29. Il teorema dell'amore
Nota autrice: Buonasera a tutti! Prima di iniziare la lettura, vi prego di leggere un secondo questo avviso. Mi scuso innanzitutto per il tempo che ci ho messo a pubblicare questo capitolo, ma ho attraversato (e sto attraversando) un brutto capitolo. Se questo capitolo esiste, è grazie a NightWatcher96 solo grazie a lei. Io ho aggiunto giusto qualche pezzettino, ma lei ha fatto tutto il resto. Lei mi ha incitata a scrivere e a pubblicare e lei mi ha dato il coraggio necessario a farlo. Le devo tutto. Un "grazie" non basterà mai a renderle tutto ciò che ho da dirle. Se il capitolo vi piacerà, vi prego di farglielo sapere, perché è tutto merito suo e perché merita tutto il mondo. Grazie mia Watchie, ed ecco, lo so che mi odierai per quest'avviso, ma spero che lo apprezzerai lo stesso. Ti voglio bene❤️
Buona lettura!
«Vorrei donare il tuo sorriso
alla luna perché,
chi di notte lo guardi,
possa pensare a te»
Tiziano Ferro
🦋
L'aria sapeva di Primavera.
Katsuki riusciva a sentire il sapore dolciastro dei semini delle piantine, la frescura dell'aria sulle guance, il pizzicore del sole sulla fronte.
I girasoli sferzavano, smossi dal vento, il sole illuminava gli spessi steli verdi, i petali giallissimi sembravano dipinti a mano vista la perfezione che ostentavano.
Katsuki credeva che tornare lì sarebbe stato distruttivo. Credeva che sarebbe stato doloroso e lacerante, esattamente come ingioiare coltelli. E aveva ragione, almeno per il dolore.
Tornare in quel posto, equivaleva ad affrontare ciò che aveva sempre preferito imbottigliare nella parte più profonda del suo Io Interiore. Era buffo; il fatto che paradossalmente cercasse di affrontare quel male dalle spire gelide e sussurranti frasi capaci di distruggere anche il più impavido degli Hero.
Lui era Katsuki Bakugo, il numero uno in tutto!
Ma non stavolta. Ora che era fermo lì, con gli occhi vacui e socchiusi per i caldi raggi del sole che rendevano i girasoli ancor più brillanti, sentiva di star sgretolandosi. Voleva farsi male solo per il gusto di capire se stavolta sarebbe stato in grado di fronteggiarlo.
Non voleva varcare la soglia perché era consapevole che sarebbe bastato un ricordo, un odore, un battito di palpebre a fargli distaccare l'anima dal corpo. Inspirò a fondo.
Non era solo per lui.
Era strano ma... ora che poteva concentrarsi sulla miriade di pensieri che affollavano la sua mente, Dominic, o meglio il suo "Domi" gli tornava in mente.
Non era stato giusto quando gli aveva dato la notizia di diventare padre, non lo era mai stato durante i momenti di passione che di passione o amore avevano ben poco. E neanche era stato corretto nell'urlare a quell'omega sempre perfetto e forte, forse più di lui, di abortire.
Chiuse gli occhi, irrigidendo i muscoli e il collo e stringendo i pugni.
Odiava quel lato di sé, quella paura futile e serpeggiante sotto le vene che lo portava sempre a voler disperatamente ovviare i problemi che la vita si divertiva a porgli dinanzi. Lui non era Ercole ed era stanco di tentare, per il rotto della cuffia, di superare le Fatiche.
Ripensò a Izuku, al bambino.
Rivide nel pensiero Dominic e il suo bambino.
Izuku era suo, Izuku lo amava, Izuku gli aveva concesso corpo e anima. Ma il tenero germoglio di vita in lui non gli apparteneva.
Dominic era suo, lo amava, lui no, gli aveva dato di tutto e di più e nel suo diafano ventre c'era una nuova vita, sangue del suo sangue. Era lui il padre. Perché? Perchè cazzo si sentiva tanto devastato?
Con Izuku non aveva avuto alcun ripensamento. Prendersi cura di lui e amarlo, accettando quasi un "bastardo".
Sospirò un'altra volta, ma stavolta era più determinato.
Varcò la soglia.
Domi non gli lasciò la mente, anzi, sembrò prendere vita al suo fianco. Katsuki giurò di sentire le dita della mano formicolare per un tocco fantasma ma che aveva da sempre imparato a conoscere.
«Domi...» sussurrò. «Mi dispiace».
La missione era molto più importante.
Il campo non gli aveva dato risposte. Era rimasto seduto sul terreno finché il sole non era calato.
Se ne era stato lì, con lo sguardo perso nel cielo, a scrutare i colori sfumati del tramonto. Non riusciva a capacitarsi del perché non gli venisse in mente niente.
Non capiva perché non riusciva a pensare ad una risposta.
