3. Il temporale

«Ciao, Deku.»

Gli occhi del ragazzo si sollevarono, sgranandosi. Non credeva a chi aveva davanti. Gli si strozzò il respiro in gola, il suo cuore prese a galoppare come un pazzo.

«C-cosa ci fai qui?» mormorò piano, le parole che riuscivano a lasciargli la bocca.

«Abbiamo poco tempo» asserì l'altro, ignorando la sua domanda. Si guardò indietro e richiuse la porta alle sue spalle. I suoi movimenti non passarono inosservati ad Izuku, che scrutò ogni suo singolo passo, studiando i guizzi dei muscoli della sua schiena sino a discendere alle sue gambe toniche fasciate dai jeans neri.

Da quanto tempo non lo vedeva più? Il solo pensiero di averlo lì lo elettrizzava, scaldandogli la carne come un fiammifero acceso nel ventre.

«Le telecam-» iniziò, sentendo l'ansia montare nel suo corpo. Si guardò attorno, allarmato, ma prima che potesse dire o fare qualcosa il suo interlocutore intervenne, calmandolo.

«Ci ho già pensato io» concluse, poggiando una mano in avanti,
spezzando l'aria.

Senza dire altro, Izuku scese dal letto, e gli avvinghiò le braccia addosso. Lo strinse tra le braccia, lasciandosi sfuggire un singhiozzo.

«Sei pazzo» mugolò, affondando il volto contro il suo collo. Il suo profumo gli arrivò dritto al naso, ne ispirò una profonda boccata, ancora stordito da quell'incontro.

L'altro rise, ricambiando la stretta con più intensità possibile. Le sue braccia forti lo tenevano stretto contro il suo petto tonico.

«Ti sono mancato?» sussurrò suadentemente, il solito tono roco, incurante dei pericoli che li aspettavano lì, dentro e fuori. Ogni cosa si eclissava quando era lui a parlare; pareva una sorta di incantesimo, come lo era stato prima e prima ancora.

Non importava da quanto tempo non lo vedesse, per lui Dabi restava comunque impresso nella testa come uno di quei ricordi portanti. Il suo odore, il suo tatto, il suo sorriso. Ce li aveva ancorati alla testa, ci si aggrappava quando era solo e spaventato, cercava di non lasciarli andare mai.

Izuku si separò da lui lentamente, continuando a tenere le braccia allacciate al suo collo, incredulo di averlo lì. Gli occhi erano ancora lucidi e gli tremavano le mani.

«Tantissimo» confermò, la voce stracciata da un sentimento che non conosceva appieno. «Tantissimo, Touya.»

Il corvino rise. I suoi denti bianchissimi, come al solito, incantarono Izuku. L'espressione rilassata del suo viso gli infuse una strana calma. Fece fatica a staccare gli occhi da lui, ma quando ci riuscì, gli fece cenno di sedersi accanto a lui su quel materasso lurido.

Le labbra del ragazzo si storsero appena. Gettò un'occhiata disgustata al letto macchiato per poi sospirare rassegnato e raggiungere l'omega.

«Ti fanno dormire su questo schifo?»

Il ragazzo annuì. Il suo viso troppo disteso per dimostrare una vera percezione del volto della sua anima.

«Mi dispiace tanto, Deku» sussurrò il corvino, abbassò la testa, come se fosse esclusivamente colpa sua.

«Ehy.»

Lo accarezzò piano sulla guancia, percorrendo la sua pelle liscia, gli piacque perfino il brivido che lo attraversò, quando toccò con il polpastrello i piercing gelidi.

«Non è colpa tua, To'. Non è colpa di nessuno» soffiò, la voce ridotta a uno spiraglio d'aria. Tempo prima gli dicevano sempre che la sua voce era inutile, odiosa. Che doveva restare in silenzio e ciarlare il meno possibile, che la voce di un omega serviva solo a compiacere un uomo. Col passare del tempo, Izuku temeva di aver lasciato penetrare quella menzogna nel suo essere, permettendogli di aggrappare quei sudici artigli alle cellule del suo dna.

