30. Escape
«E sto pensando a come,
le persone si innamorino
in modi misteriosi»
Ed Sheeran
🦋
Dominic arretrò con le spalle contro il muro di pietra. Strinse al torace il bambino di Izuku, gli occhi spalancati e il respiro mozzato.
«Hai forse paura, Dominic-kun?» lo schernì, avvicinandosi a lunghe falciate. L'omega intravide le sue belle scarpe nere firmate, probabilmente più costose di un chilo d'oro.
«Non rispondi?».
Si era chinato sulle ginocchia, le braccia a penzoloni su di esse, il capo inclinato da un lato. I suoi capelli biondi parevano fatti di oro placcato.
Dominic lo ignorò. Strinse maggiormente a sé il piccolo, il suo respiro caldo si scontrò contro il tessuto della sua maglietta. Non voleva che quello stronzo vedesse il bambino di Izuku.
«Non vuoi farmelo vedere, Omega?» ridacchiò, con fare malevolo. Dominic soffiò, un lungo ringhio acuto, rauco.
Avvertì lo schiaffo in pieno volto. Il colpo gli fece bruciare il naso. Un po' di liquido amaranto gli imbrattò le labbra, la guancia si infiammò.
«Sai che non mi piace essere cattivo, ma tu te le cerchi sempre, cognatuccio» cantalenò, sistemandosi i capelli che gli erano scivolati sulla fronte. Dominic si portò il palmo contro la guancia ferita, massaggiandola lentamente. Non sentiva quasi più la pelle.
«Che vuoi?» ringhiò Dominic, guardandolo con gli occhi verdi pieni d'odio. Fukushūki lo scrutò con attenzione, il leggero sogghigno sulle labbra si trasformò in un ghigno sardonico.
«Voglio vedere il bambino» sancì, facendosi serioso. Dominic tremò, un brivido che lo scosse da capo a piedi, facendogli tendere le dita dei piedi. Non aveva neppure più le scarpe; se le era tolte quando lo avevano riportato in cella e il Caporale Demian si era dimenticato di fargliele riportare.
Non aveva freddo, ma il bambino sì.
«Cos'è che non capisci?» sibilò Fukushūki, scandendo ogni sillaba con un leggero fastidio nella voce. «Ti ho detto che voglio vedere il bambino, perciò, smetti di stringerlo così» gli premette le dita contro il braccio con il quale sorreggeva il fagottino in cui aveva avvolto il cucciolo, la presa era salda e nonostante la sua resistenza, una fitta acuta gli trapassò le ossa.
Fu costretto ad allentare un po' la stretta con la quale teneva il bambino al petto, l'altro ne approfittò. Gli avvolse il polso con un palmo e fece pressione.
«Facciamo così, visto che ti piacciono le maniere forti» asserì, guardandolo con quel suo ghigno malefico, abbozzato verso la guancia destra. «Se non me lo lasci vedere, ti romperò entrambi i polsi».
Non scherzava, il suo sguardo sadico gli fece rizzare i peli sulla nuca. Strinse i denti, allentò la morsa, annuì.
Fukushūki tolse le mani, lui gli passò il bambino. Lo afferrò, le mani protese in avanti. Dominic glielo pose in mezzo, sorreggendogli la fragile testolina.
«Stai atten-»
«Chiudi quella bocca» ordinò Fukushūki, innervosito. Dominic non poté che obbedire, scrutandolo con attenzione mentre teneva il bambino.
«Ma che bel cucciolo» si complimentò, con un tono acido, simile al raschiare di una forchetta. «Non assomigli per nulla a tuo padre Katsuki» proferì, sfiorandogli la guancia paffutella. Dominic sgranò gli occhi.
«Lui, non è…Katsuki non è…» iniziò, senza neppure rendersene conto. Fukushūki saettò con lo sguardo su di lui. I suoi occhi rossi non erano per nulla simili a quelli del suo Katsuki-san, proprio per niente.
«Cosa?» lo apostrofò, assottigliando gli occhi. Dominic si ammutolì, impallidendo. «Che hai detto? Katsuki non è…?» ripeté, il tono alterato.
Dominic non riuscì ad aggiungere altro, gli tremavano le mani e avvertiva il solito nodo allo stomaco, qualcosa di inestricabile e raffermo, simile al morso di una vipera.
«Ma che peccato! Se non parli, sarò proprio costretto a perlustrare per bene questo bel bimbo» mormorò, inarcando le labbra in un ghigno malefico.
Dominic ebbe un mancamento. Il cuore saltò un battito. No, era così che avrebbe fatto, doveva immaginarselo. Doveva saperlo, altroché se doveva!
Gli si irrigidirono le spalle. La mandibola si contrasse, il corpo s'immobilizzò. Sembrava fatto di pietra, una vera e propria statua di sale.