Non si capacitava del fatto che Izuku stesse male, che potesse essere in pericolo. Doveva salvarlo, voleva salvarlo, ma non riusciva a fare niente se non guardare il vuoto.
Quando si era alzato da terra, aveva stancamente sospirato e la frustazione gli aveva inumidito gli occhi e fatto stringere i pugni. Non riusciva a lasciarsi tutto alle spalle.
Quell'indizio era un cazzo di enigma. Cosa voleva dire? Pensava di aver capito, ma non aveva capito niente.
Non era il campo di grano che creava un collegamento. Non c'era un collegamento, non c'era Izuku.
Merda. Cosa doveva fare? Cosa doveva pensare?
Non aveva idea di come comportarsi, non sapeva cosa pensare o quale risposta darsi.
Aveva sfogato la sua frustazione contro il tronco della gigantesca quercia che si estendeva al centro del campo. Non si era neppure curato della fitta acuta che gli aveva attraversato le nocche spargendosi sino alle vene del polso.
Il sangue gli aveva imbrattato i capelli quando se l'era passata tra i capelli. Le ciocche bionde si erano fatte appiccicose.
Aveva sospirato, frustato. Un lungo sbuffo d'aria, che si era aggiunto al vento fresco di Aprile.
Dove sei Izuku? Aveva urlato ai girasoli. Di tutta risposta loro avevano seguito il ritmo dell'aria.
«Baku-bro, dobbiamo andare» asserì Kirishima, poggiandogli una mano sulla spalla. Katsuki scosse la testa.
«Kats, lo so che è difficile però-»
«No!» Katsuki gli tirò una manata, allontanandogli la mano. «Non è difficile! È fottutamente doloroso e tu non sai un cazzo!» ringhiò, scrutandolo con gli occhi iniettato di sangue. Pareva distrutto.
Non dormiva da giorni, non faceva altro che osservare i dati, scrutare con occhi attenti le poche frasi che riuscivano a captare attraverso le cimici che erano riusciti ad attaccare ai nemici. Non ottenevano comunque niente di importante. Katsuki, avrebbe dato una mano pur di capire come arrivare a quei figli di puttana.
«Non sei l'unico che soffre» replicò Eijirou asciutto. Aveva riportato la mano lungo il fianco, ma teneva i pugni serrati. Lo sguardo altrove. Non c'era niente in quelle iridi rosse come sangue.
«Io ho perso mia moglie» gli fece notare, il tono aspro, come se parlare di quell'argomento non gli desse nulla da provare a parte dolore e rabbia.
Non pareva in grado di mostrare altro.
Katsuki si chiese come facesse.
«Ho perso mia moglie, i miei figli hanno perso la mamma, ho perso una parte del mio cuore e proprio come te, non faccio altro che cercare, lavorare, cercare e cercare ancora. Non sei l'unico che soffre, tutti abbiamo perso qualcuno, tutti. Nessuno può ridarci chi non abbiamo ed io non posso riavere lui-» sbarrò gli occhi, come se si fosse appena accorto di aver detto una sciocchezza. Serrò le labbra, sbiancando. Katsuki giurò di averlo visto tremare.
Sogghignò, guardando un punto indefinito. I girasoli brillavano come pittura liquida, illuminati dai colori del tramonto. Schioccò la lingua contro il palato, innervosito.
«Lui, eh? Quando ti scopi tua moglie chi vedi davvero sotto di te?» redarguì repentino. Eijirou gli scoccò un'occhiata velenosa. Nei suoi occhi rossi, c'era però una piccola nota d'amarezza; sembrava essere stato colpito in un punto estremamente doloroso, ne ebbe la conferma dalla maniera in cui il suo viso si irrigidì.
«Con quale coraggio vieni a dirmi una cosa del genere?!» sentenziò duro, arricciando il naso in quella smorfia che aveva imparato faceva quando era di fronte ad un villain. Lo considerava un criminale?
«Perchè, mio caro Katsuki, dovresti proprio darmi tu una risposta a questa stessa domanda! Non so come tu faccia a guardare ancora in faccia Dominic, dopo tutte le menzogne che gli riservi» sputò.
Katsuki si alzò con uno scatto, i pantaloni cargo neri si gonfiarono, un po' di terra volò via dalla stoffa. Si avvicinò pericolosamente a Kirishima. Gli prudevano le mani, sentiva già i palmi riscaldarsi.
«Vuoi picchiarmi, ora?» lo sbeffeggiò Eijirou attivando il suo quirk. La pelle si fece più spessa, gli occhi più sottili.
Katsuki si fece scrocchiare il collo.
«Tu non sai un cazzo. Non sai proprio niente, Capelli di Merda. Non capisci niente e parli anche! Bell'amico di merda!» sibilò, le labbra strette, gli occhi fissi sul suo viso. Eijirou incassò il colpo, per un attimo, Katsuki credette che lo avrebbe colpito, si preparò a contrattaccare, ma non arrivò nulla.