Il corvino non si scostò. Lasciò che Izuku lo accarezzasse, la guancia posata sul suo palmo, le dita che percorrevano il suo viso, lentamente.

«Sto facendo il possibile... ti farò uscire da questo buco, cucciolo.»

Izuku gli sorrise. Una curva morbida e gentile, come non ne faceva da tempo, sentì lo stesso gli occhi riempirsi di lacrime, ma le trattenne, ignorando il groppo in gola.

«Scusami... ehy... no, no. Non piangere... che ho detto? Cazzo.»

Stavolta furono le dita di Touya a reclinare il suo viso all'insù, gli occhi verdi ricoperti da una linea lucidità, segno che le lacrime stavano per fare il loor ingresso.

«Scusami» biascicò, la voce ridotta a un soffio. «È solo che sono stanco, tanto stanco.»

Il viso di Touya si ammorbidì. I suoi tratti mascolini erano sempre stati nascosti dalla rigidità della mascella, ma quando cambiava espressione come faceva in quel modo, quelli diventano di panna.

«Deku.»

Lo strinse a sé, la testa riccioluta affondò nella spalla del corvino, i suoi singhiozzi vennero soffocati nella sua maglietta.

«Sssh, andrà bene...» gli mormorò, «Ti farò uscire, te lo giuro» lo rassicurò, la sua voce ebbe un fremito. Scese con la mano ad accarezzargli le spalle, un tocco gentile e lento. «Mi dispiace cucciolo, ma abbiamo poco tempo» asserì Touya dopo qualche minuto.

Il suo viso si fece di nuovo serio. «Devo spiegarti alcune cose.»

🥀


Un giorno Izuku, aveva rubato un accendino. Un accendino scrauso, appartenente a uno dei suoi clienti. Glielo aveva sgraffiniato mentre dormiva. Quello russava come un treno in partenza e puzzava allo stesso modo di bidone della spazzatura, così l'omega non si era sentito minimamente in colpa nel sottrargli quel piccolo oggetto, soprattutto dopo tutto il male che aveva ricevuto.

Nessuno - almeno per qualche giorno - si era accorto di ciò che aveva fatto, così Izuku si era goduto il suo bottino.

Aveva potuto farci un'infinità di cose; come ad esempio, provare a forzare la serratura della porta o bruciare parte del muro, sperando di poter scavare un buco grande abbastanza per permettersi di scappare, come aveva fatto il Conte di Montecristo, quel signore del racconto di cui gli aveva parlato Garfield.

Un giorno però, il signor Garaki fece un'ispezione. Izuku non seppe mai perché non lo avesse nascosto meglio, però, quando il signor Garaki trovò il suo accendino, non poté non sentirsi terribilmente male.

Non perché aveva rubato, - quello era sempre stato il minore dei suoi problemi - ma per quello che accadde dopo.

Izuku ricordava che il signor Garaki lo aveva colpito così tante volte che non aveva più potuto sfiorarsi la schiena per mesi. Ogni volta, persino ora, se doveva indossare un indumento di lana, la pelle gli pizzicava così forte che doveva toglierselo.

Ricordava che i colpi non erano stati le uniche torture che aveva dovuto subire. Se ritornava con la mente a quegli attimi atroci, poteva percepire ancora il dolore, il bruciante e insopportabile dolore che gli aveva inferto. Perfino adesso le membra gli si tendevano, la bocca gli si schiudeva, il dolore lo attraversava e gli frantumava le ossa.

Izuku non rubava. Non lo aveva più fatto da quella volta in cui aveva preso quell'accendino, non rubava perché ricordava bene il dolore e le lacrime che gli avevano strappato l'anima a metà.