«Fukushūki, ti prego, il bambino non c'entra niente…» provò, la voce gli tentennò. L'alpha lo guardò con uno sguardo diviso tra il gongolante e il vittorioso. Il Dominic di qualche anno prima, gli avrebbe tenuto testa e lo avrebbe affrontato a colpi di lingua fino a ridurlo in poltiglia ma, questo Dominic non aveva né la situazione, né la possibilità di farlo.
Non poteva che patire e ingioiare qualunque risposta acida gli fosse salita lungo l'esofago. Non c'era in gioco solo il suo corpo stavolta.
«Quindi? Vuoi parlare o devo spezzare le gambe a questo bel fagottino?» ringhiò, facendo pressione sulle piccole gambe. Il piccolo strillò, un gemito mischiato alle lacrime, Dominic esitò.
Fukushūki pareva un demonio, uno di quei demoni incarnati in un umano, privo di qualsivoglia emozione se non la rabbia. Con i suoi occhi rossi come il sangue che aveva fatto versare e che aveva egli stesso versato, con le sue belle ciocche color grano che pendevano verso la fronte, sparpagliate a destra e sinistra, seguendo un ordine che Dominic non riusciva a spiegarsi, con la pelle chiara come porcellana e la cicatrice brillante come olio che gli macchiava lo zigomo altrimenti, perfetto. Un essere superiore, bello come un angelo, cattivo come un diavolo. Sembrava davvero un diavolo, con le sue dita affusolate e il polso ampio da cui si diramavano interi sciami di vene blu e verdognole che affondavano dentro la carne morbida e sottile della gamba del bambino di Izuku.
Un altro piccolo singhiozzo, il suono della piccola e rauca voce del cucciolo che si lamentava come nell'unico modo che conosceva. Singhiozzando.
Dominic aveva sempre temuto chi piangeva. Non riusciva a sopportarlo. I singhiozzi gli si infilavano sotto pelle, gli arrivavano direttamente nel cervello, gli risuonavano nelle orecchie come in loop. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie con i palmi, stringere i denti e canticchiare, come gli aveva insegnato suo padre, l'uomo che lo aveva adottato e cresciuto.
L'uomo che lo aspettava a casa, inconsapevole di dove potesse essere suo figlio, preoccupato e solo.
Era un fallimento? Lui era un fallimento?
Non riuscì a darsi una risposta, fu interrotto da un altro singhiozzo. Quel pianto dolorante e disperato in pochi secondi, gli viaggiò fino alle sinapsi cerebrali. Il suo battito accellerò, il suo respiro si frammentò.
Mosse le mani in avanti, le catene che lo tenevano legato, - aggiunte subito dopo la sua fuga, - tintinnarono. «Basta…per favore, ti dirò quello che vuoi sapere.»
Fukushūki smise di porre pressione. La mano liberò lentamente la piccola gambuccia del bambino. Un segno rossastro si diramava sulla carne morbida. Dominic digrignò i denti.
“Per i figli si fa di tutto, Dominic,” gli aveva detto una volta suo padre, e di fronte a quella situazione, non poté che essere d'accordo. Per i figli si fa di tutto, anche se non sono i tuoi.
Si schiarì la voce, deglutendo. Quando parlò, il tono risuonò vuoto e rauco, come se non proferisse parola da anni. «Katsuki non è il padre di questo bambino.»
Gli occhi color amaranto di Fukushūki si tinsero di luce. Un'ombra oscura gli attraversò il volto, un ghigno malevolo gli inasprì i tratti. Spalancò appena gli occhi, le palpebre si sollevarono un poco, le labbra si assottigliarono, inclinò la testa. Riusciva a scorgere i suoi tratti felini attraverso la debole luce a neon che illuminava a pena la cella di pietra grezza. Faceva un freddo cane lì dentro, così tanto, che neppure l'odio che provava verso quell'uomo, così simile al suo Katsuki-san, riuscì a scaldarlo.
«Oh, ora capisco» ghignò Fukushūki, arricciando le punte delle labbra. Un brivido gelido lo sospinse a reclinarsi un altro po' contro la parete. Preferiva il freddo doloroso delle pietre alle sue spalle alla vicinanza pericolosa di quell'alpha.
«Ora capisco bene» asserì. Il suo volto si incurvò. Il bambino aveva smesso di piangere, ora cacciava giusto qualche occasionale singhiozzo. Il cuore di Dominic però, faceva su e giù senza sosta. Non si sarebbe sorpreso se da un momento all'altro gli fosse venuto un infarto.
«Bene, in tal caso» iniziò porgendogli il bambino. Dominic per un attimo restò paralizzato non capendo. «Puoi anche riprendertelo» sancì. Lo riprese tra le braccia e il bambino emise un piccolo gemito. Lo strinse al petto, cercando di calmare quel batticuore forsennato e al contempo, di trasmettergli un po' di calore.
