiese Bakugo, tremando sotto il peso di quella stretta. La pelle di Izuku gli faceva tremare perfino l'anima, se poi lo guardava con quegli occhioni verde giada, era ovvio che si sciogliesse come se fosse stato colpito direttamente dai raggi solari senza che li filtrasse l'atmosfera.

«Resta qui» lo pregò, la mano che scendeva ad intrecciare le dita sottili alle sue. Katsuki sospirò, ben consapevole che non sapeva dirgli di no, si lasciò cadere sul letto, sistemandosi su un fianco.
Il bambino faceva da separé tra lui ed Izuku, ma riusciva comunque a vedere quel corpo formoso, quel viso espressivo sorridergli pacatamente, gli occhi liberi da quel demone che di solito glieli infestava come un mostro che si nutre di dolore.

«Che c'è?» redarguì, guardandolo con un cipiglio scettico. «Perché sorridi?»

Izuku si coprì le labbra con il palmo, facendo scivolare l'altro sul suo bambino. Katsuki lo raggiunse, sfiorandogli le nocche, accarezzando la pelle del neonato.

«Perché sei qui. Perché posso vederti, perché posso toccarti-»

Furono le labbra di Katsuki a frenare le sue parole, il loro tocco gentile e fragile, simile al soffiare del vento estivo. Si teneva in bilico fra il suo corpo e quello del bambino, la sua bocca gli donava vigore, lo riportava alla vita.

«Katsuki» mormorò tra un bacio e l'altro, le bocche che si sfioravano come petali, le foglie che scendevano come un fluire d'acqua.

Il biondo sollevò lo sguardo, incastrò le sue iridi simili a biglie tra i suoi smeraldi chiari, le labbra che si toccavano e lasciavano come a fare l'amore.

«Dominic, mi ha detto di dirti che ti ama, che ti ama così tanto che non può fare a meno di salvarmi.»







Spazio autrice❤️‍🩹:
Merito decisamente il patibolo per farvi aspettare ogni volta così tanto, ma a mia discolpa questo capitolo è lunghissimo perciò spero mi perdoniate.

Comunque, passando alla scrittura, il prossimo capitolo dovrebbe uscire molto prima di questo visto che siamo quasi alla fine e poi vi parlerò di alcuni progetti che verranno più avanti!

Innanzitutto, vediamo un po' la situazione! Che ve ne sembra?
Com'è che vedete il rapporto tra Denki-Kirishima-Mina? Cosa accadrà secondo voi? E invece per quanto riguarda Lucien-Aizawa-Ash?

E infine, i nostri amati protagonisti!
Izuku che è stanco e malato per via dei punti e Katsuki che non sa cosa fare o dire. Non ve la prendete con lui per come ha reagito, infondo è sotto shock per essersi ritrovato Izuku davanti alla porta di casa, la domanda su Dominic era più che capibile...(o forse no, ma dettagli).

Fatemi sapere che ne pensate, sono tanto curiosa!

Alla prossima,❤️
Lilla

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