Kirishima aveva disattivato il quirk.
«Ok, mi dispiace. Ci stai male, vero? Mi dispiace, Kats. Mi dispiace tanto» mormorò, guardandolo compassionevole.
Katsuki ringhiò, un fischiare sordo e adirato. Non voleva la sua pietà, ma al contempo, non riusciva ad arrabbiarsi con lui. Eijirou non gli aveva mai fatto del male, non aveva fatto altro che aiutarlo, sin da quando lo aveva liberato dalle macerie.
«Se gli sta facendo del male, se, lo sta ferendo, se…» ringhiò ancora, un suono gutturale come il crepitare di un tuono.
«Cazzo!» sbraitò. Si lasciò scivolare in avanti. Detonò il suo sudore contro la terra, essa si aprì. Un po' di fumo grigiastro iniziò a salire verso l'alto.
Chinò la testa, le ciocche bionde gli finirono contro la fronte.
Era crollato in ginocchio, i palmi premuti contro il terreno, il respiro pesante.
Doveva aver urlato, perché non aveva più voce.
«Kats.»
Kirishima si era seduto accanto a lui. Non sembrava preoccupato del terriccio umido che avrebbe potuto macchiargli i pantaloni. Non lo aveva toccato, ma il suo sguardo sembrava più intimo di una carezza.
Avrebbe tanto voluto poter crollare in ginocchio difronte al suo “Domi”, piangere contro il suo ventre, lasciarsi coccolare da quelle mani morbide.
Dominic aveva i palmi fatti di seta. Ricordava benissimo le sue dita calde contro il viso, strette alle sue spalle.
E Izuku. Il suo Girasole. Dov'erano? Dove li avevano portati?! Era tutta colpa sua. Avrebbe dovuto prevenire ciò che era successo, avrebbe potuto salvare tutti, avrebbe potuto…affondò le dita nel terriccio, si lasciò sfuggire un singhiozzo. Le labbra gli tremavano.
Era colpa sua. Tutta maledetta colpa sua. Avrebbe dovuto prevenire quel bastardo, avrebbe potuto anticipare suo fratello, avrebbe potuto…le sue dita toccarono qualcosa di liscio.
All'inizio, le ritrasse convinto fosse un animale. Poi però, le riaffondò, incurante di sporcarsi. Eccolo di nuovo. Un liscio strato di…carta? Scavò intorno all'oggetto, sotto lo sguardo stralunato di Eijirou.
«Che stai facendo?» gli chiese l'amico, ma lui non gli rispose. Riuscì a tirare fuori il foglio di carta. Era sporco, ed era ripiegato un paio di volte su sé stesso.
«Cos'è?» chiese ancora Eijirou.
Katsuki corruggò la fronte. Prese a studiarne i bordi. Sotto i polpastrelli, la carta gli sembrava proprio quella di un foglio da disegno.
«Aprilo» gli suggerì l'altro. Gli tremavano le mani. Prese a sbrogliare la carta. Le pieghe erano sottili, i colori si mischiavano alla terra che li incupiva.
Quando riuscì ad intravedere i primi tratti del disegno, assottigliò lo sguardo. Passò un palmo su di esso, ripulendolo dalla terra e dalla sporcizia. Lo avrebbe riconosciuto tra mille, ma rimase comunque a scrutarlo con interesse.
Un girasole. Uno splendido girasole giallo come il sole, luminoso come il suo sorriso. Gli sfuggì un altro singhiozzo. Era realizzato a mano, i colori parevano sfumature naturali, un gioco di ombre ne oscurava il centro.
Avrebbe ricordato quel lieve tarscinare i segni persino se fosse stato cieco.
Izuku. Il suo Izuku. L'Izuku che disegnava.
Quel disegno. Kirishima si sporse per guardare meglio. Ignorò il suo viso confuso e prese a ricalcare i bordi del disegno con le punte dei polpastrelli.
«'Zuku…» soffiò, il suo respiro si disperse, un mormorio troppo basso. Il vento gli portò via le sillabe.
Quando aveva disegnato quel fiore? Era un pomeriggio o una sera? Ricordava che erano in quello stesso campo, forse un po' più vicini all'albero, forse…forse, Izuku era più vicino di quanto pensasse.
Izuku accarezzava distrattamente il diario.
Le pagine ingiallite e logore rumoreggiavano dolcemente sotto le sue falangi con un rumore abrasivo.
Aveva sfogliato ben poco e in quei frangenti si era reso conto che qualcosa di incomprensibile aveva preso possesso della sua mente, una parte decisamente ben poco lucida.
Forse, un confine invalicabile.
Non riusciva a capire nulla, neanche le parole sbavate su alcune pagine.
La carta aveva quell'odore di vecchiume quasi piacevole ed era così fragile.