Fukushūki nel frattempo, si era rimesso in piedi. Da dove lo vedeva lui, dal basso, pareva ancora più alto di quanto in realtà lo fosse. Persino più di Katsuki-san.
Lo osservò voltargli le spalle, senza alcuna particolare emozione stampata in viso, le spalle rigide avvolte in una camicia scura firmata. Il tessuto pareva più stropicciato sul colletto come se qualcuno ci avesse avvolto le dita contro e tirato.
Mentre lo osservava girare le dita contro la porta della cella, Dominic provò uno strano senso d'angoscia.
Dov'è Izuku, maledetto? Avrebbe voluto urlargli.
«Non credo tu dovresti parlarmi così, sai.»
Oddio. No, lo aveva per caso detto ad alta voce? No, no. Lui non agiva così. Doveva essere sicuramente colpa della stanchezza, dell'ansia, del bambino. Dei due bambini che doveva proteggere; uno tra le sue braccia, l'altro nel suo ventre.
Fukushūki si era bloccato, le mani ancora sospese dinanzi a sé, le serrature per metà aperte. Dalla posizione in cui era riusciva a scorgere per bene la scia luminosa che conduceva al corridoio. Quell'ala delle prigioni era nuova e più sicura. Ce lo aveva trasferito subito dopo la fuga, nonostante il bambino che teneva tra le braccia. Aveva fame di libertà, fame d'aria “vera”, ma anche volendo, non sarebbe mai riuscito a fuggire. Non in quelle condizioni, non con due bambini da proteggere e un uomo alto un metro e novanta per ottanta e passa chili da mettere al tappeto. Il Dominic di un tempo, non ci avrebbe pensato due volte. Adesso però, rischiava troppo.
«Comunque,» Fukushūki lo interruppe da quei ragionamenti, insinuandosi tra i suoi pensieri, il suo tono sbeffeggiante si diffuse tra quelle quattro soffocanti pareti, «mio marito è al sicuro, non preoccuparti.»
Gli si spezzò il respiro. Una fitta simile ad un'accettata tra le costole, dritta suoi polmoni, fino a perforargli la carne e strappargli gli alveoli bronchiali. Un dolore che gli travolse il sangue, sospingendo il cuore a pompare più forte. Aveva la gola secca.
«Marito…?» mormorò. Fukushūki che si era lievemente voltato, sorrise. Riuscì a scorgere il ghigno compiaciuto che quel sorrisetto nascondeva, quel sentimento di superiorità che lo schiaccava come un mattone troppo pesante.
«Sì. Futuro marito. Mancano pochi giorni ormai.»
Dominic non riuscì a muovere le labbra. Avrebbe voluto chiedergli cosa significava, avrebbe voluto prendergli la testa e sbattergliela contro il ferro della porta, fino a sentire il cranio fare “crac”, avrebbe voluto colpirlo a ripetizione, metterlo k.o. come gli era stato insegnato nell'esercito, ma non riuscì a far altro se non osservarlo.
Fukushūki non aggiunse nulla. Sorrideva ancora quando si richiuse la porta alle spalle.
«Ah! Quasi dimenticavo, cognatino!» esclamò poco prima di andarsene. Si avvicinò alle sbarre della porta, aprì la piccola fessura dalla quale gli passavano il cibo. Il suo ghigno sardonico gli ornava ancora le labbra, se possibile, era ancora più esteso. Dominic serrò i pugni. Il respiro del bambino gli scaldava il collo. «Sarai giustiziato domani al tramonto, assieme ai tuoi tanto amati cuccioli. Quello che hai tra le braccia e quello che porti nel ventre. Ti faccio tanti auguri, ma sai, meglio estirpare l'erbaccia dalla radice. Buona serata!»
Ci mise qualche secondo ad elaborare le sue parole, secondi nei quali, il suo cervello macchinò, andando quasi in fiamme. Poi, Fukushūki si allontanò ghignando lungo il corridoio e Dominic si scagliò contro la porta, colpendola con i suoi pugni.
«Fukushūki, bastardo! Bastardo…! Torna qui…bastardo…!»
Le sue urla riecheggiarono lungo il corridoio, ormai vuoto.
Non era stato difficile aggirare la sorveglianza. Izuku avrebbe dovuto sicuramente aspettarselo, ma non avendo esperienze se non quella di una volta, non sapeva affatto nulla.
Fukushūki aveva commesso uno sbaglio, lui ne aveva solo approfittato.
Non aveva chiuso a chiave. Era sgattaiolato fuori dal letto, l'alpha accanto a lui, dormiva. Per un attimo, aveva avuto l'impulso di afferrare una lama e piantargliela in mezzo alla gola, vederlo scivolare via, sentirlo uggiolare come una bestia ferita. Izuku avrebbe voluto solo spingergli un coltello più affondo possibile nella gola o nel cuore, poco importava. Voleva vederlo soffrire, voleva vederlo patire e sapere che stava male.