Non rubava, ma quando quella sera, assieme al suo liquido e alla sua saliva, il signor Shigaraki gli si addormentò addosso, le sue dita scesero da sole fino alla tasca dove teneva il telecomando. Quello gli aveva fatto vedere il primo giorno. Izuku lo prese, lo intrappolò sotto il materasso e pregò che non andasse a finire come l'ultima volta.

🥀

C'era solo una cosa che desiderava più della libertà; poter colmare la solitudine che lo avvolgeva per tutto il giorno. Perché, in quella cella vuota, l'unico amico che aveva era suo figlio, il suo bambino, ma anche se avesse voluto, non avrebbe potuto parlargli per troppo tempo, quantomeno per non destare sospetti.

Non aveva mai avuto nessuno che tenesse a lui a parte qualche eccezione, ma ora più che mai, desiderava poter avere qualcuno con cui parlare, qualcuno con il quale condividere il suo dolore, le sue speranze, il suo passato.

Anche perché, sentiva di poter impazzire.

Il suo desiderio venne esaudito qualche ora più tardi. Erano ormai tre settimane che si trovava in quella cella, se ne stava sdraiato sul letto, contemplando il soffitto vuoto, immaginando ancora quelle stelline verdi che tanto adorava.

Un rumore sordo lo fece distrarre.
Non capiva bene da dove provenisse, ma era stato come un bussare appena accennato. Si voltò, mettendosi in ascolto. Aspettò per quelli che gli parvero minuti, ma non avvertì nulla.

Con uno sbuffo tornò a sedersi, dicendosi che se l'era immaginato.

Stava collegando ancora la costellazione del Carro Maggiore, quando lo percepì ancora. Un suono ovattato, come un tocco appena accennato.

Scattò a sedere, guardandosi attorno.
La stanza era vuota come sempre, se non per il materasso e il suo corpo. Si mosse piano, tastando l'aria circostante, fino a raggiungere il viso con il muro di fronte al letto.

Si accucciò lì dinanzi, poggiando l'orecchio contro l'intonaco.

«C'è qualcuno?» sussurrò, il tono tremulo.

Non ebbe risposta. Izuku si staccò, passandosi una mano tra i riccioli verdognoli, rassegnato.

Doveva esserselo immaginato.

Il suono proruppe ancora.

«Ehy.» Una voce sconosciuta lo fece irrigidire.

«Mi chiamo Xander. Sono anch'io un omega, un prigioniero.»

Il cuore di Izuku ebbe un fremito.
Si avvicinò ancor di più al muro, le labbra schiuse e il respiro febbrile.

«Sono Deku» disse. «Sei qui da molto?»

L'altro esitò prima di rispondere. Aveva una voce sottile, un frammento di fiato mischiato a quel leggero movimento delle corde vocali.

«Due anni.»

Izuku sentì qualcosa dentro il suo petto contrarsi. Quella risposta non gli piaceva affatto.

Due anni. Come aveva fatto un essere umano a sopportare per due anni, due lunghissimi anni quelle violenze?
Era inimmaginabile. Anche lui non era lì da meno tempo, però, almeno nella camera 366 non c'erano telecamere, invece qui doveva vergognarsi perfino quando era sul water.

«Tu?»

La domanda di Xander lo riscosse dai suoi pensieri. Scrollò la testa, chinandosi di più prima di rispondere. Diede un'occhiata ai segni contro la parete. 

«Tre settimane» farfugliò.

«Di dove sei, Deku?»

La voce di Xander aveva un non so ché di affascinante, come se il suo tono fosse intriso a metà fra miele e il sale.

«Cosa vuoi dire?» chiese confuso il ragazzo. Non conosceva altra località se non la camera 366 e questa nuova cella.

Sentì Xander sospirare.

Izuku deglutì.
Non lo avevano mai portato via, era stata sua madre a decidere per lui.

«Pochi.» proferì, la voce che tentennava.