Mentre sfogliava l'ennesima pagina, però, si tagliò il medio. Sussultò, facendo cadere il diario in terra. Poche gocce di sangue piombarono sulla carta.
Izuku smise di agitare la mano che pulsava: sul diario, le gocce iniziavano a tracciare silenziosamente delle strie.
Un girasole che puntava verso una casa.
Il disegno era bello, sembrava tracciato da un esperto disegnatore. Ne fu così curioso e affascinato da poggiare istintivamente l'indice su di esso. E improvvisamente i suoi occhi puntarono al vuoto, ampi e completamente vuoti.
«P-perché...».
Katsuki guardava il foglio di carta con le lacrime agli occhi.
«Izuku, ti prego... dove sei? Non ce la faccio senza di te... io... non sono più disposto a perderti!».
Tolse la mano, annaspò, cadde con la schiena contro il letto. Il pavimento era freddo sotto le sue gambe nude. La larga maglia grigiastra copriva appena la sua virilità celata sotto un paio di mutande bianche.
Izuku ritirò le ginocchia al petto, respirando affannosamente e fissando spaventato il diario. Il girasole era sempre lì, in mezzo alla pagina.
«Che cosa è stato?» si domandò sottovoce.
Il bordo del letto premeva contro la nuca ma non gli importava. E neanche del fatto di come fosse freddo quell'abrasivo pavimento di pietra che graffiava la sua pelle ad ogni movimento.
Fuku-san l'aveva fatto rinchiudere in quella stanza dopo averlo strapazzato per bene.
Sussultò a una fitta sotto il ventre.
Poggiò istintivamente la mano, con il cuore che si spezzava. Improvvisamente, la stanza illuminata da una fioca candela, non era più nitida. Ogni sagoma tremolò, le sue palpebre si appesantirono di lacrime.
«Matthew...» sussurrò, sbattendo le lunghe ciglia. «Ho paura per il bambino».
Sentiva ancora uno sfarfallio nella pancia, come i calcetti del suo cucciolo ma sapeva che erano solo beffarde imitazioni del suo subconscio.
«Il mio bambino» ripeté.
Portò il diario al petto, chiudendo gli occhi. Pianse in silenzio, nella paura di poter essere scoperto.
Dov'era Katsuki?
Sarebbe venuto a cercarlo?
Sorrise appena. Anche in quel momento pensava a lui?
Lo guardava e se ne innamorava.
Lo guardava e sapeva che era lui l'oggetto del suo desiderio.
Lo guardava e si rese conto che, ancora una volta, a causa di suo fratello Katsuki, non avrebbe mai e poi mai avuto il cuore di Izuku.
Li aveva visti al tramonto, sotto una piccola balaustra, con le mani strette e gli occhi languidamente innamorati.
La rosa bianca che aveva colto per lui, quel meraviglioso ragazzo dagli occhi verdi, cadde in terra, con un suono lieve e appena udibile.
«Kacchan, ti amo tanto...ma...».
L'altro gli premette un dolce bacio sulla guancia, appena sotto l'occhio destro illuminato dai raggi del sole arancio. Era bello come un topazio prezioso.
«Non gli permetterò di averti. Tu sei mio, Izuku e siamo destinati a stare insieme».
I due si baciarono.
Fu un tocco lieve, quasi timido ma ben presto si accese in una rovente passione. Le labbra danzarono con lievi gemiti, le lingue si incontrarono in uno scambio di gusti per crearne di nuovi, le mani frementi accarezzarono ogni lembo di pelle e tessuto.
Il ragazzo dietro ai cespugli era indignato. Gli occhi alabastro vitrei di lacrime diventarono due spiragli di collera e la rabbia inacidì il cuore, lo stesso che aveva pensato di poter colmare con un amore idilliaco.
"Se non potrò averti io, Izuku, allora nessun altro potrà farlo!" sussurrò.
In fretta lasciò il posto, incurante di rumoreggiare sull'erba che rivestiva quel sottobosco che conduceva alla casa bianca e alta della famiglia Bakugo.
Izuku sussultò, improvvisamente spaventato. Cercò riparo contro il petto di Katsuki.
«Cosa c'è?» gli domandò quest'ultimo, preoccupato.
«Mi era parso di sentire qualcosa».
Ma il biondo che gli prese il volto tiepido tra le calde mani lo baciò e così mise a tacere tutte le più serpeggianti sensazioni negative.
Se solo avrebbero prestato attenzione, però!
Fukushūki era da sempre stato intelligente, studioso e anche un velocista. A differenza di Katsuki che era portato per la spada e soprattutto matematica e geometria, per lui c'era sempre stata chimica e, sebbene come passione segreta, l'alchimia.
Un giorno si era spinto fin nella porticina segreta del seminterrato della casa e aveva deciso di scoprire cosa vi fosse stato di così terribile da portare Mitsuki e Masaru a negarne l'accesso.