Non si era dato quel privilegio, non si era tolto quello sfizio. Avrebbe ucciso Fukushūki, ma non era questo il momento. Ora, doveva correre. Correre, ignorando le fitte al ventre dove i punti tiravano come sul punto di staccarsi, correre ignorando la sensazione di nausea e ansia al pensiero di ciò che avrebbero potuto fargli se lo avessero sgamato.
Fukushūki non era stupido e Izuku stava cercando di fargliela proprio sotto il naso. No, sapeva che sarebbe accaduto qualcosa di molto brutto se lo avessero sorpreso a fuggire, ma doveva rischiare.
Non sapeva neppure se suo figlio era vivo o no, non sapeva dove cercare o come cercare, ma Yugi, il servitore che gli aveva portato il diario, era tornato a trovarlo. Gli aveva portato una mappa. Una mappa dell'edificio.
Gli aveva mostrato le carceri.
Izuku ora, voleva liberare suo figlio e riprendersi la libertà che gli spettava. Per una volta, voleva salvarsi e andare lontano da lì, molto lontano, dove nessuno avrebbe più potuto trovarlo o rapirlo.
Voleva una vita tranquilla per sé e il suo bambino, voleva tenere tra le braccia il suo cucciolo e piangere nel notare la probabile somiglianza a Matthew, il suo Matthew. Voleva insegnargli a leggere, facendo del suo meglio visto che anche lui non era proprio in grado, ma sarebbero migliorati insieme. Lo avrebbe portato in mezzo alla natura, a giocare con i ruscelli d'acqua e ad osservare le margherite crescere. E di notte, avrebbero visto le stelle. Izuku gli avrebbe mostrato ogni costellazione che Garfield gli aveva insegnato.
Il suo bambino sarebbe stato al sicuro.
«Ehy, dove credi di andare?» un servo, un ragazzo con gli occhi castani e le sopracciglia aggrottate, gli andò incontro. Izuku lo ignorò, continuando a camminare. Teneva la testa riccioluta bassa, il corpo rigido. Cercava di non pensare al sangue che avrebbe imbrattato tutta la sua maglietta se i punti fossero saltati.
«Ehy! Ma non ci senti?!»
Il servo gli stava alle calcagna. Izuku si concentrò sul motivo geometrico del pavimento, sulle mattonelle bianche abbellite dagli esagoni blu e dai cerchi color arancio.
I passi dallo sconosciuto parevano orologi che battevano i secondi che lo separavano dalla fuga totale. L'attimo cruciale. Percepiva il cuore in gola, il suo pompare forte e indistinto nelle orecchie.
Non aveva mai avuto così tanta ansia neppure quando doveva conoscere un nuovo cliente. Questo, si disse, è perché hai assaggiato la libertà.
Svoltò in un angolo e si ritrovò in una grande stanza. Gli tremarono le gambe.
«Oh! Omega, hai capito cosa ti ho detto?!»
Il servo l'aveva raggiunto. La stanza era enorme, ma gremita di altri ragazzi intenti a pulire ogni angolo del pavimento e dei mobili color avorio.
«Andiamo indietro» ordinò il servo, afferrandogli la mano. Izuku scosse la testa. Non voleva neppure guardarlo. Provò a divincolarsi, ma il ragazzo gli strinse maggiormente il polso.
«Lasciami!» provò ad obiettare, ma il ragazzo gli scoccò un'occhiataccia per poi sollevare la mano, il palmo che sporgeva in avanti, inclinarla e…
Izuku chiuse gli occhi, pronto ad essere colpito, ma non ricevette nulla. Nessuno schiaffo.
«Va tutto bene? Perché stavi colpendo il futuro marito di Fukushūki?»
Nel riaprire gli occhi, si sorprese della presenza di un nuovo personaggio dinanzi a sé. Non lo conosceva, ma era stato proprio lui a bloccare lo schiaffo.
Il servo pareva mortificato. Aveva chinato lo sguardo, le guance rosse, la schiena leggermente piegata in avanti, emulando un inchino.
«Mi dispiace, signore. La prego, mi punisca» mormorò il servo. Izuku riusciva a vederlo solamente per metà, la figura dinanzi a sé era così alta che in confronto lui sembrava un bambino.
«Punirti? Non sono il tuo padrone, ma stanne certo che gliene farò parola. Ora, scusati immediatamente con Izuku e vattene» ordinò, il suo tono era simile a una quercia; forte e stabile. Sicuro e familiare. Izuku non ricordava dove, ma gli sembrava di averlo già sentito.
Il servo annuì. Si era voltato verso di lui e aveva proteso le labbra.
«Mi dispiace, Izuku. La prego di perdonare la mia insolenza» mormorò, la voce raschiata da un fastidio a malapena contenuto. Izuku annuì.