«Anche per me è stato così.» rispose l'altro omega. Qualcosa nella sua voce gli fece intuire che stesse sorridendo amaramente, come quando si ricorda qualcosa che fa male, ma al contempo crea nostalgia.

«C'è un modo per uscire di qui?»

Quella domanda gli ronzava in testa da tempo immemore e sperò che almeno quel nuovo compagno potesse dargli una risposta, una speranza.

Xander rise, una risata dolorosa e meravigliosa.

«Sei un ottimista, eh?»

Un sospiro stanco trafisse anche le labbra del verdino. Lo era? Non lo sapeva. Non si era mai interrogato su quello.

Una porta cigolò, un rumore fastidioso e insidioso, del tutto differente al suo bussare sulla parete. Izuku rabbrividì, richiamando il ragazzo.

«Devo andare» sancì Xander e sparì.

Ora, era di nuovo solo.

🥀


Da quando aveva conosciuto Xander, Izuku, riusciva a lasciarsi alle spalle, almeno per qualche ora i suoi problemi.

Gli piaceva parlare con quel ragazzo.

Aveva scoperto che Xander, aveva iniziato a fare quel lavoro perché era stato era stato suo padre ad obbligarlo, - il quale, si era indebitato fino al collo - aveva optato per la via più semplice.
Non era l'unico figlio omega che suo padre avesse, ma come gli aveva fatto capire, era l'unico abbastanza stupido da accettare.

Quando lo avevano portato via di casa, aveva pianto per giorni, finché, non aveva iniziato ad essere picchiato.
Aveva smesso di preoccuparsi, gli aveva spiegato e aveva iniziato a smettere di essere.

Non puoi avere sogni qui dentro, gli aveva confessato, come a voler giustificare quei suoi modi anticonformisti.

Gli aveva rivelato che non c'erano stati solo alpha, ma anche beta e che nonostante quest'ultimi avrebbero dovuto provare quantomeno, ad essere gentili, erano stati solo i peggiori.

Gli aveva dato consigli su come dormire quando aveva la nausea,  - inconsapevole del fatto che Izuku aspettasse un bambino, gli aveva spiegato come costruire una piccola abajour con la lampadina del soffitto, gli aveva consigliato cosa mangiare subito e cosa lasciare da parte.

Era un bravo ragazzo.

Izuku non poteva vederlo, ma se lo immaginava dolce, con gli zigomi alti e un sorriso smagliante, uno di quelli che solo a vederli ti contagia, facendoti venire da ridere anche a te. Un ragazzo morbido ma longineo nelle forme, a modo, con le dita piccole e lunghe.

A volte, perfino di notte, Xander lo ascoltava. Izuku parlava e parlava, la lingua in preda a una frenesia sconosciuta, le parole che gli scivolavano come miele dalla bocca.

Xander stava in silenzio ed ascoltava. Alla fine del discorso, diceva cosa ne pensava e gli consigliava cosa fare.

Izuku era felice che almeno Xander sapesse che esisteva.

A volte, nel buio della stanza, immaginava che nessuno fosse a conoscenza della sua esistenza, e che un giorno, sarebbe morto e tutti avrebbero continuato la loro vita, senza farsi troppi problemi e lui, sarebbe stato solo un nome in cima a una lista di dispersi o di morti dispersi.

Però, c'era Xander, e c'era Touya che seppur in condizioni brutte poco meno delle sue, continuavano a sapere che era vivo e gli promettevano che lo avrebbero aiutato, anche se come Xander più volte gli aveva detto, nessuno poteva salvarsi da lì.

🌼


La terza visita avvenne una sera,  dopo quattro settimane precisamente che Izuku si trovava lì. Nel sentire cigolare la porta, era scattato a sedere, portandosi la coperta a coprirsi meglio il corpo.

La flebile luce della stanza, illuminò la nuova figura, conferendogli ombre grottesche.

Nell'aria ghiacciata della stanza, Izuku, percepì il respiro di quella figura come una folata di vento.