Aveva scoperto una piccola libreria piena di tomi ingialliti e gonfi di umidità. Dal primo all'ultimo li aveva divorati ed era rapidamente divenuto un abile... mago?
No, lui non amava definirsi tale ma un Esoterico esperto in maledizioni.
«Mi dispiace. Ma tu mi hai fatto molto male, Izuku» mormorò.
Era chino sul libro più spesso e grosso che custodiva sotto al suo letto, nella camera di fronte a quella di Katsuki al secondo piano.
Il suo era uno sguardo folle, ampio ma anche pieno di lacrime.
Non sapeva quante pagine avesse già sfogliato ma a giudicare dal cielo che era divenuto più scuro e cosparso di stelle, doveva averci impiegato molto.
Trovò la pagina che cercava, dove capeggiava un cerchio con un pentagono.
Si infilò la mano nella tasca: poggiò sul libro un petalo di un girasole un po' rinsecchito. Aveva il profumo di Izuku sopra.
«Ti maledirò. Izuku, tu non puoi vivere» mormorò con una risata folle. «Non puoi vivere sapendo di aver negato a me l'amore!».
Quella sera di fine maggio, un bagliore magenta esplose nella stanza e sul collo di Izuku comparve il segno della maledizione. Katsuki provò a scuoterlo, nel vederlo con gli occhi aperti e la paura nel cuore. Allora pensò di baciarlo... ma improvvisamente il corpo del suo amato si fece pesante e molle tra le sue braccia.
"IZUKU!" urlò.
Era mortalmente pallido come una bambola di porcellana, gli occhi socchiusi e vuoti. La scintilla di vita era scomparsa dalle sue pozze smeraldo.
Katsuki provò a sentirgli il cuore, a capire cose fosse successo.
Strappò rudemente la camicia ecrù un po' troppo grande per lui eppure così peccaminosa perché da sempre aveva lasciato scoperto il collo niveo, la clavicola e parte del petto.
Nulla.
Non un battito. Katsuki sentì il polso.
Ancora un nulla.
«Izuku...» il suo fu un lamento strozzato.
Il suo amato era senza vita e stava perdendo sempre più calore.
«L'amore è un sentimento particolare, Fratello.»
Il biondo si voltò di poco. Suo fratello applaudiva ma anche lui era pallido, con un occhio completamente nero, come i segni orribili che si erano espansi su Izuku dal collo, alla spalla fino al cuore. Erano ghirigori frastagliati, qualcosa di incomprensibile per la mente umana.
«Fa male, non trovi?»
«Che cosa hai fatto, maledetto?!» ringhiò il biondo, sollevandosi in piedi.
L'altro semplicemente rise, ma lo fece in modo leggero, come se non avesse avuto abbastanza forze. Tossì appena, un rivolo di sangue gli colò lungo il mento.
«Che cosa hai fatto al mio Izuku?!» urlò Katsuki. In un attimo gli afferrò il bavero della giacca nera. Il fratello guardò mellifluo la chioma verde dietro alle spalle dell'altro, immobile e silenziosa.
«Che peccato. Era un così bel fiore».
«Hai ucciso Izuku!».
«Ti sbagli. L'ho soltanto maledetto. Sei stato tu ad ucciderlo».
Katsuki si ritrasse un po', incredulo. Lo lasciò andare. L'altro lo superò di poco ma improvvisamente inciampò nei suoi piedi e finì su di lui.
«L'ho maledetto per l'eternità. La morte non l'ha salvato, fratello» gli sussurrò in un orecchio. «Morirò anche io. Era una magia proibita per chi avesse ancora l'amore nel cuore. Ed io non lo sapevo... ma va bene. Nessuno di noi avrà mai più Izuku.»
Katsuki rimase immobile, con lo sguardo puntato al cielo nero.
«Che cosa vuoi dire?»
L'altro si afflosciò sulle ginocchia, poi su un fianco. Sorrideva ancora anche nel mentre che la vita si apprestava a lasciare il suo corpo.
«Ogni Katsuki ucciderà Izuku. Non siete fatti per stare insieme. Te ne innamorerai ogni volta e ogni volta lo ucciderai per via del tuo amore» disse Fukushūki . «Non ti sembra magnifico?»
Katsuki non rispose. Suo fratello prese un ultimo rantolo, poi morì.
Fuku guardava il fuoco nel caminetto. Scoppiettava, era rosso e giallo, danzava e illuminava.
I suoi occhi erano fissi ad esso ma non si muovevano affatto. Nella sua mano destra un calice di vino attendeva solo di venir sorseggiato.
Le iridi gelide e cupe si spostarono al fuoco. Sorrise appena.
«Anche adesso penso a te... mio orrendo fratello» mormorò.
Sorseggiò il liquido rosso come il sangue. Il bicchiere ora vuoto era un impiccio, così lo scagliò pesantemente nel fuoco senza curarsi del rumore che scoppiettò appena. Si voltò verso la scrivania. Un piccolo petalo di girasole capeggiava su un ammasso di fogli di carta.