«Bene, ora puoi andare» sancì l'uomo. Il servo si accinse a rialzarsi e dopo un'ultima occhiata di sottecchi, se la svignò. Solo allora l'uomo si voltò in sua direzione.
«Ciao, Izuku.»
Ebbe un mancamento. Quel viso, quel suo sorriso, la forma del naso e del viso.
Lo conosceva eccome.
«Papà?»
Nel buio della cella, gli occhi color miele di Mina parevano fatti d'ambra e nettare.
«Cosa vuol dire due battiti?» aveva chiesto, le labbra strette in una smorfia contratta.
Il pancione sbucava da sotto il lembo della maglietta, strappata e troppo corta. Doveva sicuramente avere freddo, ma non l'avevano mai sentita aprire bocca.
Guardava Denki, il quale, restò paralizzato in preda ad una paura cieca.
Due battiti.
Lucien doveva averlo detto a voce un po' più alta di quanto credeva oppure la cella era veramente troppo piccola.
«Rispondimi, Denki!» obiettò Mina, la fronte liscia come seta, corrugata in una linea adirata. Ora che si arrischiava a guardarla in viso, pareva molto più pallida di quanto avesse immaginato.
Lo fronteggiava lei, con gli occhi grandi sgranati e le guance gonfie d'aria. I bei riccioli rosa chiaro le pendevano sulle spalle, smossi e allisciati. L'umidità di quel posto rendeva un'impresa perfino respirare. Denki stesso sentiva i polmoni in fiamme, come se qualcuno ci avesse versato dentro della lava e poi avesse richiuso senza neppure ricucire la carne.
Sentiva quel bruciore diffondersi sino alle gambe, immobili contro il pavimento.
Gli bruciava anche la spalla ferita da quel mostro. Per fortuna, gli aveva spiegato Uriel una volta che si era risvegliato, la ferita aveva un foro d'uscita, ciò significava che il proiettile non era più dentro al suo corpo. Non valeva lo stesso per il dolore; non avevano antidolorifici. Lucien faceva del suo meglio per lenire quella sofferenza, ma come egli stesso aveva spiegato, il suo quirk consisteva nell'assorbire le sofferenze dell'anima, non quelle del corpo.
Funzionava bene sui pensieri che gli impedivano di dormire, ma non poteva dire lo stesso della ferita che ardeva notte e giorno, manco lo stessero marchiando a fuoco ininterrottamente.
«Denki!»
Lo fissava senza una vera e propria espressione, pareva solo preoccupazione e sospetto. Un maschio tra rabbia e dolore. Denki avrebbe voluto prendersi il cuore e gettarlo in pasto ad un qualsiasi distruggi-documenti. Ci avrebbe fatto i conti dopo. Se lo sarebbe riattaccato alla cassa toracica con lo scotch.
«Rispondimi! Cosa vuol dire “due battiti”?» ripeté la ragazza, con una nota isterica nella voce. Le occhiaie sotto i suoi occhi erano violacee e profonde.
Denki aprì la bocca, la mosse, non me uscì nulla. Non riusciva neppure a respirare in modo corretto. Ritentò, ma di nuovo non ne venne fuori nulla.
Mina gli si fiondò addosso. Lo scrollò dalle spalle, scuotendolo come un pupazzetto. Lucien provo a separarli, ma l'alpha ringhiò infastidita, costringendolo ad allontanarsi.
«Rispondimi! Rispondi, Denki! Sei incin-»
Un boato simile allo scoppio di una bomba. Un bip prolungato. La porta si aprì con un cigolio. La luce illuminò la cella.
Mina aveva ancora le dita strette alla stoffa sottile della maglietta di Denki. Tutti e cinque i presenti, voltarono la testa verso il corridoio.
«Che succede?» chiese Lucien, guardando Ash, il figlio di Aizawa. Lui scosse la testa, facendogli cenno di avvicinarsi. Lucien lo raggiunse.
In poco tempo il corridoio si riempì di persone. Tutte ferite, tutte stanche, tutte emozionate. Si accingevano in fila, scalpitavano verso…
«Credo, sia una fuga» mormorò Uriel che aveva appena separato Mina da Denki.
Li aiutò a rimettersi in piedi.
Il bip si era interrotto, le telecamere che di solito lampeggiavano di verde, ora non emettevano più alcun colore. Dovevano essere state spente. Ma da chi?
«Allora, andiamo» sancì il soldato Uriel, aiutando gli altri ad allontanarsi dal muro. Mina annuì.
«Andiamocene» decretò e varcò la soglia della cella. Gli altri la seguirono.
Ne corridoio le persone fremevano. Tutti cercavano di raggiungere l'uscita che a quanto pareva, doveva essere parecchio lontana.
Ash strinse Lucien a sé. Gli avvolse il fianco con un braccio e se lo tirò vicino.
«Luci' stammi a sentire bene» mormorò contro il suo orecchio. Il suo profumo di muschio bianco alleggiava contro le sue narici e l'averlo così vicino non faceva altro che aumentare il suo batticuore.