«Ascoltami bene» asserì l'uomo. Il suo tono roco sembrava conferirgli un'aurea misteriosa. «Non devi, per alcun motivo, fidarti di nessuno, specialmente di te stesso.»

Izuku corrugò la fronte.

«Chi sei?» mormorò, inclinando lo sguardo come a voler vedere meglio, ma la figura sembrava quasi oscurata, sfocata.

«Non fidarti, Deku.»

E poi, scomparve di nuovo, con un cigolio della porta, che fece sussultare Izuku.

Quella notte i sogni si erano fatti più intricati. Izuku, non riusciva a districare il cervello dalle parole che quello sconosciuto gli aveva riservato.

Prima Aizawa, ora lui.

Non capiva cosa stesse accadendo, non capiva cosa volessero dirgli.

«Davvero...sto facendo tutto il possibile, tu devi solo
«Non devi, per alcun motivo, fidarti di nessuno, specialmente di te stesso.»

Era confuso.
Confuso e dolorante, con i nervi a pezzi e l'emotività che lo distruggeva ogni giorno di più.

Ricordava che quando era bambino, sua madre gli cantava una canzoncina, per aiutarlo ad addormentarsi. Aveva un ritmo metodico, quasi una cantilena, che Izuku, adorava sentir intonare dalla voce dolce di sua madre.
La melodia era qualcosa di simile al verso di un carillon, un suono strisciante e vagamente acuto che lo faceva acquattare sotto le coperte e socchiudere gli occhi, stanco e compiaciuto.

Anche ora chiuse gli occhi, mentre cercava di rammendare il testo della ninna nanna. Scavò nei meandri della sua memoria, incurante di ferirsi con i detriti di vetro stesi lì per terra. Gli sembrava dicesse delle parole come:

Notte, è notte oramai,
notte, è notte lo sai,
dorme il gatto nell'aiuola
e non vola una parola.

Non ricordava cosa venisse poi, però amava quella cantilena. Si mise a sussurrarla piano, il buio della stanza lo soffocava, ma si impose di respirare piano. Non voleva pensare a nulla, solo a riposarsi, a dormire tranquillo, almeno per una notte.


🥀


«Deku.» La voce di Xander si diffuse lungo i suoi timpani, come polline.

Socchiuse gli occhi, mettendosi a sedere.

«Dimmi» mormorò ancora assonnato.

Si passò distrattamente una mano sugli occhi, stropicciandoli. Si era addormentato sul pavimento, mentre parlava col suo compagno, ma i muscoli ora gli facevano un male cane.

Si stiracchiò un po', mentre le domande di Xander lo incalzavano.

«Hai mai visto un temporale?»

Izuku inarcò un sopracciglio. Un cosa? Non sapeva molte cose avendo vissuto la maggior parte della sua vita chiuso in varie celle.

«Cos'è un temporale?» chiese confuso. Si sentiva imbarazzo nel non sapere, ma voleva scoprire cosa volesse dire quella parola così ronzante.

«Un temporale è quando dal cielo inizia a cadere tanta, tanta, pioggia, e ci sono tanti fulmini gialli e tanti tuoni rumorosi» spiegò il ragazzo, la voce impastata di uno stupore raro.

Izuku anche era sorpreso. «Wow» esclamò «e quando si vede?»

Xander ridacchiò.

«Si vede solo quando il cielo lo decide» gli disse col tono di chi la sa lunga.

Izuku annuì, poi si ricordò che il ragazzo non poteva vederlo, perciò emise un verso d'assenso.

«Vorrei poter vedere un temporale, un giorno» disse Xander dopo un po'.

Il viso di Izuku si contrasse; una smorfia di dolore gli inasprì i lineamenti. Avrebbe tanto voluto dirgli che ci sarebbe riuscito, che sarebbero usciti di lì, ma ora come ora, non aveva alcuna certezza.

Sarebbe stato da sciocchi incoraggiarlo.

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