Sogghignò, ma poi ridacchiò.
Aveva voglia di fare una chiacchierata con una persona che non avrebbe affatto dimenticato.
Dominic guardava il cucciolo tra le sue braccia.
Era piccolo, forse più del dovuto, con un nasino piccolo e un visetto meno pallido. Il suo petto si alzava ed abbassava lentamente e il respiro risuonava tranquillo. Era vivo, era meno moribondo.
Lo strinse a sé, strofinandogli appena il mento sulla testa.
«Ti ho osservato per bene... e non somigli molto a colui che mi ha rubato l'amore, sai? Ma in quanto futuro genitore non posso odiarti» disse Domi, con un lieve sorriso triste. «Probabilmente non mi conoscerai mai...»
Puntò lo sguardo addolorato al soffitto e all'unica finestrella sbarrata dove filtrava una luminescenza biancastra. Non sapeva cosa fosse ma di certo non la luna.
«Non posso permettermi di perderti» sussurrò. Poggiò la mano sullo stomaco. Le dita accarezzarono delicatamente, come una ricerca silenziosa nel trovare cambiamenti. Domi sospirò appena.
«E pensare che non sei neanche stato felice» riprese.
«Che cazzo vuol dire che sei incinto?»
Domi incrociò le braccia al petto. Katsuki lo aveva trascinato in camera da letto dopo quella notizia, aveva sbattuto la porta e ora lo fissava in cagnesco.
Gli venne da ridere nella più cupa amarezza.
«Sono incinto. Cos'è? Sei talmente felice da esserti rincretinito, Katsuki-san?» Domi gli si avvicinò con un sorriso quasi beffardo. «Tutto quel sesso senza protezione mi ha messo incinto. Il bambino nel mio grembo è tuo figlio. Frutto del nostro amore.»
Tentò di accarezzargli la guancia ma l'altro si staccò ancor prima di percepire quel tocco leggiadro. Domi nascose un lampo di dolore con un'espressione rabbiosa.
«Certo! Fai questa scenata perché io non sono il tuo Izuku, vero?!»
Katsuki lo guardò con la coda dell'occhio e il capo un po' ricurvo in avanti. I muscoli rigidi del suo collo si intravedevano nello specchio dell'armadio alle sue spalle.
Domi guardò il letto e poi il comò. Chissà se avrebbe mai avuto la gioia di tenerci qualche tutina per il bambino?
Ma quel dolce pensiero sfumò allo scoccare della lingua di Katsuki contro i denti.
«Che c'entra lui?»
Domi fece una risata di scherno: «Sei assolutamente un fenomeno, Katsuki-san!»
«Non ci credo che sei incinto!» soffiò l'altro, con rabbia crescente.
Domi portò istintivamente la mano sullo stomaco: questo non passò inosservato al biondo. Anzi, sollevò perfino le sopracciglia nello stupore ma durò davvero troppo poco perché gli afferrò le braccia per cercare i chiari occhi verdi come il prato di agosto.
«Sono incinto. Sono stato male e ho fatto un test da solo. Dopo le gravidanze di Mina, ho imparato come si fa»spiegò l'altro. «Non sei felice?»
«NO! Come potrei esserlo! Siamo nel bel mezzo di una battaglia e tu te ne esci con questa storia!»
Domi lo spintonò sul petto, facendolo barcollare indietro.
«Sei spregevole, Katsuki-san! Hai accolto un Omega incinto, hai scopato con lui alle mie spalle ed ora mi fai la ramanzina?!» urlò con occhi pieni di lacrime. «Come puoi accusarmi che non sia vero? Che, quasi, non sia tuo?» riprese con voce affranta e bassa.
Il biondo tacque. Sotto le labbra premute insieme in una linea orizzontale, i denti stringevano con forza, in proporzione alla sua collera. Non ci credeva! Era assurdo!
«È mio?»
Domi si prese un istante per guardarlo, incerto se fosse stata una domanda retorica oppure una vera.
Katsuki inspirò a fondo in un blando tentativo di calmarsi. Poggiò la mano sul bordo del comò, in una silenziosa attesa e un trepidante invito a continuare la conversazione.
«Non sono come te che mi scopo il nemico» gli sibilò. «Certo che è tuo!»
Katsuki si passò nervosamente la mano sul viso, scuotendolo.
«No. Mi rifiuto di accettarlo, Dominic!» disse. «Abortisci! Non voglio! Non lo voglio!»
«E chi cazzo vuoi? Solo il tuo fottuto Izuku, non è così?» urlò l'altro, istericamente. «Se ora venisse qui a dirti che aspetta un figlio tuo che cosa gli diresti?!»
Katsuki non rispose ma deglutì solo.