«Ti prego di pensare a te stesso durante questa fuga. Pensa a salvarti e non a salvare gli altri, ti prego.»
Lucien sgranò gli occhi, sorpreso da quelle parole. Le sue labbra si schiusero, ma prima che potesse ribattere, una luce li investì. Dovevano essere vicini alla porta d'uscita.
«Ti prego Lucien, bada a te stesso» lo supplicò Ash, poi, scattò un allarme.
Un rosso lancinante e la folla che li spintonava. Erano così vicini alla porta che poteva percepire l'aria fresca sulle gote.
Poi, iniziarono gli spari.
L'ultima volta che aveva visto suo padre, aveva otto anni. Era vicino alla stipite della porta, con le mani intento a coprirsi le orecchie per impedire alle urla di sua madre di raggiungergli i timpani.
Ricordava ancora il sangue che sporcava i mobili, il modo in cui i gemiti disperati di sua mamma Inko gli avessero trapassato il cuore, spezzandoglielo.
In sere come quelle, cercava rifugio nella sua amata fantasia e immaginava di poter volare via, nel suo amato firmamento, di poter naufragare tra tutte quelle stelle, di potersi librare nell'aria, leggero come una farfalla.
Quando erano cessate le urla, aveva udito la porta sbattere e poi, più nulla.
“Se ne è andato” aveva detto sua madre il giorno dopo e lo aveva incolpato di non essere abbastanza bravo a “succhiarglielo”. Izuku non sapeva cosa volesse dire, ma il tono con il quale glielo aveva detto lo aveva fatto scoppiare in lacrime.
Gli era mancato suo padre nei giorni seguenti, ma non il padre che lo violentava, non il padre che lo stuprava a sangue, non il padre che abusava di lui e gli chiedeva di stare zitto perché aveva il mal di testa. No, gli mancava il padre che poteva essere quando non beveva, quando era abbastanza sobrio da ricordarsi cosa volesse dire essere un genitore. Gli mancava il padre che lo faceva sedere sulle sue ginocchia a giocare a schiaccia-pollice, il padre che gli sorrideva quando diceva qualcosa di intelligente, gli mancava il padre che lo faceva ridere dicendo cose sciocche, gli mancava il padre che tornando a casa da lavoro lo abbracciava. Gli mancava l'idea che si era fatto di come sarebbe potuta andare se solo quell'uomo non fosse stato così.
A volte, quando si trovava nella camera 366, si chiedeva come sarebbe potuta andare se i suoi genitori fossero stati diversi. Come sarebbe potuta essere la sua vita se sua madre lo avesse amato davvero e se suo padre fosse stato abbastanza coraggioso da smettere di bere. Si chiedeva come avrebbe potuto chiamare il cane che gli avrebbero preso e quale sarebbe stata la reazione di suo padre quando gli avrebbe presentato il suo primo ragazzo. Voleva e aveva sempre voluto una vita semplice.
Voleva avere un bambino, un alpha che lo amava, una casetta con del cibo nella dispensa e un camino acceso.
Voleva avere una famiglia che lo amava e un bambino di cui prendersi cura. Avrebbe vissuto una bella vita, forse, avrebbe perfino conosciuto degli amici.
Con Matthew. Con un uomo come Matthew, senza abusi, senza violenze, senza pianti. Avrebbe sorriso, avrebbe aiutato il prossimo, avrebbe trovato un lavoretto e avrebbe studiato.
Odiava essere ignorante, odiava non capire alcuni termini, odiava che dei maiali depravati ne sapessero più di lui. Avrebbe studiato e avrebbe trovato un uomo che avrebbe sempre rispettato il suo volere. Perché, “no” vuol dire “no”, senza alcun altra interpretazione.
Ma come poteva dire “no”, quando perfino suo padre gli aveva insegnato che la sua intera vita era fragile come carta? Come poteva negare il suo corpo se era solo quello che lo aveva tenuto sufficientemente in vita fino ad allora?
Ma ora, vedendo suo padre dinanzi a sé, a casa dell'uomo che l'aveva rapito e che voleva obbligarlo a sposarsi, non provò nulla.
Quello era l'uomo per il quale, sua madre lo aveva abbandonato. Quello era l'uomo che lo aveva messo al mondo, offrendogli più odio che amore.
«Papà…» quell'unica parola gli sfuggì dalle labbra prima che potesse fermarla, il suo cuore palpitò, gli si seccò la bocca.
Non era cambiato poi molto. La conformazione del viso era sempre quella, con la mascella squadrata e i capelli verde foglia brizzolati, il sorriso sulle labbra e il naso raccattato. Ricordava bene quando glielo aveva rotto, tirandogli una testata sulla fronte mentre provava a non farsi stuprare di nuovo.
«Izuku…» mormorò l'uomo, aveva gli occhi lucidi. Una lieve patina cristallina ad adombrargli le iridi chiarissime, simili alle sue.
Non seppe perché, ma quando quell'uomo allungò una mano in sua direzione, gli venne spontaneo arretrare, soffiando indispettito.
«Scusami, ti ho spaventato…» ritentò, allungando, ancora una volta, il braccio in sua direzione. Izuku lo fissò con odio.
«Non toccarmi» ringhiò con rabbia.
Suo padre sgranò gli occhi, le lunghe ciglia nere si estesero fino alle sopracciglia chiare. La mano tentennò. La riportò lungo il fianco, mentre gli sguardi degli altri ragazzi si concentravano su di loro.
«C-che ci fai qui?» chiese Izuku, la voce tremante come tutto il suo corpo, scosso da un fremito che non era riuscito a controllare. Quando era bambino, era più bravo a giocare con le emozioni. Le nascondeva sotto gli abiti come si fa con delle biglie colorate. Sognava di essere un grande mago, come Mister Compress, il famoso mago che guardava alla tv.
«Aspetta, non qui.»
Hisashi, suo padre, fece per afferrargli il polso, ma a metà percorso, sembrò ricordarsi ciò che gli aveva detto suo figlio e la ritrasse. Gli fece cenno di seguirlo.
Gli altri servi li guardavano di sottecchi, ma nessuno di loro aveva osato avvicinarsi, nessuno di loro aveva detto nulla ne aveva osato fermarli. Abbassavano il capo quando Hisashi passava, tanto che Izuku si chiese che ruolo avesse quell'uomo in quel posto e perché fosse ancora vivo.
Lo seguì in una stanza più appartata, un lungo susseguirsi di camere e letti. Izuku ignorò il nodo alla gola e il fremito che gli scosse i muscoli. Una volta, aveva sentito parlare di memoria “muscolare” ovvero, il corpo ricorda degli avvenimenti nonostante la mente non lo faccia. Glielo aveva spiegato Uriel durante una lezione di lettura. Izuku ne era rimasto così affascinato da rammendarlo ancora allora.
Si chiese se il suo corpo ricordasse la sofferenza che con gli abusi gli impartivano. Immaginò di sì.
«Che cosa vuoi da me?» domandò acido. Hisashi si richiuse la porta alle spalle. Si trovavano in una stanza più piccola, corredata di tappeti e scaffali di saponi, doveva essere una dispensa.
«Izuku, figliolo» pruruppe Hisashi, la voce rotta da un sentimento simile alle lacrime. Izuku lo ignorò. Non riusciva a non provare nulla dinanzi a qualcuno che piangeva, perciò girò il viso dall'altra parte. «Non sai quanto ti ho cercato…»
Un'ombra oscurò il viso di Izuku. Una rabbia lancinante gli incupì i tratti. Incontrò il suo sguardo e gli vomitò parole cattive addosso.
«Immagino! Immagino dove e quanto mi hai cercato! Nel mentre stupravi qualche altro omega o-»
«Izuku, ti prego, non dire così. So di aver sbagliato in passato, ma ora è diverso, io non sono più così. Io…sono diverso, Izuku. Figlio mio…» eccola ancora la sua mano protesa, il modo in cui cercava un appiglio, un contatto.
«Non me ne frega un cazzo» sancì l'omega adirato. Gli schiaffeggiò la mano, arretrando. Stava solo perdendo tempo. Quell'uomo non doveva neppure essere lì. Perché uno che diceva di essere cambiato si trovava in casa di un violento sadico alpha?
Non glielo chiese.
«Vuoi andartene, vero? Yagi mi ha detto di questo piano. Sono pronto ad aiutarti figliolo, ho aspettato per tanto tempo-»
«Non ho bisogno del tuo aiuto.»
Izuku si allontanò con una smorfia, dandogli le spalle. Sentiva la rabbia ribollire in lui come fuoco. Gli scaldava le vene e gli bruciava i muscoli.
«Ma figliolo! Cerca di essere ragionevole, Izuku. Io conosco tante uscite, conosco la maggior parte delle strade, conosco-»
Izuku gli gettò un'occhiata assassina. «E perché dovrei fidarmi di un pezzo di merda come te?!» ringhiò.
Hisashi incassò il colpo, chinando la testa. Il suo sguardo sconfitto non ferì nulla in Izuku. Ribolliva troppo per curarsene.
«Posso fare qualcosa allora? Dimmi tu quello che vuoi ed io lo farò» redarguì, il viso speranzoso. L'omega lo guardò disgustato.
«Come posso fidarmi di uno come te?» chiese con disprezzo. Hisashi non replicò.
«Come posso fidarmi di uno che ha abbandonato la moglie e il figlio? Di uno che stuprava suo figlio e picchiava sua moglie? Come faccio? Dimmelo perché io non ne ho idea!» sputò con astio, gli occhi verdi lucidi. Era sempre così, neppure il tempo di arrabbiarsi e già si ritrovava in lacrime.