Domi fece piombare le braccia lungo i fianchi.
«Esattamente, Katsuki-san» rispose con voce incrinata. «Ora vattene. Vai pure dal tuo amante che saprà consolarti visto che non abortirò.»
Improvvisamente, il biondo gli afferrò i polsi e lo spinse sul letto. Le molle protestarono con un cigolio e il materasso ondeggiò appena. Domi lo guardò profondamente, in silenziosa attesa.
«Avanti... fammi abortire tu» gli disse con lieve scherno.
Katsuki gli sollevò la camicia. Il ventre aveva un leggerissimo gonfiore, appena pronunciato, giusto intorno all'ombelico. I fianchi erano sempre sottili, così come i capezzoli rosati e turgidi. Portò sopra una mano senza far altro.
Domi chiuse gli occhi, sospirando. Guardò la porta con disinteresse.
«Cos'è? Stai ancora cercando la verità? C'è un bambino dentro di me, che ti piaccia o no ed è tuo figlio.»
Il biondo gli schiacciò il viso tra il collo e la spalla, attento nel tenere una posizione a cavalcioni sull'inguine. Domi aspettò che gli lasciasse libero anche l'altro polso per poterlo abbracciare. Le dita cercarono subito di infilarsi tra le ciocche bionde che da sempre aveva amato, fin dall'inizio, da quando con l'aveva visto arrivare a salvarlo con una forte esplosione.
«Katsuki-san...» sussurrò.
L'altro inspirò a fondo l'odore, leccando la ghiandola giusto tra il collo e la mandibola. L'odore aveva quella nota vanigliata tipica degli Omega gravidi.
Chiuse gli occhi, scoccando un bacio tenero ma lungo.
Era tutto vero.
«Domi» disse.
«Vai e schiarisciti le idee, Katsuki-san.»
Il biondo si sollevò sulle braccia. Domi era bellissimo, con un'espressione rammaricata, delusa ma ancora così piena di amore per lui.
Scese dal letto con un balzo agile e uscì da quella stanza senza neanche voltarsi indietro.
Non si curò delle lacrime del suo ragazzo sulle guance, né delle mani sul ventre.
Cercò Izuku: solo lui lo avrebbe capito.
La porta cigolò alle sue spalle. Domi si voltò lentamente e l'orrore pietrificò il suo volto. Strinse il bambino di Izuku al suo petto con più forza, l'altra mano volò al suo ventre.
Lui era lì.
Pronto per divorarlo.
Da bambino, quando Denki stava male, sua madre gli portava sempre una grande tazza di latte e miele. Adorava inzupparci i biscotti e gustarsi il loro sapore dolce, amava il modo in cui le sue papille gustative facevano i salti di gioia ogni volta che un po' di zucchero gli finiva sulla punta della lingua.
Amava il dolce, lo aveva sempre amato, così come amava le attenzioni che gli riservava sua mamma, ma da quando era morta, tutto era cambiato.
Suo padre non lo aveva mai conosciuto. Sua mamma non gliene voleva parlare mai. Diceva che era uno stronzo, un bugiardo.
Denki non le chiedeva mai niente di lui. Lo guardava ogni tanto, dalla foto appesa in salone, dove sua madre e suo padre sorridevano all'obiettivo. Era in bianco e nero, perciò non era mai riuscito a capire di che colore fossero i suoi occhi.
Quando era piccino, osservava la foto dal tappeto, le gambe strette al petto e le braccia a cingerle. Non aveva mai avuto molti amici, però, quando era entrato alla Yuei, aveva conosciuto Kirishima.
Eijirou.
Il suo primo pensiero, vedendolo, era stato che uno così, doveva essere davvero tosto. Aveva avuto quasi il timore di avvicinarsi, lo scrutava e sorrideva scioccamente.
Era stato Kirishima a chiedergli se volesse sedersi accanto a lui, a lezione. Era stato Kirishima a chiedergli di fargli compagnia a mensa, di sedersi accanto a lui e Bakugo, era stato lui a sorridergli per primo quando faceva qualche battuta.
Ricordava di aver pensato che sua madre non lo aveva mai ascoltato davvero, che a quel ragazzo doveva davvero importare di ciò che aveva da dire. Non sembrava infastidito dalle sue battute.
Sorrideva, o meglio, gli sorrideva. A lui, a Denki, al povero, piccolo, Denki. Nessuno gli aveva mai sorriso così, sembrava illuminare la stanza col suo solo sorriso.
Eijirou Kirishima.
Denki capì troppo tardi che era di quel sorriso che si era innamorato, e che, era proprio per colpa di quel sorriso che si era innamorato.
Non era Aizawa che aveva sempre voluto, era Eijirou, ma come poteva? Non aveva di certo dimenticato gli occhi di lui quando guardava Mina. No, Eijirou non sarebbe mai stato suo ed era proprio per questo che aveva smesso di guardarlo, o almeno credeva di averlo fatto, almeno finché, Eijirou lo aveva baciato.
Sì, lo aveva baciato.
Era ubriaco, piangeva e sul tetto di un palazzo lo aveva baciato. Con così tanta foga che Kaminari aveva avuto paura di scivolare dal cornicione e spiaccicarsi al suolo. Per questo si era aggrappato al petto di Eijirou, per questo, e anche perché aveva avuto paura di lasciarsi sfuggire il cuore.
Non avrebbe certo dovuto accontentarlo, non avrebbe dovuto ricambiare il bacio, non sarebbe dovuto andare a letto con un uomo sposato, con il padre di due bambini innocenti, ma cazzo se era stato il sesso più bello della sua intera vita.
Amore, avevano fatto l'amore e la passione li aveva travolti più e più volte.
E aveva cercato di non pensare a quanto fosse giusto percepire l'ansimare di Kirishima contro il suo orecchio, il modo in cui i loro generi naturali su cercassero, il modo in cui le loro mani si erano intrecciate, i segni che aveva lasciato sulla sua schiena.
E il modo in cui aveva gemuto il suo nome, come se non riuscisse a fare altro se non assaporare il gusto dolce del suo nome sulle labbra.
E quando lo aveva baciato mentre venivano, mentre Eijirou lo riempiva.
Si era sentito bene quando gli era crollato addosso, con il respiro corto e il corpo sudato. Gli aveva sussurrato all'orecchio quelle cose sporche, il suo nome soffiato da quelle labbra… il modo in cui aveva ringhiato quando era tornato ad affondare in lui.
Possessivo e passionale.
Si rifugiava in quei ricordi, nel sorriso radioso di Eijirou, nel modo in cui credeva il ragazzo lo avesse amato, nel raschiare del suo tono quando l'orgasmo gli portava a rovesciare gli occhi all'indietro.
Denki non aveva nessuno, non più.
Però, nella sua pancia c'era il bambino di Eijirou e ora, mentre il nome di lui lasciava la sua bocca, qualcosa gli inumidiva le gambe e il sangue sembrava così maledettamente familiare che lo indusse a portare la mano sul ventre e pregare inutilmente che quel sangue non fosse il bambino. O forse sì.
«Stai bene, Denks?» gli chiese Mina, avvicinandosi.
Si era ritratto, dandole le spalle. Sentiva le lacrime premere per uscire. Non voleva farfugliare, perciò annuì. Tirò su col naso.
«S-sto bene» aggiunse, cercando di non far tremare la voce. Mina non gli credette. Gli si avvicinò, la sua mano gli cinse la spalla.
Denki sussultò.
«Denks, puoi parlare con me. Stai male?» gli domandò l'alpha, inginocchiata accanto a lui. Le due spalle si fecero più piccole.
Non poteva parlarle, non doveva parlarle. Lui non la odiava. Odiava sé stesso e quel bambino, ma non voleva perderlo. Non ora. Era l'unica cosa che gli restava di Eijirou ed era l'unica cosa grazie alla quale non era ancora crollato.
Il suo respiro si fece più rapido.
«Mina ti prego, lascialo stare, sento il suo dolore da qui. Mi sta distruggendo.»
Era stato Lucien a parlare ed erano le prime parole che diceva da una settimana.
Ash sgranò gli occhi, osservandolo, così come Mina, Uriel e Denki stesso. Lucien non sembrava turbato. Aveva lunghe e profonde ombre violacee sotto gli occhi. L'espressione vacua.
Ma come facevano? Come facevano a non mostrare niente, a svuotarsi così come fossero semplici contenitori d'anima?
La sua, di anima, sbatteva prepotentemente contro il suo corpo, in cerca dell'uscita e si riversa fuori da lui ad ogni minima occasione. Ogni volta, riacciuffarla diventava un problema.
«Dolore?» mormorò Mina, non capendo.
Lucien non disse niente, si avvicinò a Denki e gli prese la mano.
«Chiudi gli occhi» gli sussurrò Lucien. Denki obbedì. «Sta bene. Sento il suo battito, i vostri battiti» asserì, un fiocco soffio di voce.
Denki sgranò gli occhi color miele.
«Dici davvero?» quasi urlò.
Lucien annuì.
«Sta bene, ma hai bisogno di riposo, se non vuoi perderlo.»
Fu a quel punto che sentirono la porta scattare.
🦋
Spazio autrice:
Eccoci qui, ho detto già all'inizio quanto io sia grata alla mia Watchie per questo capitolo e se vi è piaciuto è solo grazie a lei, è una grandissima scrittrice❤️
Spero che vi abbia fatto emozionare come succede a me ogni volta e vi ringrazio per aver letto fin qui.
Scriveteci nei commenti cosa ne pensate, se vi va, è un grande supporto per noi ricevere commenti❤️
Alla prossima,
-Lilla
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