Tirò su col naso e distolse o sguardo.
«Izuku lo so che è difficile, lo capisco perfettamente. Sono stato un pezzo di merda e mi dispiace così tanto, ma ora-»
S'interruppe. Dei passi risuonavano lungo il corridoio. Il cuore di Izuku tremò.
«Corri, nasconditi lì dietro.»
Gli aveva preso una spalla e lo aveva sospinto verso il muro dietro lo scaffale. Non ci aveva messo violenza. L'omega ancora confuso, obbedì.
Fece appena in tempo a nascondersi, rannicchiandosi contro la parete con le ginocchia strette al petto, ignorando la fitta di fastidio che i punti gli suscitarono. La porta si aprì con un lieve cigolio.
«Ah, Hisashi.»
Conosceva quella voce. Fukushūki era lì. Percepì i suoi passi pesanti e sbirciò il taglio elegante delle sue scarpe attraverso uno spiraglio dell'alto scaffale in ferro.
«Buonasera, padrone» mormorò l'uomo, il tono regolare, non c'era traccia del tremolio che glielo aveva incurvato prima. Izuku trattenne il respiro.
«C'è Izuku, vero?» chiese Fukushūki, aggirandosi tra gli scaffali. Izuku chiuse gli occhi, pregando.
Prima che raggiunse il suo nascondiglio però, Hisashi lo bloccò.
«No, padrone. In realtà penso avesse fame. Sarà andato nelle dispense in mansarda. Gli ho detto che sicuramente voi avreste voluto così.»
Fukushūki si bloccò.
«In mansarda, dici? Mmh, probabilmente. D'altronde non capirebbe mai come uscire di qui» esclamò, il tono serio.
Non capirebbe? Che voleva dire? Izuku si chiese cosa intendesse.
«Si, padrone. Ecco, sarà sicuramente lì. Lo vado a chiamare io, non si preoccupi» lo rassicurò l'altro. Fukushūki emise un lieve mugugno d'assenso.
«Mmh. Va bene, sbrigati.»
«Certo, padrone.»
Sentì la maniglia abbassarsi. Finalmente…poi però, Fukushūki si bloccò.
«Eppure, sento questi feromoni…» iniziò ad annusare l'aria. Izuku strinse i denti. Lo avrebbe trovato. Lo avrebbe riportato in cella, lo avrebbe picchiato e…
«Ah! Mi scusi, padrone. Colpa mia. Sa, mio figlio Alan sta sempre a giocare qui…» esclamò all'improvviso Hisashi.
Ci fu un attimo di silenzio. Izuku vide le scarpe di Fukushūki farsi più vicine, poi sentì la sua risata. Una risata beffarda e priva di bellezza, ma divertita.
«Ma certo! Non fa niente, fai giocare la piccola peste dove vuoi!»
Gli batté una mano sulla spalla, Hisashi cacciò un risolino.
«Va bene, vado» imboccò la porta e finalmente lasciò la stanza. Percepì la porta richiudersi, i suoi passi allontanarsi sore di più, fino a sembrare un eco lontano. Izuku tirò un sospiro di sollievo.
«Puoi uscire, Izuku.»
Hisashi gli porgeva la sua mano per aiutarlo a rialzarsi. L'omega non l'accettò. Si rimise comunque in piedi da solo.
«Ora ti fidi un po' di più?» chiese. Izuku lo guardò disgustato.
«Un figlio? Un altro figlio?» redarguì con disperazione. Hisashi abbassò nuovamente il viso.
«Mi dispiace, Izuku. Però con lui mi comporto bene, lo adoro tanto.»
Lo adoro tanto. Izuku avrebbe tanto voluto che usasse quelle parole anche con lui. Ingoiò la saliva e la frustazione, cercando inutilmente di ammorbidire il nodo in gola.
«Ti odio» sancì con rabbia. Hisashi lo guardò addolorato. «Ma questo non significa che non voglio andarmene. Perciò, fammi uscire di qui. Me lo devi.»
🦋
Spazio autrice:
Eccoci qui!
Come state? Spero tutto bene.
Questo capitolo è un po' di passaggio, lo so, però succedono tante cose ed in più, inizia questo nuovo arco! Un arco finale direi, siamo agli sgoccioli ormai e non ci resta che vedere cosa accadrà!
Che ve ne sembra? Vi è piaciuto? Che pensate farà Izuku ora? Accetterà di farsi aiutare o no? E Dominic? Riuscirà a salvarsi oppure no?
Sono curiosa di leggere le vostre ipotesi ed opinioni! Vi aspetto nei commenti❤️
Nel prossimo capitolo vedremo anche Katsuki e gli altri! E soprattutto, inizieranno ad accadere cose importanti!
Alla prossima, grazie di❤️
Lilla
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top